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Pd, Mineo attacca Napolitano: “Ha gravissime responsabilità”

8 Aprile 2013

di Redazione
(da “la Repubblica”, 8 aprile 2013)

ROMA – Corradino Mineo, ex direttore di Rainews e attuale senatore del Pd, con un’uscita destinata a sollevare polemiche, rompe il coro di consensi unanimi verso il presidente della Repubblica. “La responsabilità di Napolitano è gravissima, perché avrebbe dovuto dare l’incarico pieno a Bersani”, dice Mineo intervenendo ad Agorà su Rai3.

“Se la situazione di stallo continua – aggiunge – azzarderei la scelta di fare le commissioni. Da questo punto di vista, do perfino ragione al Movimento 5 Stelle”. Quanto al prossimo capo dello Stato, il senatore democratico osserva: “Deve essere uno che ci mette la faccia, che vada anche a prendersi i fischi, che cerchi di rinsaldare il rapporto tra cittadini e istituzioni, uno che rispetti le leggi e che non si presenti come un accordo di Palazzo. Se il Pdl è d’accordo con un identikit di questo tipo, benissimo, ma rifiuto l’idea che sul presidente della Repubblica si faccia una pastetta”. Infine, un giudizio sui possibili candidati: “A me piace la Bonino e mi piace anche Rodotà”.

Quella di Mineo non è l’unica dichiarazione sopra le righe in arrivo dal Pd. In un partito che pare sempre più in preda a convulsioni e scontri sotterranei, Roberto Reggi, fedelissimo di Matteo Renzi, sostiene oggi in un’intervista al Quotidiano Nazionale che “Berlusconi e Bersani hanno paura del rinnovamento e in questo senso discutono anche di un possibile governo” per sbarrare la strada a Matteo Renzi e “non solo a lui”. Tra Pd e Pdl, rincara, “mi pare che l’unica logica sia quella di trovare un presidente della Repubblica che consenta a Berlusconi di evitare i processi e a Bersani di formare un governo”.


Bersani a Repubblica: “No al governissimo altrimenti arriveranno giorni peggiori”
di Redazione
(da “la Repubblica”, 8 aprile 2013)

ROMA – Pier Luigi Bersani ribadisce il suo no al governissimo e lo fa con una lettera aperta a Repubblica. Testo in cui inoltre sottolinea, ribadisce, che un governo di cambiamento, “che non viva di equilibrismi”, può anche prescindere dalla sua persona. Lo dice: “Non voglio essere d’intralcio”. E’ la risposta del segretario Pd alle tensioni che in questi giorni di crisi muovono, e in parte spaccano, il partito, tra chi pensa di aprire al Pdl di Berlusconi e chi invece non ne vuole sapere.

Caro direttore,
nell’articolo domenicale di Eugenio Scalfari, insieme con tante considerazioni che mi trovano d’accordo, c’è un passaggio che mi offre l’occasione di una precisazione. Scalfari scrive: “Non condivido la tenacia con cui Bersani ripropone la sua candidatura”. L’osservazione è inserita, al solito, in un contesto amichevole e rispettoso di cui ringrazio Scalfari. Devo registrare tuttavia che una valutazione simile si fa sentire anche in contesti ben meno amichevoli. Nelle critiche aggressive e talvolta oltraggiose di questi giorni, nelle inesauribili e stupefacenti dietrologie, e perfino nelle analisi psicologiche di chi si è avventurosamente inoltrato nei miei stati d’animo, non è mai mancata la denuncia verso una sorta di puntiglio bersaniano.

Ecco dunque l’occasione per precisare. La proposta che ho avanzato assieme al mio partito (governo di cambiamento, convenzione per le riforme) non è proprietà di Bersani. Ripeto quello che ho sempre detto: io ci sono, se sono utile. Non intendo certo essere di intralcio. Esistono altre proposte che, in un Paese in tumulto, non contraddicano l’esigenza di cambiamento e che prescindano dalla mia persona? Nessuna difficoltà a sostenerle! Me lo si lasci dire: per chi crede nella dignità della politica e conserva un minimo di autostima, queste sono ovvietà! È forse meno ovvio ribadire una mia convinzione profonda, cui farei fatica a rinunciare. Il nostro Paese è davvero nei guai. Si moltiplicano le condizioni di disagio estremo e si aggrava una radicale caduta di fiducia. Ci vuole un governo, certamente. Ma un governo che possa agire univocamente, che possa rischiare qualcosa, che possa farsi percepire nella dimensione reale, nella vita comune dei cittadini. Non un governo che viva di equilibrismi, di precarie composizioni di forze contrastanti, di un cabotaggio giocato solo nel circuito politico-mediatico. In questo caso, predisporremmo solo il calendario di giorni peggiori.

È un momento difficile per il Partito democratico, uscito miglior perdente alle elezioni di febbraio, con un’ampia maggioranza alla Camera ma senza possibilità di formare un governo. Tra i vertici del partito si rafforza la fazione del ‘no al voto’, posizione che è una diretta critica all’operato del segretario. Il sindaco di Firenze tuona sul “fare presto”, “o governo o voto” ma garantisce di non volere l’accordo con Berlusconi; Dario Franceschini ha aperto a un patto con il Pdl e l’ha detto usando una formula molto dura: “Basta con i complessi di superiorità, hanno preso gli stessi nostri voti”; e il ministro Fabrizio Barca ha presentato una piattaforma di idee per il Pd pur dicendo “non voglio fare il segretario”.

Intanto, mentre il segretario cerca di ricompattare il partito, il Pd ha annunciato ieri una manifestazione di piazza per sabato 13 aprile “contro la povertà”.


Disastro Monti: un milione di licenziati
di Fabrizio De Feo
(da “il Giornale”, 8 aprile 2013)

Roma – Non è più tempo di «agende », di promesse, di decreti «cresci-Italia » e di rivendicazione di avvenuti salvataggi.
Il dato messo nero su bianco dal sistema delle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro mette a disposizione degli italiani l’ultima fotografia del 2012, il suggello finale sulla stagione dei Professori.

Dopo la certificazione di un debito pubblico e di una pressione fiscale in costante salita, e un Pil in costante discesa, a chiudere il cerchio arriva ora il dato sulla disoccupazione. I numeri sono impressionanti. Nel 2012, i licenziamenti hanno avuto un vero e proprio boom, con oltre un milione di persone che hanno perso il lavoro. Per l’esattezza: 1.027.462, con un aumento del 13,9% rispetto al 2011. Quindi oltre 80.000 al mese, 2.700 al giorno.

Una sorta di buco nero, una voragine in cui sembra essere caduta la capacità produttiva del Paese ma alla cui formazione hanno contribuito le politiche di austerità del governo e la riforma Fornero che ha frenato la propensione ad assumere ma anche a utilizzare contratti flessibili e ha inciso su questo doloroso record. Questo combinato disposto ha trasformato il 2012 in un vero e proprio anno nero della disoccupazione, con un trend che è il peggiore tra i paesi europei. Una progressione continua che ha portato, nel giro di quattro anni, i licenziamenti a salire da 800mila a oltre 1 milione. E ha trasformato l’ultimo trimestre dello scorso anno nel periodo di gran lunga peggiore degli ultimi anni, con quasi 330mila licenziati.

Basta guardare il grafico a partire da gennaio per rendersi conto del costante peggioramento nell’arco del tempo. Se nel primo trimestre le fuoriuscite forzate erano state 225.689, nel secondo sono salite a 226.654, nel terzo a 245.860 fino alle 329.259, dell’ultimo in aumento del 15,1% sullo stesso periodo 2011. Di fronte a dati così eclatanti la politica si chiude nel silenzio. Fa eccezione Maurizio Sacconi che «sollecita una terapia d’urto » per rispondere a questa situazione di allarme. «I dati confermano il crescente rattrappimento del mercato del lavoro in Italia, determinato non solo dalla caduta dei consumi interni e dalla crisi di liquidità ma anche da regole troppo rigide e da un costo troppo elevato degli oneri fiscali e contributivi ». Per questa ragione «tra le otto proposte annunciate da Berlusconi vi saranno misure urgenti per l’occupazione con riferimento alla detassazione dei primi contratti permanenti dei giovani e di una quota più ampia dei salari connessa a incrementi di produttività e con riferimento alla necessaria deregolazione della legge Fornero ». Giancarlo Galan, a sua volta, definisce «sconcertante » il dato di un milione di licenziamenti nel 2012 con un aumento del 13% rispetto all’anno precedente. E fa notare un altro particolare non proprio confortante. Ovvero che «circa il 17% dei contratti di lavoro dell’ultimo trimestre sono relativi a rapporti da uno a tre giorni totali, mentre il 12%, 389.000 contratti, sono rapporti di un solo giorno. Un solo giorno di lavoro ». «Di fronte a questo quadro ci domandiamo ancora cosa fare. Dobbiamo immediatamente dare vita a un governo. Siamo al collasso e non ci possiamo permettere ulteriori incertezze ».


Contrordine compagni: Bersani amico del giaguaro
di Laura Cesaretti
(da “il Giornale”, 8 aprile 2013)

«Vedo un notevole grado di schizofrenia in giro per il Pd: tre giorni fa tutti a dare addosso a Matteo Renzi, ora tutti a dire esattamente quello che ha detto lui ».
Matteo Orfini intravede una conversione a U, e chiede che a discuterne sia una Direzione. Perché «non si cambia linea con qualche intervista ».
Le interviste cui si riferisce il «giovane turco » Orfini sono quelle che, da sabato, hanno dato il via all’operazione «contrordine compagni », aprendo all’intesa con Berlusconi. Ha iniziato Dario Franceschini – in realtà, dicono nel Pd, concordando l’intervista con Bersani perché serviva un anti-berlusconiano doc per iniziare a far passare nella base Pd l’idea che ora si deve diventare amici del Giaguaro. Poi è toccato al bersaniano Gotor, intervistato da L’Inkiesta, e ieri al capogruppo Speranza: il Cavaliere «è legittimato dai voti », quindi «il dialogo è fuori discussione » (nel senso che va fatto). Prima sul Quirinale, poi possono crearsi «le condizioni migliori per far nascere un governo ». Che non dovrà essere un «governissimo con ministri Pd e Pdl », ma che dovrà contare su un appoggio del Pdl. Dietro la fumisteria delle formule (sabato Franceschini ha parlato di «governo di transizione ») resta il problema di fondo: Bersani ha capito che non solo rischiava di restare totalmente isolato, sulla linea «governo coi grillini o voto », mentre uno dopo l’altro i big del Pd si schieravano a favore delle larghe intese; ma che rischiava soprattutto che quel governo col Pdl si facesse senza di lui. E quindi negli ultimi giorni ha scongelato la trattativa per un presidente «condiviso », abbandonando il suo candidato Prodi nel Sahel, e poi ha fatto il passo successivo. Con l’idea che forse sarà possibile, sbloccato il Colle, ottenere in aula quel gioco di astensioni e di sostegno di sottogruppi di centrodestra (come i famosi Gal del Senato) che gli potrebbe consentire di far partire un suo governo senza dire che ha chiesto i voti al Cavaliere.

Acrobazia complicata che sta lasciando stordita la base del Pd, visto che «da 40 giorni il segretario Pd ripete “mai con il Pdl ” e insegue i grillini, mentre era chiaro che l’unica via d’uscita era un governo di scopo sostenuto dai due maggiori partiti », fa notare Gentiloni.
Tutto però gira ancora attorno al nome del futuro capo dello Stato, che il Cavaliere dovrebbe approvare, e che deciderà a chi dare l’incarico. Lo sceglierà Bersani con Berlusconi o lo sceglierà qualcun altro? Gli ex Ppi, si sa, puntano su Marini (e Franceschini punta ad entrare nel governo futuro); D’Alema su un bis di Napolitano (e in seconda battuta su sé medesimo) e potrebbe essere il garante di un governo con Grasso alla Giustizia e la presidenza del Senato al Pdl, «l’opzione migliore per Berlusconi », assicura un dirigente Pd. Sel punta sulla Boldrini, «candidata istituzionale, donna e in grado di prendere i voti dei grillini ». Ma nel Pd giurano: «Da noi prenderebbe 50 voti al massimo ». Intanto scende in campo Fabrizio Barca, pronto a fare il contrappeso di sinistra a Renzi, e Bersani convoca una manifestazione a Roma per il 13 aprile, in concomitanza con quella a Bari del Pdl: «Contro la povertà ».


È morta Margaret Thatcher, qui.


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Bart