Palazzeschi, Aldo7 Novembre 2007 “Il codice di Perelà ”Mondadori, pagg. 276. Euro 6,80 L’incipit del romanzo lascia intendere che l’autore ha scelto la via dialogica per dare significato e sentimento al suo lavoro; una scelta che condivido, giacché sono i dialoghi che intessono in prevalenza i rapporti umani. Palazzeschi vi aggiunge poi il sale della sua visione ironica e sognante, incantata e parossistica della vita, e così noi abbiamo a che fare subito con un individuo che emette, in un intercalare continuo, strane parole che paiono senza senso, ma saranno poi spiegate: “Pena! Rete! Lama!”, da cui “Pe… Re… La…”, ossia Perela, dal quale, dopo che qualcuno dei protagonisti lo ha perfezionato, il nome del personaggio principale Perelà , e il titolo del libro: “Il codice di Perelà ”.  A chi lo incontra, questo singolare individuo pone più di un interrogativo (“Di che cosa siete, signore?), fra i quali il più importante è se egli sia o meno un uomo come gli altri: “di uomo mi sembra non abbiate che le scarpe.”, gli dicono. Lui infine risponde che è un uomo di fumo ed è “tanto leggero”. Come può accadere nelle fiabe, è in viaggio verso una città governata da un re, Torlindao, circondata da mura e con porte vigilate da gabellieri. Ricevuto alla corte del re, risponde che viene “Di lassù.” e che prima di “scendere alla luce” vi è rimasto più di trent’anni. “Lassù” è la cima di un camino, al cui interno, come dentro un utero nero, egli ha preso forma di uomo di fumo, in forza del fuoco sempre acceso, “Anche nel mese d’Agosto”, e durante questa lunga gestazione lo hanno accudito “tre vecchie madri”: Pena, Rete, Lama. Gli hanno insegnato molte cose e soprattutto che non sarebbe stato più solo, e avrebbe fatto un viaggio nel mondo. Possiamo perciò desumere che quell’intercalare, quella insistente e profetica invocazione alle madri, non sia altro che la continua dolorosa ricerca di una conoscenza su cui poggiare una speranza e una fiducia nella vita, davanti alla quale, quando vi ci si affacci, qualunque sia la nostra età , ci presentiamo sempre come fanciulli vestiti di purezza (il fumo è il risultato, infatti, del fuoco purificatore) e leggeri, ossia manchevoli di una esperienza – quasi sempre contaminatrice e che non si colma mai – tanto importante quanto la vista per un cieco: “Io dovevo vedere”. L’essere un uomo di fumo, ossia un individuo così particolare, con una sospensione forse all’infinito della vita, desta la meraviglia di tutti (“Trentatré anni or sono foste messo lassù, nel vostro camino, giusto quando io nasceva. Se allora aveste continuato a vivere avreste oggi sessantasei anni, non è vero?”, gli dirà la Marchesa Oliva di Bellonda, che resterà vicina a lui anche nelle ore della sventura) e, invitato alla corte del re, subito lo si considera il più rimarchevole tra gli ospiti, e gli si faranno intorno molti artisti, banchieri, filosofi, scienziati, prelati e uomini rilevanti di ogni sorta, mettendosi prontamente e largamente al suo servizio, e dando vita ad una esilarante galleria di personaggi, che sono poi i tanti vanitosi, lamentoni, mestatori, opportunisti, ciarlatani e logorroici che popolano la terra. Le risposte che Perelà offre alle loro domande e le conclusioni alle loro argomentazioni, suscitano sorpresa e sconcerto. Perfino le sue perplessità sono tenute in gran conto. Lo incaricheranno di redigere un “Codice di Perelà ” per il regno che lo ospita, giacché “Le nostre leggi attuali, signor Perelà , hanno bisogno di innovazioni radicalissime”. Palazzeschi sbizzarrisce con questo personaggio estrosamente inventato tutta la gamma della sua ironia e del suo gusto del divertimento e del paradosso portandoli ai suoi estremi (il sole “essendo un pezzo di carta, leggerissimo, rimane sempre su, come l’aquilone.”; “Ottenere il vuoto è l’arte sublime del poeta.”; “Quando un uomo ha detto della propria specie tutto il male possibile, dicono che è un filosofo.”). Il capitolo “Il thè” dedicato alle donne di corte è esemplare. Andato per scoprire il mondo, è il mondo che gli si fa incontro e si presenta con le sue vanità e stranezze. Perelà sta in mezzo, dà udienza e ascolta, e quando arriva il turno delle donne, esse si presentano ciascuna con un proprio racconto che dovrebbe svelarle. Da esse pare che Perelà , uomo di fumo, riesca a estrarre e liberare le frivolezze più intime, quasi come un confessore muto che accondiscende al desiderio altrui di comunicare, riuscendo a far pronunciare e riconoscere su loro stesse quella verità interiore e imbarazzante che delineano e acquisiscono forse per la prima volta. Vien da chiedersi allora chi sia veramente questo misterioso essere nato “dentro la cappa di un camino”, che “non mangia, non beve, non dorme… non fa nulla quel benedetto uomo, non si mette nemmeno a sedere.”, il cui potere arriva a denudare fino all’ultimo angolo dimenticato la nostra coscienza, nonostante che per “certe cose mi sembra di un’ingenuità …”. Le donne, ne ho contate dodici, dal nome estroso e roboante, radunate in una specie di convegno d’amore (fanno “dell’amore una questione più o meno sostanziale di vita”), di fronte a lui perdono ogni ritegno, e mentre una racconta, le altre non esitano a fare pruriginosi commenti, che vengono impreziositi da una scrittura sapida e leggera, qui settecentesca vorrei dire. Sembra di vederlo, il Palazzeschi che, moderno Casanova, si fa sornione e beffardo nell’assistere, con una strizzatina d’occhi ogni tanto, a questa specie di vizioso spogliarello, turbinoso e sensuale, e nel compiacersi, con una malizia più che ammiccante, di far correre la cavallina a tutti i falsi pudori, le reticenze vogliose, le furbizie languide, le perversioni frementi delle sue donne, tutte, si badi, educate in monastero. Questi racconti che le cortigiane fanno di sé sono talmente perfetti e complementari che resta difficile privilegiarne uno rispetto a un altro, se non a rischio di ridurre, immiserire e deformare la deliziosa e indivisibile immagine di donna che ne scaturisce. Non è azzardato affermare che mentre Perelà le rivela a se stesse in qualche modo con la sola sua presenza, egli al contempo è ciò che ogni volta, nel bene e nel male, le donne pensano di lui, ossia sono le donne, che a lui si svelano, a definirlo a loro volta: una specie di ruota che gira e controgira all’infinito. Quando l’indicibile uomo di fumo, “su cui la fiamma purificatrice passò ad annientare il torbido travaglio della materia”, viene ammesso alla visione della Regina, e con lei scende nel parco Reale o, in piedi sulla carrozza, è esposto all’ammirazione della folla e di quelle stesse donne che a lui hanno svelato i loro segreti (“Lo portavano fino alle ultime case del Borgo, perché tutti lo potessero vedere.”), si apre un mondo straordinario e Perelà per un attimo ha in tasca le stesse chiavi della conoscenza che furono di Alice, la piccola e magica creatura di Lewis Carroll, e non importa sapere se il codice che è chiamato a redigere sia un pretesto, una finzione, o una esigenza reale, ma ci basta capire che “Egli, essere vitale, che della vita conosce i più riposti segreti, della vita non conosce le materiali necessità o ben poco le avverte.” Egli, ossia, è uomo “di solo pensiero, di solo spirito” e “Da lui non possiamo attenderci che opera di purezza e di equilibrio, opera di assoluta giustizia sociale, materiale e spirituale.” Perelà è, dunque, qualcosa di speciale capitato sulla terra, un nuovo Messia forse, che ognuno di noi vorrebbe riuscire a conoscere e comprendere, ad afferrare e mantenere, convinto che gli si aprirebbero finalmente le porte, che nei secoli si è invano cercato di identificare e spalancare, di quel qualcosa di noi stessi che nessuno ha mai definito con certezza una volta per tutte: verità ? felicità ? giustizia? amore? (sarà il capitolo sull’amore a suggerirgli questa bella espressione: “due occhi non sanno vederne che altri due.”, capitolo in cui percepiamo qualche vibrazione stendhaliana), e così via: un qualcosa misurato non solo su noi stessi, ma anche, congiuntamente, sugli altri che ci stanno intorno e sulla realtà in cui ci troviamo a trascorrere la nostra misteriosa esistenza. Ed egli, che ci sollecita in una tale suggestiva maniera, badate, è in sostanza più vicino al nulla che all’essere. Vive e si sostiene all’interno del cicaleccio e dell’interesse degli altri verso di lui, resi magnificamente con quei dialoghi rastremati; la sua leggerezza, la sua sostanza incorporea non sono altro che il vuoto che può o deve riempirsi, consolidarsi e divenire certo e consapevole attraverso il riconoscimento, l’adesione e la partecipazione altrui: “È l’uomo, vorrai dire, ma con la lettera maiuscola.”; “Quello che cercava Diogene?”; “In persona.” ; e infine: “Dopo Cristo: Perelà .” E ancora, significativamente: “Voi potreste essere un Dio per gli uomini. Hanno bisogno di dare un corpo al nulla, che il nulla si possa vedere e anche toccare”. Di fronte all’uomo di fumo, parco di parole, ma onnipresente, la sfilata dei personaggi è ininterrotta, e ogni segreto, anche quello più infame, è destinato a svelarsi. Tutto si dischiude alla sua presenza, perfino Iba, il mentecatto divenuto Re per quattro giorni, e rinchiuso con l’inganno in una fetida cella, viene mostrato a Perelà senza alcuna vergogna, come sono mostrati senza vergogna gli ospiti di Villa Rosa, una lussuosa residenza per malati di mente, dove incontriamo molti sventurati, alcuni dei quali si credono di essere personaggi realmente esistiti come Maria Stuarda, Napoleone, Cristoforo Colombo, Federico Barbarossa, Napoleone, Messalina, il Re Sole, e altri, finanche San Francesco d’Assisi. C’è uno poi che crede di essere Dio: “Quest’uomo s’era immaginata la Divinità un’immensa pergola sopra la testa degli uomini.” Ma fa di più: appresa “dalla viva voce del suo vescovo che esiste anche l’ira divina” lancia di quando in quando “lampi satanici” dai suoi occhi e “con diabolica astuzia incolla i due cornetti sulla fronte.” Dirà uno dei ricoverati, il principe Zarlino, uomo ricchissimo che profonde le sue ricchezze nel manicomio e “ha ai suoi ordini una ventina di tecnici che lo secondano in ogni capriccio, una vera e propria compagnia per mettere in scena ogni sua creazione” (e che mi ha richiamato alla mente un analogo soggiorno del Marchese De Sade, quando spadroneggiava nelle prigioni di Vincennes e della Bastiglia e metteva in scena i suoi lavori teatrali): “Per divenire pazzi, signor Perelà , occorre una cosa soltanto: un grande, poderoso, fantastico cervello”. Palazzeschi si sta divertendo ad un gioco sottile (bastano, su tutti, gli esempi dei due personaggi straordinari da poco ricordati: Iba e il principe Zarlino), la cui ironia ferisce, ma con mano lieve, e non v’è dubbio che l’umanità che ne sortisce è scoperchiata nel cuore e nella mente come se la sua esistenza fosse il frutto di una follia planetaria: “è proprio nella religione che la pazzia meglio si manifesta e si svolge. Subito dopo per intensità viene l’amore, e la politica ad una distanza rispettabile”. Tutto ciò in un crescendo ammirevole di argute e raffinate invenzioni, tra le quali mi piace segnalare l’intervento, durante la seduta del Consiglio di Stato, di Cimone, che comincia: “Oggi è una bellissima giornata”, sul conto del quale Cimone, filosofo, un altro sputa questa sentenza: “Si crede d’esser tanto in su perché deve pubblicare un libro che non esce mai.” Se c’è mai stato un autore che meglio si sia combinato con un suo personaggio, ecco questo è proprio il caso di Palazzeschi con il suo Perelà , e perché no? con il principe Zarlino. È a quest’ultimo, infatti, che appartengono le significative parole, del tutto aderenti allo spirito del romanzo, che magnificano le infinite libertà che si possono godere in un manicomio: “Ditemi un poco, mio caro amico, posso uscire per le comuni vie con una coda di tela d’argento lunga settantacinque metri?”. E subito dopo: “venite anche voi in questo luogo meraviglioso, date retta a me, è il solo dove si possa vivere.” Nel corso della sua visita, Perelà è assistito da una guida, di cui non sappiamo nulla, che lo porta in giro per il regno mostrandogli tutto ciò che può essere utile a redigere quel codice che si attende da lui come risolutore degli antichi e irrisolti mali che affliggono il luogo (che, a questo punto, è il mondo intero), e a noi pare di percorrere, divertiti, però, e sorridenti a fior di labbra (ma i riferimenti che questo scoppiettante romanzo suggerisce sono davvero numerosi), un percorso su questa terra analogo a quello che Dante intraprese nell’aldilà , anche lui assistito da una guida, sempre però rivelata. Dante dispiega le brutture e le bellezze della terra in un regno che non è di questo mondo, in qualche modo le rende immortali in una sublimazione che discende da Dio; Palazzeschi non arriva a tanto e nella sua piacevole irriverenza nei confronti della specie umana, si limita a mostrarcela come è e sarà sempre qui, su questa terra. Mentre Dante mantiene il suo corpo materiale nel visitare l’aldilà , dove tutti possiedono solo un corpo spirituale, e questa sua condizione si rivela prodigiosa agli occhi dei suoi interlocutori, allo stesso modo il corpo di fumo, “spirituale”, di Perelà si rivela prodigioso agli occhi degli abitanti di quel regno, dove tutti sono esseri umani viventi, provvisti e gelosi del proprio corpo. Un percorso che si avvale di alcuni rovesciamenti di situazione, dunque, e che ha il gustoso intento di mostrare la nostra condizione umana non con il premio o la pena, bensì sollecitando, attraverso una presenza di fumo, contagiosa (si veda soprattutto l’episodio del domestico Alloro) e spirituale, il disvelamento di ciò che siamo o potremmo essere veramente. Per non parlare poi dei sospetti e delle incomprensioni che, come presero la vita di Dante, prendono anche quella di Perelà . Ricordate quando qualche personaggio all’inizio parlava della venuta di Perelà come avvenimento che per grandezza era secondo solo a quella di Cristo? Ora, come successe a Cristo, disconosciuto, dileggiato e accusato, anche su Perelà si vuole allestire, e si allestirà , un analogo processo, e si arriva a mormorare da taluni, sobillando il popolo, che allo stesso modo che Cristo è il figlio di Dio, l’uomo di fumo è il figlio di Satana: “Non mandò Iddio il suo, un giorno? Ora ce l’ha mandato quell’altro.” Insomma, Perelà diventa perfino “Il Cristo del Diavolo!” Il suo ritorno alla città , dopo che ne era uscito con l’intenzione di fuggire dalla ingratitudine e dalla ipocrisia degli uomini, si trasforma in una nuova e accettata Via Crucis. Come era stato un trionfo il suo arrivo “la sera che il popolo lo acclamò quale novello Profeta.”, così saranno dolorosi il suo ritorno e la sua condanna. Lo stesso percorso di Cristo, dunque, incamminato trionfalmente verso Gerusalemme e successivamente travolto dall’indifferenza e dall’ignominia. Ormai il riferimento a Cristo si è fatto esplicito, e il monte Calleio è il Golgota delle Sacre Scritture, e la Marchesa Oliva di Bellonda, rimastagli sempre fedele, è la Maddalena; e il codice di Perelà ? Non è altro che il risultato dell’esperienza vissuta nell’amore e nella sofferenza da Perelà (sofferenza patita non inutilmente, vedrete) per aiutare gli uomini a riconoscersi. Allo stesso modo in cui misteriosamente è arrivato, infatti, Perelà lascerà la terra, non più per rintanarsi dentro la cappa di un cammino, ma per ascendere verso l’azzurro del cielo. Del passaggio dell’uomo di fumo, solo la Marchesa Oliva di Bellonda beneficerà in qualche modo, ostaggio di quell’amore e, sconfitti gli uomini dalle loro stesse ipocrisia e incredulità , Perelà ascenderà al cielo a consolazione dei mali patiti sulla terra e come premio della sua prova d’amore. Ecco, dunque, un altro Messia che ci è capitato inutilmente sulla terra, ma noi siamo fatti a questo modo (“Quelle facce erano tanto cambiate verso di lui”) pare ammonirci Palazzeschi, quando si mette a dipingere da par suo le molte sfumature e cicatrici che ha trovate segnate sul nostro volto, ma non solo. Letto 3177 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||