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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Rahimi, Atiq

7 Novembre 2007

Terra e cenere

“Terra e cenere”

(trad. Babak Karimi e Mashid Moussavi Asl)

Siamo in Afghanistan durante l’occupazione russa. Un narratore che non conosciamo osserva la scena davanti a sé e si rivolge ai protagonisti dandogli del tu. La sua non è una conversazione, in realtà, ma una descrizione di ciò che vede e di ciò che avverte nell’animo dei due personaggi che sta osservando. Un vecchio di nome Dastghí­r è seduto con le spalle appoggiate al parapetto di un ponte, insieme con il nipotino Yassí­n, che ha fame.

Gli porge una mela. Il bimbo ha perso da poco gli incisivi di latte, non riesce a mangiare, allora il vecchio trae dalla tasca un coltello, riprende la mela e comincia a tagliarla in tanti pezzettini, che offre al bimbo. Attendono un mezzo di trasporto che li conduca alla miniera, dove lavora il figlio del vecchio, che si chiama Moràd, padre del bambino. Nell’attesa scorrono nella mente del vecchio le immagini e i sogni di ciò che hai visto, ma che non volevi vedere… o di ciò che devi vedere, ma che non vuoi vedere. Il villaggio da dove proviene è stato distrutto; della sua famiglia solo lui e quel nipote sono sopravvissuti, nonché il figlio Moràd che lavora più lontano, nella miniera, e che si sa già – di questo ha paura il vecchio – che domanderà del perché di quella sua venuta. E dovrà dirgli tutto e che Yassí­n, a causa dello scoppio di una bomba, è diventato sordo. Dirà, riferendosi al bambino: Mi sembra di parlare con le pietre. E ancora: Le parole non ascoltate non sono parole: sono lacrime… Ma il dolore più grande sta nel fatto che il bambino crede che la bomba abbia tolto la voce agli altri, che i russi sono venuti a togliere la voce a tutti e che i suoi congiunti sono morti perché non hanno voluto consegnare la propria voce. E non si può fare nulla per fargli capire la verità, giacché è sordo. Nonno, io ho la voce? Gli rispondi inutilmente: Sì. Te lo chiede di nuovo. Guardi verso di lui e glielo fai capire con il cenno della testa. Il piccolo ammutolisce. Poi chiede tra sé e sé: Allora, perché sono vivo? Il vecchio, con i suoi pensieri, con i suoi atti, è il protagonista principale di questo breve romanzo, che descrive, non tanto la guerra, ma la desolazione, il dolore e lo smarrimento che genera, quasi una lacerazione della propria identità. L’autore lo fa con uno stile insolito, attraverso questa voce del narrante, che in qualche modo partecipa e accompagna il protagonista. Sembra una voce di conforto, di consolazione, di presa d’atto, di guida, che a poco a poco non è più estranea, ma pare sorgere direttamente dal vecchio Dastghí­r. Gli dirà il negoziante Mirzà Qadí­r: Fratello, la logica della guerra è la logica del sacrificio. Non c’è una spiegazione. La cosa importante non è né la causa né la conseguenza, ma solamente l’atto in sé! Rimane in silenzio. Ti scruta negli occhi per cercare l’effetto delle sue parole. Tu dondoli la testa, come se avessi compreso le sue parole. Chiedi a te stesso quale sia la logica della guerra. Queste sono tante belle parole che non curano né i dolori tuoi né quelli di tuo figlio. Moràd non è tipo da ascoltare consigli e riflettere sulla legge e la logica della guerra. Per lui il sangue chiama sangue. Chiederà vendetta. Questa è la sua unica legge! Lui non ha paura di sporcarsi le mani col sangue. Ho riportato questo lungo brano come esempio di questa identità che si va configurando, di questa coscienza che sta nel vecchio e allo stesso tempo è voce narrante che si innalza, osserva e guida. Arriverà ad essere il suo pensiero più intimo, la sua aspirazione, il suo desiderio: Sì, tu sei il figlio di Moràd e subito dopo: Magari fossi suo figlio. Come Yassí­n, anche tu sordo. Avresti incontrato Moràd senza sentire le sue parole: ‘Perché sei venuto?’.Si celebra amaramente in questo romanzo, condotto sulle note di un lirismo delicato, il viaggio del dolore, che è di tutto un popolo, non solo di Dastghí­r. Il viaggio: ossia la lacerazione che ci portiamo dentro del dover raccontare per generare ancora dolore. Ma non è tutto, scopriamo pure che il dolore cammina da solo, anche senza di noi: ferisce e ci trasforma.


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart