Pea, Enrico
7 Novembre 2007
Rosalia
“Rosalia”
Vallecchi, 1984, pagg. 270
Quando si parla di Pea, nato a Seravezza nel 1881, non è difficile andare col pensiero, oltre che a Ungaretti, con il quale ebbe una strettissima amicizia sin dai tempi d’Alessandria d’Egitto, anche a Lorenzo Viani, di lui più giovane di un anno (nato a Viareggio nel 1882), con il quale condivise l’originalità della scrittura, che appassionò molti critici famosi (De Robertis, Cecchi, Montale, Pancrazi, Contini, sono solo alcuni nomi), ma altresì gli scrittori viareggini delle generazioni successive, che trovarono in loro degli autentici e indispensabili maestri.
Pea, oltre che artista, fu un grande personaggio della scena letteraria italiana del suo tempo. Figura carismatica, bell’uomo, alto, dalla barba bianca fluente, era l’anima degli incontri che si tenevano al “Quarto platano”, a Forte dei Marmi. Quando veniva a Lucca, al Caffè Di Simo, dove si incontravano molti letterati, anche qui attraeva su di sé l’attenzione di tutti.
Figurarsi che tempi splendidi per Viareggio e per Lucca, quando si potevano incontrare artisti del calibro di Puccini, di Pea e di Viani. La provincia di Lucca era tra le città più invidiabili. Attratti da quei nomi, vi capitavano artisti da ogni parte d’Italia, non solo. Al Caffè Di Simo (al tempo che vi scendeva il Pascoli si chiamava Caffè Caselli) si può leggere su di una targa di marmo a lettere maiuscole:
Questo caffè in cui echeggiò l’entusiasmo del risorgimento
accolse alla fine dell’Ottocento ed al principio del nostro
secolo poeti letterati ed artisti amici del droghiere
mecenate Alfredo Caselli fra cui Giovanni Pascoli
Giuseppe Giacosa Alfredo Catalani Giacomo Puccini
Pietro Mascagni Libero Andreotti e Lorenzo Viani
Il premio Caselli per la letteratura le arti figurative
e la musica illustrò ancora auspice il nuovo proprietario
Giulio Di Simo la vita del locale negli anni 1932 – 33 – 34 – 35
Il gruppo culturale “Renato Serra” presieduto da Giuseppe De Robertis
rinverdì dal 1947 al 1954 la nobile tradizione e qui vennero
fra gli altri Emilio Cecchi Giorgio Pasquali Enrico Pea Mario Praz
Salvatore Quasimodo Giuseppe Ungaretti gli accademici
di Francia Daniel Rops Georges Duhamel Maurice Genevoix
ed il poeta americano Robert Lowell
Pea è conosciuto soprattutto per la trilogia composta da “Moscardino”, “Il Volto Santo”, “Il servitore del diavolo”, usciti rispettivamente nel 1922, 1924 e 1931, ai quali si aggiunse poi “Magoometto”, del 1942.
“Rosalia”, apparso a puntate sul “Giornale d’Italia” nel 1943, fu dapprima incluso nella raccolta “La figlioccia e altre donne” (1954), e infine pubblicato da Vallecchi nel 1984 come opera a sé.
Vi narra la sua esperienza di vita in Alessandria d’Egitto, dove fece il mestiere di commerciante in “candele, sapone, scope ed altro: vino e spirito in damigiane”. Riceve da uno dei suoi tre clienti di origine italiana un grosso ordinativo: il cliente si chiama Dalle Piagge (gli altri due sono Cassano e Tallarico) ed è lucchese. Pea sospetta l’imbroglio e così decide di fargli una visita. Come si è già detto, la scrittura è robusta, saporosa, sostenuta da una spina dorsale così forte da renderla un vero e proprio personaggio: “Guardavo e ascoltavo Cassano che masticava parole e arrosto, meglio di me, l’arrosto, lui, con le sole gengive, che io coi denti.” Quando Pea scriveva a questa maniera, si era nel 1943; i modelli letterari seguiti erano sempre l’ottimo Manzoni e il decadente D’Annunzio. La storia di Rosalia ci tramanda il mondo levantino così come, agli inizi del ‘900, apparve ad un artista particolare, acuto ed effervescente come Pea. Ne disegna i modi, i sapori, i colori: “Sono costumanze che vanno rispettate.” E gli italiani vi sono andati “da estranei, per far quattrini alla spicciativa… se ci riesce.” Ma ciò che ne fa un lavoro di grande interesse, più che la storia in sé, è, appunto, la scrittura, così come già era avvenuto nella tetralogia. Viani sarà ancora più drastico nella ribellione al suo tempo, raccogliendo dal popolo espressioni gergali a volte incomprensibili. Pea le adorna di una eleganza letteraria in grado di avvincere e fare proseliti. Come si è già scritto, gli autori versiliesi che verranno dopo Pea (si pensi anche a Tobino) non potranno prescindere dal suo insegnamento. Si tratta di una scrittura mai piatta, simile ad una di quelle strade sterrate che vanno in su è giù per le colline, aprendo squarci e panorami che allietano la vista e addolciscono il cuore. Leggete qui: “È un cielo chiaro, unicolore e senza cirri: liscio più dell’acqua del mare. Anzi, al mare somiglia. Al mare quando nemmeno la brezza lo ravviva, di piccoli strappi, subito rammendati col filo bianco, per miracolo, dalla stessa fiatata.” Dire che Pea è un cantastorie per vocazione, è dire poco. Egli dell’aedo possiede il sentore del mito, della leggenda. La sua scrittura, così attaccata alla terra, della terra respira l’afrore millenario. Pare più il discendente di un Dio, che un uomo. Al villaggio, nei pressi del Cairo, è andato deciso a riscuotere in contanti dal lucchese Dalle Piagge. Gli consegnerà la merce solo a pagamento effettuato. Gli rivela che è lucchese anche lui, ma la trattativa è condotta da una donna, “socio” nell’impresa, di nazionalità greca, che si rivela ardita e scaltra. Prima di giungere alla sua bottega, è passato dall’albergo del livornese Cassano, “una specie di befanotto” vestito alla araba, dal quale ha raccolto abilmente informazioni sul lucchese. È passato anche dal siciliano Tallarico, e ne ha visto la giovane moglie, che gli ha confessato che il lucchese le fa la corte e lei teme che possa trascendere ed ha paura delle reazioni violente del marito, capace di tirare fuori il coltello e prendersela, non solo con Dalle Piagge, ma anche con lei. Dalle Piagge non ha nascosto a Pea le sue intenzioni nei confronti della donna, anzi se ne vanta ed è speranzoso. Pea sta raccontando la sua storia, e una loro storia raccontano i personaggi che incontriamo, così che il mondo levantino sembra confluire e rappresentarsi nella storia principale attraverso i suoi molti affluenti. Ci si accorge che tutto ciò nasce spontaneamente, senza alcun artificio; e la penna di Pea si conferma la bocca di un cantastorie davvero speciale. Scrive: “Ma a me, per quanto piacesse, la vedevo una ragazzetta.” Che grazia! e quanti noiosi passaggi sono stati evitati. Oppure qui: “Ma io invece non volli nulla ché a me nemmeno era costato.” E anche: “si vedono i poggi che arginano il corso dell’acqua e si perdono lontani in un segno, fin dove l’occhio può arrivare di qua e di là , lo stesso.”; “C’era sempre la neve per le vie che ci aveva lasciato partendo.”; “io sono qui il più malandato, una volta mi dicevo, invidiando alla salute di tutti, quando un uomo ancora giovane mi urta e va oltre tentennone. L’osservo: batte a martello le piante in terra come se avesse gli arti di legno avvitati al ginocchio e, spingendo in avanti i piedi rivolti l’uno verso l’altro, fa dei passi a mezzaluna”. Quanti narratori, pur essendone dotati, avrebbero avuto il coraggio di esprimersi con una tale libertà , con un tale ardimento, ed una così dolce eleganza primitiva? Pea ne ha compreso il valore, sa che trattasi di un insieme di virtù che vengono da lontano, hanno già sfidato i secoli, e sono preparate ad una lunga, se non addirittura eterna, durata. Infatti, chi può sostenere che la scrittura di Pea non sia ancora viva? Come quella dell’altopascese Remo Teglia e del conterraneo Lorenzo Viani, essa mantiene intatto il sapore del Tempo. Sono varie le figure che emergono come vivide apparizioni, una tra queste è “la beduinetta”, una giovane dall’aria furba che tenta di attirare Dalle Piagge in un tranello e gli dà appuntamento nella sua tenda. Dalle Piagge giunge a sorpresa, senza annunciarsi con il segnale concordato, e sorprende sola la ragazza. Cerca di sedurla, ma lei “si divincolò da me, non dolcemente sgusciando come le altre volte alla baracca, ma felina, tigre che si rivolta al domatore. Gridò e mi graffiò e perfino addentò la mano che più fortemente la stringeva.”
Eppoi c’è la greca, la donna che convive con Dalle Piagge: “Ride a bocca larga, un po’ brilla.” La descrizione di quando si lamenta per la fuga del compagno è incomparabile per bellezza e originalità : “La greca singhiozza tanto forte che nemmeno è da tentare di calmarla con le parole. Già , non sai più dove toccarla, ravvoltolata tra i cuscini, la coperta e le cianfrusaglie sopra di quel divano, non sai mai qual è il vestito vero e proprio del suo dosso ché, sbrandellato anche quello, scopre la biancheria di sotto, e, senza pudicizia, la greca ravvoltola quei rocchi di carne, che ora son gambe grosse sù sù ad imbuto alla grossa forcella. Or son braccia, che non sono al di meno, all’avambraccio e alla spalla. Ed ora è il seno, sfuggito alle strette del busto che lo frenava. Perfino il collo è un salsicciotto: un tronchetto di carne che tien sù una testa che ciondola: una bocca che sbava e smania. Dove la tocchi è morbidume: sudore e muschio. Muschio già stantìo che il meglio di odoroso è scialato, se l’è preso la notte.” Pare un quadro di un pittore impressionista. Vale la pena di riportare la descrizione della greca non appena, poco dopo, si è risistemata, con l’aiuto della serva negra: “Riappare vestita di color viola. È un po’ tetra: i capelli neri lucidi: forse umettati di brillantina, ravvolti, tenuti stretti da un nastro giallo circolare intorno al capo, fanno di quella pettinatura a pan di zucchero, un nero ricco turbante di astracan, rigato d’oro. Il volto così allungato guadagna in nobiltà . E la persona par dimagrata dentro quella tunica viola, aderente e disadorna: perfino è accollata, la greca. Né ha pendenti agli orecchi né collane al collo. Si è tolta anche i braccialetti. E incede senza accompagnamento di sonerie, che quei cerchi d’oro intorno ai polsi facevano prima.” Che è un quadro di Ingres: “L’odalisca con la schiava”, o del Parmigianino: “La schiava turca”. Solo che qui è la magica parola a tracciare le linee del disegno.
La greca si lamenta della fuga del suo amante, giacché ormai è sicuro che la sparizione di Dalle Piagge deve essere collegata alla sparizione della bella siciliana, moglie di Tallarico. È sparita anche una barca. Tallarico dà la caccia ai due per vendicarsi. Passa anche dall’albergo di Cassano che gli dice che non è poi un gran male perdere la moglie: “L’uomo nel momento che ha subìto un torto si riscalda, più per gli altri che per sé. Soffre più di pregiudizio che d’amore: ha paura di fare cattiva figura come uomo.” Pea racconta in prima persona; la sua personalità di uomo vivo, dinamico, non subisce mediazioni. Egli è nella storia tale e quale è stato in vita. Rosalia è il nome della giovinetta siciliana. Presentata in sordina dall’autore quando ha fatto visita a Tallarico, ella fa già parlare di sé, pur non comparendo. Sta però al centro alla maniera del Godot di Beckett. Pea ha finito il suo viaggio d’affari. Ha riscosso quel che doveva e si avvia al treno per tornare a casa, ad Alessandria. Quel viaggio dà modo di gustare alcune descrizioni rese con una scrittura che le restituisce cariche di un asciuttore, di una secchezza, come fossero rocce levigate, non dalla forza del vento, ma dall’impeto del sole. Piccioni che gareggiano nel cielo, rondini, palme, canali di irrigazione, il venticello della sera, sono visti con occhi capaci di rilevarne la concatenazione con una terra antica, sofferta, arida, dove ogni gesto, sia esso dell’uomo che della natura, ha nascosto in sé un piccolo granello di bellezza, che solo l’assuefazione, la confidenza e l’amore sono in grado di cogliere. Pea riconosce che “Non c’è compatibilità tra l’azione e la contemplazione, me lo sono detto tante volte. Ma sempre ricasco in questo difetto che mette in pericolo la buona riuscita a guadagnar quattrini per far campare meno peggio la famiglia.”
Perde il treno e un arabo lo trova che sta attendendo l’alba per la nuova corsa. Lo invita a passare la notte a casa sua. È un pellegrino che è stato due volte alla Mecca. Gli racconta il suo viaggio. Durante il pellegrinaggio molti muoiono lungo la strada, spesso scoppiano vere e proprie epidemie di peste e di colera. Ognuno che sia in salute, cerca di aiutare i compagni, di rendersi utile in qualche modo. Anche a scacciare i terribili predoni: “Vi sono predoni talmente infedeli, lungo il viaggio, che non hanno timore a saccheggiare una carovana che va ai luoghi Santi. Né a mettere le mani sacrileghe sul tappeto di Maometto. Così la notte si ordina l’accampamento in modo che le cose sacre restino in mezzo. I pellegrini dormono sparsi per terra, in un raggio vastissimo, ché sono migliaia e migliaia di tutti i dialetti, raccolti lungo il cammino. I cammelli sono posti più al centro: vicino al tappeto sacro, anche perché farebbero gola ai predoni le provviste e le bestie.”
Pea, messoci in contatto con il mondo levantino, ce ne fa osservare i pregi, sottolineando che se le abitudini sono diverse da quelle europee, non per questo gli arabi devono considerarsi inferiori. L’europeo ha molti pregiudizi nei loro confronti: “non è vero che abbia poi verso di te, straniero e infedele, quella voglia di tradire, ad occasione: cosa errata, la superficiale conoscenza che gli europei spesso hanno dell’arabo, ha fatto credere, a diffamazione di un popolo, che semmai ha il torto di mandare per buoni e civili negli europei anche i difetti. E di imitarli.” È proprio un arabo, Ibrahim, a dare rifugio ai due amanti. Tallarico li sta cercando ovunque e non immagina che sono lì, nascosti a pochi passi da lui: “La casa di Ibrahim era quasi a uscio della bottega di Tallarico.” Quando la vicenda della fuga d’amore si pone al centro del romanzo e comincia a sortire i suoi effetti di appassionato coinvolgimento, noi ci accorgiamo di un curioso riflesso che essa ha sulla scrittura di Pea, come se egli ne fosse preso: si intensificano i termini dialettali e Pea si alimenta ancora di più alle sue radici. Ossia, se prima la scrittura s’imponeva per la sua gagliarda struttura, ora essa s’impenna a rimarcare la singolare personalità dell’autore lucchese. Tutto ciò accade senza che il ritmo acceleri la sua corsa, come se bastasse ad imprimere un passo diverso il solo peso delle nuove parole. Dalle Piagge si rende subito conto, dopo la fuga, di aver commesso un errore: “Sente di avere esagerata la portata di un amore che era infine un capriccio per la novità . Ora come ora, sarebbe contento di non averla mai conosciuta. Eppure dovrà liberarsi da questo imbroglio, più pulitamente che potrà , rispetto alla donna.” Rosalia intuisce. Si rattrista, ha paura. È fuggita da un uomo violento, Tallarico; è stata lusingata e ingannata dal corteggiamento abile di Dalle Piagge, ha intravisto una vita diversa, di donna amata, lei ancora così giovane. È il momento in cui Pea ha deciso di mettere il dramma psicologico di questa donna sotto la luce dei riflettori. La possiamo osservare, ne spiamo il sentimento, lo sguardo, la bocca, i tremiti, le ansie. Pea ha narrato scaltramente; ci ha condotto la donna sotto gli occhi a poco a poco, attraverso movimenti partiti da lontano, quasi sotterranei. Eravamo distratti dalla beduina, dalla greca, di Rosalia soltanto si sentiva parlare, e ci ritroviamo immersi dentro le paure di questa ventenne che, dopo aver resistito per tanto tempo alla tentazione, nel momento che vi cede, si accorge, quando ormai è troppo tardi, di essere stata abbindolata. Pea mette in bocca a Dalle Piagge il paragone della propria amante, mentre sta dormendo, con Ilaria del Carretto, la sposa di Paolo Guinigi, signore di Lucca, che morì giovanissima e il cui celebre sarcofago, opera dello scultore Jacopo della Quercia, è conservato nella cattedrale, dagli “archi dissimili”, della città . Per un lucchese, non vi può essere raffronto più bello, e appagante. Grazie a Rosalia, le immagini della sua città e di sua madre ritornano alla mente di Dalle Piagge, rasserenandolo. Il suo sguardo verso la giovane ha, ora, un po’ di tenerezza. Si avvicina, lei sta dormendo, ha un fagottino piccolo piccolo vicino a sé. L’uomo sorride. È tutto quello che si è portata dalla casa del marito: “Quel tanghero non dirà che gli hai svaligiato la casa.”, pensa. Lo apre “ed è una sorpresa, a cui non avrebbe mai pensato: qualche camiciolino, due cuffiette, ed altri pochi indumenti per un bambino appena nato. Ora, Dalle Piagge, non ride più.” Quando, palpeggiando il fagottino richiuso, “lo sente bagnato, si ricorda del pianto di Rosalia e si commuove.” Si sdraia vicino a lei, che si sveglia, e ci tiene a dirle: “Hai fatto bene, Rosalia, a venire. Io non ti lascerò mai più.” È una specie di notte dell’Innominato che si agita in lui e produce il cambiamento: quel proposito di abbandonarla non c’è più, giacché “a capovolgere in parte un sentimento che pareva irremovibile, era bastata la luce rosea dell’alba. Il primo impeto fu allora il senso amoroso verso la donna bella, di una bellezza nuova e onesta”. Nell’appartamento di Ibrahim restano fin tanto che le acque non si sono calmate. Tallarico torna in Sicilia, la greca riscuote dall’assicurazione una bella somma per l’incendio scoppiato al Caffè di Vetri, e così Dalle Piagge pensa che sia arrivato il momento di rifarsi una vita. Rosalia è incinta di tre mesi. Le dice: “Una sola cosa mi dispiace, Rosalia: di non poterti sposare.” In quel momento non sa ancora che, per il modo in cui è stato celebrato il matrimonio tra Rosalia e Tallarico, la cosa, invece, sarà possibile. L’esperienza personale di Pea, la storia del suo viaggio da Alessandria al Cairo per riscuotere il suo credito, si sono trasformati presto in un romanzo che ha scelto definitivamente i suoi protagonisti. Pea si è fatto da parte, non racconta più di se stesso, ma è entrato nella loro storia e ormai vive con loro. La fuga dei due amanti in groppa a due asinelli – lo ricorda lo stesso autore – fa pensare alla fuga in Egitto della Madonna. La Sacra Famiglia – suppone sempre l’autore – deve essere passata da quei luoghi dove Rosalia e il suo uomo stanno percorrendo la loro strada. Sulla via di Rascid, un villaggio situato sulle rive del delta del Nilo, dove vive un vecchio olandese, Van Le Neppe, dal quale sperano di ricevere ospitalità , s’imbattono nella tomba del “Santo”. Quest’uomo – narra loro il fellah, un contadino – fu trovato proprio dall’olandese mentre andava a cavallo nel deserto. Vide affiorare dalla sabbia il corpo di un uomo rimasto sepolto, come se dormisse, per molti anni. La sabbia lo aveva preservato dalla corruzione e sul suo petto era fiorita una rosa. Si avverte che l’Egitto non è solo un Paese in cui l’autore ha vissuto, ma un Paese che ha molto amato. Egli non si fa prendere, tuttavia, dalle suggestioni e dalle nostalgie; il suo stile non si allenta, non deborda da un modello connaturato, e affida all’ordito della parola il compito di suggerire il sentimento di quella stagione lontana.
Superba la descrizione dei due che ora proseguono il viaggio in groppa al cammello: “davanti a loro il cavallo, su cui cavalcava il fellah, pareva piccolino, rispetto alla maestà di un cammello, su cui i due stavano a fianco a fianco comodamente seduti sopra un cestone, come se stessero sopra la terrazzina di una torre al cui parapetto d’intorno si potevano affacciare a rimirare la campagna sotto la luna. […] Anche stanotte il cielo era senza un cirro che lo macchiasse e la luna nel declinare sul mare di Alessandria passava dietro le rame dei palmizi nanetti e dietro i fusti dei boschi di dattifere centenarie le cui ombre parevano venire incontro: si stendevano a tappeto sulla stradetta, sempre più evanescenti fino ad annullarsi: ombre fugate dal chiarore diffuso dell’alba.” L’arrivo dall’olandese Van Le Neppe – che racconterà a Dalle Piagge la sua storia – dà l’occasione all’autore di dipingere uno dei ritratti migliori del romanzo, su cui agisce come provvido pennello la sua scrittura ardita e ribelle, in grado di compiacersi di più di un registro. Diamo conto qui dell’avvio, e di qualche altro esempio, di un brano molto lungo: “Dopo i vent’anni la ragione consigliava Van Le Neppe a prendere contatto con il mondo, più che non avesse fatto finora: levarsi dalla solitudine dei soli libri, a cui il padre, del resto, dava la colpa di aver distornato il figliolo. Il padre lo incoraggiava il figliolo a far qualcosa di pratico. E avrebbe voluto anche che incominciasse ad occuparsi in un modo o in un altro dei vari affari, che il padre aveva tra le mani.” Van Le Neppe è un timido, da sempre. Da ragazzo contemplava una giovane, Giulia, affacciata ad una finestra dirimpetto. Gli piaceva, e forse lui piaceva alla ragazza, ma non aveva il coraggio di farle un cenno: “rimaneva a consumarsi gli occhi. E mangiarsela col desiderio da lontano, senza nemmeno sorridere, finché lei abbassava lo stoino se era d’estate o richiudere la doppia finestra, se la stagione era rigida.” Van Le Neppe non ha ambizioni, e non capisce perché il padre consumi la sua vita ad arricchirsi. Si deve raccogliere “quanto basti ad una famiglia. Il di più è fatica sprecata, pensava, e adesso in queste cose pensate, il figlio compassionava suo padre che già vecchio si accaniva ad accrescere un patrimonio inutile a sé e troppo se era per amore di lasciarlo al figlio, che non ne avrebbe avuto bisogno di così tanto per la felicità che sognava.” Questa descrizione del personaggio diventa anche, così, il miglior momento dimostrativo dell’altezza della scrittura di questo autore, scrittura che, come si è già detto, si eleva a vera e propria protagonista. Possiamo anche dire che Van Le Neppe figlio, amante dei libri e dell’arte, e suo padre, commerciante fino al midollo (“noi siamo mercanti di merce, non di quattrini, ché altrimenti saremmo scontisti usurai.”), mescolati insieme, si avvicinano a formare il ritratto di Pea, scomparso dalla narrazione, ma presente, eccome, attraverso di loro. Pea andrebbe letto ai nostri giorni con l’attenzione con la quale lo lessero entusiasmati i critici del suo tempo. Ha fatto della scrittura strumento e personaggio insieme. Quando Van Le Neppe è inviato dal padre in Africa per affari, la descrizione dell’avvicinamento ad Alessandria mostra come la scrittura possa risolvere molte cedevolezze del sentimento; irrobustirlo, anzi. Ne è un esempio l’incontro con la donna armena cieca, la quale gira cantando per le strade di Alessandria, guidata per mano dal figlio che chiede l’elemosina. Magistrale la conversazione che si svolge in treno tra Van Le Neppe, la cantante (scopriremo più tardi la sua vera attività ) Nina Star (Meri), che “aveva tratti di gentilezza”, e sua madre, “una donna ripugnante”, che non sa nascondere la propria volgarità . Invero, la storia di Van Le Neppe, che occupa la parte centrale del romanzo, si sviluppa ben presto come storia a sé, che ci fa per un attimo dimenticare la fuga dei due amanti. In essa, ad un certo punto, si riversa, insieme con la tradizionale scrittura dell’autore, un esercizio di stile diverso, con imbrigliature che ne rimarcano una qualche autonomia. Solo quando Van Le Neppe, nel suo lungo racconto, arriva a stabilirsi a Rascid, alla foce del Nilo, l’autore ci dice che siamo giunti al 1908 e Rosalia, dopo aver dato alla luce un maschio due anni prima, per San Silvestro dà alla luce un altro figlio: una bambina. Qualche giorno prima, il 28, “alle cinque del mattino scosse di terremoto di eccezionale violenza, avevano sconvolto la città di Messina.”
Le vite di Dalle Piagge e di Rosalia sono unite ormai a quella di Van Le Neppe, che, “eremita laico”, come dice di se stesso, li considera un po’ figli suoi e facenti parte della sua famiglia. A loro lascerà la casa, l’orto e il denaro, giacché il resto delle sue proprietà , lo ha già destinato ai suoi contadini. È stato sempre di salute cagionevole, da tempo è malato di cuore, non vivrà molto, così crede. Pea si recherà , infine, a Rascid, sarà lui a portare, a loro che vivono fuori dal mondo, la notizia del terremoto di Messina. Conoscerà Van Le Neppe e conoscerà i figli di Rosalia (“che donna si era fatta!”). Gli dirà Dalle Piagge, ora non più scavezzacollo: “Ho posto il nome di Martino al ragazzo, ma non già per la memoria di parenti: bensì per quella chiesa di Lucca che ha gli archi scompagnati il cui patrono fece la carità al diavolo. La bambina invece porta un nome più dolco: il nome della madre di Maria, di mia madre e del mio paese: si chiama Anna.”
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