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PITTURA: I MAESTRI: Braque: Pittura come cristallo

10 Febbraio 2009

di Marco Valsecchi
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1971]  

Dire il nome di Georges Braque e trascinarsi dietro quello di Pablo Picasso, è un fatto subitaneo. Non perché i due siano simili; anzi, sono assai diversi tra loro. Ma essi stanno all’origine della più radicale mutazione pittorica dal tempo di Paolo Uccello all’inizio del nostro secolo; quindi i loro nomi risultano inseparabili per un certo periodo, un decennio circa. D’altra par ­te, se si vuole approfondire il senso e la portata dello sconvolgimento arrecato dai due artisti alle convenzioni pittoriche e alle abitudini visive universali, e per «lisciare meglio la personalità di Braque, è inevitabile b necessità di porre a confronto, sia pure rapido, i due pittori: francese l’uno e figlio di decoratori, cata ­lano l’altro e disegnatore maturo a 14 anni.
È nota a tutti, perché divenuta celebre, l’affermazione di Picasso: “Io non cerco, trovo”. Può sem ­brare spavalda; è invece la precisa indicazione della sua forza istintiva e irruente, del suo balenante intui ­to proiettato golosamente alla scoperta di nuove espres ­si «ni per mezzo di un infrenabile vigore immagina ­tivo, libero da costrizioni teoriche, rapito nel superbo piacere di cogliere l’immagine come se sorgesse da una fioritura improvvisa e sconvolgente, dopo di aver assorbito con famelica curiosità tutte le esperienze pittoriche accumulate dalla tradizione lontana e re ­cente.
Meno nota è l’affermazione di Braque, ma altret ­tanto fondamentale: “Amo la regola che corregge . emozione “, dove l’artista dichiara, in opposizione all’istinto, la sua preferenza per il metodo riflessivo e cartesiano, procedente per deduzioni analitiche e in ­tellettuali, con un senso della misura e della disciplina interiore che gli permette di intravvedere le nuove prospettive artistiche e di attuarle con tenace sapien ­za dì strumenti creativi.
Già queste due frasi, lampanti come atti di fede, mostrano la differenza essenziale e la distanza fra i due artisti fin dall’origine dei loro moti creativi. Inol ­tre Picasso è di temperamento drammatico e inquieto, aggressivamente inquietante; Braque è lucido, razionale, e procede con chiarezza cristallina. È del pari inquietante, ma sul vuoto improvvisamente spalan ­cato dalla sua intuizione getta la sequenza del sue procedere calmo e riflessivo, per cui l’immagine che nasce da questa sua applicazione intellettuale fissa la nuova situazione percettiva e visuale, e convince in forza di persuasioni progressive: laddove Picasso è rapinoso e prepotente.
È necessario però togliere subito di mezzo una possibile equivoca interpretazione delle parole di Braque. Si potrebbe pensare che egli determini a priori un castello di teorie, su cui sopraggiunga con la sua pittura. Sarebbe un grosso travisamento. Braque ste ­so, nella serie delle Réflexions da cui ho tratto quella frase paradigmatica, pone quest’altre affermazioni ta ­glienti: “Avere la testa libera. Il concetto obnubila”. Si tratta di una libertà fondamentale, alle radici, per ­ché insorga e si espanda senza impacci e limiti la sen ­sibilità intuitiva. La ‘regola’ è posta nel metodo del ­l’intelligenza, che non sostituisce l’emozione, ma l’ac ­coglie come evento primario insopprimibile e la po ­tenzia col lume dell’intelletto. Difatti, tanto Braque che Picasso ebbero avversione dichiarata per tutti i tentativi di sistemazione teorica che, dal 1912, orga ­nizzarono i pittori della ‘Section d’Or’, Metzinger e Gleizes. La codificazione del cubismo che questi at ­tuarono, trovò solidali Jacques Villon, Andre Lhote. Marcoussis, e per qualche tempo persine Léger e Juan Gris. Ma se ne astennero Picasso e Braque. Il lor cubismo era precedente a tutto questo di quasi cinque anni. Ma al di là della priorità, fu un’invenzione poe ­tica del tutto differente da quel legiferare di principi estetici, che coglievano del cubismo solo gli aspetti esteriori. Per sottolineare la loro estraneità a tali co ­dici imbalsamati, i due pittori non vollero partecipare alla mostra che i ‘teorici’ allestirono nel 1912 alla Galerie La Boétie. Il frazionamento geometrico attuato dai pittori della ‘Section d’Or’ discendeva da principi generalizzanti e meccanici, per cui il risultato non poteva che essere riduttivo.
La pittura di Braque e di Picasso nasceva invece da un’intelligenza fluente al pari di polla sorgiva, e riusciva a mantenere tutta la freschezza di quell’im ­mediato impulso creativo. Fu lo stesso Picasso a sot ­tolineare quello stato di intuizione originaria: ” Quan ­do abbiamo fatto del cubismo, non avevamo alcuna intenzione di fare del cubismo, ma solo di esprimere ciò che era in noi “.
Nella vasta bibliografia di Braque compare Ar-dengo Soffici già nel 1911, tra i primi, con un saggio sorprendente per cognizione critica e per chiarezza espositiva. Lo precedono solo Apollinaire e Louis Vauxcelles. Il poeta Apollinaire presentò in catalogo la prima mostra personale di Braque alla Galerie Kahnweiler, rue Vignon, nel novembre 1908. Il pit ­tore aveva mandato al Salon alcuni quadri dipinti nei mesi precedenti all’Estaque sotto l’influsso di Cézanne, morto nel 1906 e celebrato l’anno dopo con una esposizione a Parigi. Alcuni di quei quadri furo ­no respinti; Braque preferì ritirarli tutti ed esperii nella piccola galleria del giovane mercante tedesco residente a Parigi.
Louis Vauxcelles, critico del giornale “Gil Blas”, aveva già deriso Matisse, Vlaminck e Derain allor ­quando esposero al Salon del 1905, chiamandoli ‘fauves’, belve. Scrivendo della personale di Braque, dirà con sufficienza che si tratta “di schemi geometrici, di cubi”. Pochi mesi dopo, il 25 marzo 1909, riprenderà l’argomento e parlerà di “bizzarrie cubiche”.
Soffici, intervenendo il 24 agosto 1911 con un acuto saggio su “La Voce”, difenderà i due pittori e le loro nuove concezioni pittoriche con una genero ­sità e un’impostazione critica tuttora illuminanti. La sua sottigliezza critica coglierà l’essenza viva e vitaliz ­zante della pittura di quel periodo, sia del pittore spagnolo che del pittore francese; e non mancherà di cogliere le differenti complessità dei due artisti: “Pi ­casso, pieno lo spirito di un fuoco quasi barbarico, racchiude nelle basse tonalità e nel disegno apparen ­temente algebrico dei suoi quadri la violenza sorda del dramma; Braque con la sua tecnica appena ap ­pena meno rigorosa ottiene una sorta di calma musi ­cale piena di leggerezza ad un tempo e di severità. Ma tutte due insieme senza tradire la rispettiva origine e anzi ricollegandosi colla più profonda tradizione del ­le loro razze, inaugurarono una scuola d’arte, certo non facile per il momento ad esser compresa, ma de ­gna e capace di un glorioso avvenire”.

Per capire meglio il significato della frase di Bra ­que in risposta indiretta a quella di Picasso, e l’intima originalità che essa contiene, è necessario integrarla con altre affermazioni. Nella stessa serie di pensieri raccolti col titolo Réflexions, Braque disse: “Non si deve imitare ciò che si vuole creare”. È un’afferma ­zione breve quanto recisa dell’autonomia irrecusabile della creazione artistica rispetto al mondo naturale. L’artista a un certo punto ha bisogno di realizzare il suo pensiero senz’altro limite che il grado della sua immaginazione e capacità espressiva.
Ma è un’autonomia che non cancella il dato reale. Vi si rapporta, semmai. E per delineare questa opera ­zione delicatissima perché estremamente affidata alla gelosa personalità di ogni singolo artista, aggiunse: “Ho cura di mettermi all’unisono con la natura, in ­vece di copiarla”. Risale cioè alla piena decisione e responsabilità creativa dell’artista, il quale raccoglie entro di sé tutti i dati fenomenici e di cultura che du ­rante la sua esistenza individua, e li rende in imma ­gine tramite il filtro complesso della propria sensibi ­lità ed entità umana. Inoltre, per delineare il carat ­tere eccezionale dell’opera d’arte, anche se la sua desti ­nazione è pubblica, ed eccezionale nella sua attitudine più che in privilegi metafisici, aggiunse: ” L’arte è fat ­ta per turbare. La scienza rassicura”.
Se gli impressionisti ponevano nell’occhio lo stru ­mento primario della percezione, Braque e Picasso riscoprivano, o almeno rivalutavano le facoltà intuiti ­ve, autonome e decisionali dell’intelligenza specula ­tiva. È ancora Braque a dire: ” II fine del pittore non è di ricostruire un aneddoto, ma di costituire un fatto pittorico”. La visione impressionistica, con tutte le sue vibrazioni colorate, l’eleganza delle impressioni colte sulle cose apparenti nel lampo di luce e nell’imme ­diatezza dell’emozione, finiva per cogliere con estrema grazia l’aspetto passeggero della realtà, inseguendo in effetti la friabilità delle cose nell’attimo. Per questo Cézanne se ne staccò già verso il 1880 e, ricollegandosi a un ideale ‘Poussin sur nature’, bloccò quel fremito istantaneo della luce con le figure essenziali della geo ­metria tridimensionale: il cubo, la sfera, il cilindro.
Il cubismo di Braque e di Picasso tendeva infatti a ristrutturare la visione pittorica sulla concretezza dei volumi geometrici, che rendono immutabile la visio ­ne della realtà, e suggeriscono con la concretezza plasti ­ca, che la luce più non scalfisce né modifica, anche sensazioni di stabilità grandiosa.
A questo punto ci si chiede di solito chi dei due precorse l’evoluzione al cubismo. Nel 1906 Picasso interrompe l’elegia crepuscolare dei saltimbanchi in ­terpreti del ‘periodo rosa’. Le Due donne nude in collezione Thompson di New York, dipinte nell’autunno 41 quell’anno, si impongono massicce e pesanti sull’esempio delle Eve arcaiche e statiche degli affreschi romanici catalani. L’atmosfera rosata e trasparente, tenera di stesure senza spessori, si è dissolta, e ora appare nei suoi quadri una densità vigorosa e spessa. Incrocia su questo arcaismo la primordialità barbarica ed esotica della scultura negra con le sue aspre deformazioni mitologiche o rituali, che comincia ad apparire negli ‘ateliers’ parigini. L’Autoritratto con la tavolozza del Museo di Filadelfia sembra difatti la testa di un idolo negro con le alte arcate sopracciliari scolpite nell’ovulo irregolare del viso. Il Ritratto di Gertrude Stein dello stesso anno placa appena un po ­co quell’arsura volumetrica con un apporto di colore ammorbidito da un lume d’avorio. Ma l’anno suc ­cessivo nasce il quadro-stendardo delle Demoiselles d’Avignon, dove il ricordo delle Bagnanti di Ingres è stravolto e si esaspera nella violenza di una concezio ­ne grandiosa, drammatica per la scheggiatura sinte ­tica delle forme.
Braque deriva da un’esperienza di pittura ‘fauve’, accanto a Othon Friesz. Ma pur lasciando che la tavolozza si accenda di rossi e di gialli puri, contiene il grido cromatico ed evita l’arabesco e lo scatenamento di Vlaminck e di Derain. Più che a Van Gogh e a Gauguin, drammatici profeti di quel simbolismo coloristico, Braque guarda già a Cézanne, o per lo meno sembra che guardi da quella parte per il controllo che si impone sulla stesura dei colori, per l’equilibrio delle composizioni, avulso da ogni abuso ed eccesso. Ignora anche la scultura negra; ma studia con mente avida la retrospettiva di Seurat del 1905 al Salon des Indépendants, maestro di calibrature intellettuali, e soprattutto la retrospettiva di Cézanne al Salon d’Automne del 1907.
È questo il momento in cui Braque avverte il limite decorativo dell’esperienza ‘fauve’; e frequentan ­do l’Estaque dai vasti spazi circolari dove nacquero tanti capolavori di Cézanne, accolse le strutture geometriche nella sua concezione pittorica. I paesaggi nati sui luoghi provenzali, o alla Roche-Guyon e in Normandia tra il 1908 e il ‘9, mostrano un fitto ser ­rarsi di cubi conficcati come aculei cristallini nello spazio cavo, e pare di sentire l’aspro crocchiare degli spigoli nella morsa.
Si può dire che la visione delle Demoiselles d’Avignon nello studio picassiano al ‘Bateau Lavoir’ abbia affrettato l’evoluzione già in atto di Braque sulla spin ­ta di Cézanne. Ma seguendo gli avvenimenti di quegli anni fondamentali ci si accorge che le personalità antitetiche dei due pittori portarono reciproca influen ­za sul processo evolutivo della pittura. Proprio da questo contrasto di intelligenze il cubismo prese carat ­tere, trovò la sua autonomia, rincalzò i valori pittorici in vista di un’oggettività puramente lirica, dove la realtà rivive sciolta da ogni impegno imitativo e risul ­ta nuova in conseguenza di una sintesi strettamente pittorica delle emozioni suscitate.

Picasso reagirà con maggior concisione sui volumi e sulla struttura dell’immagine; Braque è più sensibile alla finezza dell’accordo tonale e all’acuta indagine analitica dello spazio plastico totale. L’evoluzione del cubismo verso la restituzione del reale indagato nelle sue particolari componenti di forma spetta a Braque. che nel 1909 ha già dipinto la Natura morta con chi ­tarra del Kunstmuseum di Berna, la Mandola del 1911 della Tate Gallery di Londra, dove crea una singo ­lare sintesi di paese e di strumento musicale, prima sezionati e poi ricostituiti in unità e coerenza di pura invenzione lirica, e infine il famoso ritratto Il porto ­ghese del 1911 al Kunstmuseum di Basilea. Il suo tem ­peramento riflessivo e calmo è calato nelle giunture della visione, e il ribaltamento delle convenzioni pit-toriche è stato attuato senza ferocia, ma con implaca ­bile consequenzialità.
A questo momento il cubismo non si appaga più di una solidificazione visiva del reale. Ha raggiunto a fondo la percezione e la resa totale della realtà, col ­legando la visione parziale dell’occhio alla conoscenza totale già raggiunta dalla mente. Conta allo stesso grado l’intervento della fantasia lirica, che impedisce l’inaridirsi dell’immagine in un’operazione da geome ­tri, mantenendola invece dentro il costante fervore di un’invenzione poetica. La fase cézanniana si sareb ­be presto conclusa, se avesse lasciato immutabile la visione pittorica quale si ebbe dal Rinascimento. Il merito essenziale di Braque è di aver afferrato la forza raggiante, intellettuale ma affondata in violenti strati emotivi, degli esempi lasciati da Cézanne nelle tessere smaglianti delle ultime vedute della Montagne Sainte Victoire, che incombe sulla piana fulva di Aix. Tali esempi hanno agito sulla cultura circostante allo stes ­so modo irrecusabile, per l’impellenza vitale in essi contenuta, degli esempi ‘pietrosi’ di Giotto.
La svolta fondamentale nell’invenzione di una nuo ­va spazialità e sintesi totale di un oggetto nasce dal sottile assillo di Braque di coglierne tutte le apparenze molteplici, e di esporle sul piano del dipinto come somma simultanea dei diversi momenti di percezione razionale e in pari tempo lirica.
Dove Picasso porterà drammatica evidenza for ­male, Braque creerà una preziosa armonia di struttu ­re e di modulazioni tonali. Un trasparente lume ar ­genteo affiora dal mosaico degli incastri e conduce a unità vellutata i bianchi d’avorio, le ocre pallide, i erigi piumosi, i verdi svaniti dei midolli vegetali, le venature dei legni chiari, che si affollano sulla sua tavolozza raffinata. La ricchezza del cubismo si è av ­valsa proprio della divergenza di questi due maestri, impegnati ciascuno a suo modo al fine concorde di una realtà pittorica come creazione assoluta. Essa ini ­zia sul reale quotidiano; ma tralasciando la finzione empirica della prospettiva, entrambi approdano a una realtà visiva e tattile ricostituita per pure evidenze pittoriche.
Con gli spunti tratti dal mondo reale il cubismo apre una sequenza analitica che riduce fortemente, se non annulla, il predominio degli oggetti fisici. Ma allo stesso modo che ha evitato l’arabesco colorato dei ‘fauves’, Braque non accede agli sganciamenti della pittura astratta, nata in quel giro di anni. L’oggetto aperto dall’interno per scoprirne tutte le facce giace sotto il procedere della vivisezione; in certuni mo ­menti rischia di perdersi in una frantumazione che ne smembra la consistenza; ma resiste e anzi rinasce con un’evidenza emblematica che amplifica e rinnova l’esperienza del reale secondo criteri poetici e pitto ­rici.
È stato giustamente osservato che la rivoluzione cubista non introdusse, nella pittura, i nuovi oggetti dell’epoca: non l’automobile, non il treno, nessuno de ­gli oggetti della civiltà delle macchine che introdus ­sero i futuristi. Gli oggetti del cubismo sono rimasti quelli tradizionali: brocche, bicchieri, strumenti mu ­sicali, teste greche, paesaggi e figure umane. Nella pit ­tura cubista si pongono questioni di linguaggio pit ­torico più che di oggetti e di immagini indipendenti dalla nostra conoscenza fisica della realtà; ed è perciò che l’oggetto consueto della vita quotidiana diventa emblema di una nuova concezione del reale, antitetica a quella dell’arte rinascimentale, arricchendo in tal modo le nostre cognizioni con la novità delle sue sin ­tesi.
Braque non possiede la versatilità e la forza irruen ­te di Picasso; ma il suo fervore calmo, la sua necessità di armoniose conclusioni sul filo del raziocinio, il senso irriducibile della sobrietà e dell’eleganza formale e coloristica che seppe sfruttare fino alle più ardite mo ­dulazioni dell’intuito lirico, hanno dato una coerenza lampante alla sua pittura, che tra i contemporanei e per vie diverse raggiunsero solo Matisse e Morandi.
Nel ritratto analitico del Portoghese appaiono per la prima volta anche le lettere dell’alfabeto e i nu ­meri da imballatore. Sono presenza formali, sganciate da significati letterali, puri valori plastici. Essi verran ­no ripresi da tutti i pittori cubisti; e sarebbe difficile rintracciare un valore semantico. Tuttavia agiscono con una forza di recupero dello spazio reale annullato dalla sintesi cubista, come i ruderi sparsi in una landa tramandano i ricordi di una civiltà. Agiscono sullo stesso margine di suggestiva evocazione i ‘trompe-l’oeil’ dei ‘papiers-collés’ che Braque inventa nell’estate del 1912. Eliminata l’invadenza fisica dell’oggetto, gli ele ­menti eterogenei che Braque raduna nei suoi quadri concedono una rigorosa bidimensionalità dell’immagi ­ne; nello stesso tempo, da quel margine di astrazione lasciano filtrare la suggestione del mondo fisico, senza ricorrere alla sua fisicità. L’evocazione è compiuta dai ritagli di giornale, carte da parati, spartiti musi ­cali, manifesti, cartigli, sabbia, strutturati sempre dal rigore geometrico portato all’estrema semplicità da pochi segni di matita, anch’essi allusivi della forma di un bicchiere, di un violino, di una scacchiera. L’ele ­mento reale e i materiali amorfi vengono con rapida mossa trasferiti nella composizione dell’immagine, che vive di un’autonoma vita poetica. Qualche anno do ­po Kurt Schwitters ripeterà in chiave dadaista la stes ­sa inserzione di elementi sparsi ed eterogenei. Ma laddove il ‘papier-collé’ di Braque viene assunto dalla rarefatta trasfigurazione mentale, nel ‘papier-collé’ di Schwitters si concentra la consunzione esistenziale, la tumefazione del cascame svilito recupera una viru ­lenza drammatica e si impone come traccia di un nau ­fragio umano.
Anche la guerra darà motivi per la separazione di Braque da Picasso. Ferito gravemente, Braque tor ­nerà alla pittura soltanto nel 1917. La frantumazio ­ne geometrica aveva trovato nel ‘papier-collé’ l’avvìo all’operazione inversa di ricomporre gli elementi figu ­rali e astratti in un’immagine intarsiata, che si concen ­tra però verso un’unità ideale di estrema coerenza. Nei ‘chitarristi’, negli ‘arlecchini’, nelle ‘nature morte di strumenti musicali’, negli ‘interni dei caffè-bar’, che Braque compone con ritagli inseriti nel colore della tavolozza fino al 1922, l’unità di visione si semplifica, riduce anche la piumosità luminosa degli anni prece ­denti; ma nello stesso tempo si realizza per incastri più complessi di spezzoni geometrici rigidamente fron ­tali. schiacciati sul piano del quadro come le figure intagliate e senz’ombra sull’oro infinito del mosaico bizantino.

La perizia di questa operazione creativa di Braque riesce a togliere ogni sospetto di rovello, e ne deriva un’arte più distesa, severa ma serena, anche intessuta di colori vivaci, dove il contrasto degli elementi figu ­rali e delle materie inconsuete si pacifica nell’ordine rispecchiante un’irreprensibile aspirazione interiore di classicità. Rifluisce nelle sue opere la tradizione di chiarezza e di proporzione classica dell’arte latina. In un certo senso la pittura di Braque è in parallelo con la poesia di Valéry e con la musica di Ravel, sorvegliatissimo creatore di strutture sonore, entro cui il particolare prezioso di un suono si esalta nell’organi ­smo sonoro, pari alla specchiatura di un colore puro dentro la lucida organicità dell’immagine di Braque. È una classicità di pensieri più che di soggetti, in cui si placa non solo la risacca confusa dell’esistenza, ma pure l’inquietudine e il rovello intellettuale in uno stato di grazia. Gli oggetti restano quelli dei suoi anni di ricerca: tavoli, chitarre, brocche, fruttiere, coppe, le pipe di gesso, i limoni, il panno bianco, la carta da parati. Avverti però uno spazio più intimo, l’intima calma della casa. La luce ritorna dentro il quadro; ma anch’essa non fenomenica, non indica l’ora quoti ­diana, bensì una più accesa spartizione di colore. An ­che il nero si scinde dall’idea dell’ombra, si inserisce come una timbratura di colore grave ma non cupa. Contiene difatti una fiamma di luminosità che rincal ­za la specchiatura dei colori limitrofi. Braque raggiun ­ge attorno al 1930 una raffinatezza di immagini senza lenocinio di preziosismi, per effetto dell’equilibrio tra ispirazione e maestria artigiana. Riprende anche il tema del paesaggio: spiagge rocciose incombenti sul mare oscuro e barche tirate in secco come delfini are ­nati. Sono i luoghi delle ‘falaises’ di Courbet, di Cézanne, di Monet. C’è la roccia cava come un arco di Étretat. La consonanza di Braque a questi paesaggi famosi è drammatica per la massiccia imponenza dei volumi giganteschi nell’imminente fortunale.
In contrapposto, e quasi a controcanto, inizia una serie di bagnanti sinuose, disegnate da profili ondulati e grossi, evocanti le curve dei violini o delle coppe dal ­la cavità espansa, il cui fine è l’arabesco dinamico del ­le ‘figure rosse’ sugli antichi vasi mediterranei. Senza mai concedere alle metamorfosi surreali, è questo un momento di influsso dell’ambiguità surrealistica, che investe anche le nature morte. Nascono le modelle a doppio profilo, la ‘silhouette’ dei corpi si inserisce e si confonde con i disegni delle tende e i geroglifici delle carte da parati. Si scopre un eccesso di elementi deco ­rativi che si stipano dentro il quadro, soffocandolo di intelligenza e di eleganze.
Il blocco volumetrico si alterna a queste figura ­zioni sgusciami, la solidità formale lascia a tratti flui ­re l’arabesco circuente. L’ideale classico tocca già il suo manierismo virtuosistico e al pari di Matisse, ma su altre dimensioni poetiche, Braque orchestra la sua maturità pittorica al vertice di una visionarietà intel ­lettuale. L’instancabile controllo del pittore riemerge nelle opere eseguite dopo il 1940. Il colore asciutto e le architetture statiche cedono il passo a una nuova semplificazione delle immagini. L’artista dirada in primo luogo le stipature degli oggetti, allarga le superfici cromatiche e ne riduce la dialettica. Mantieni l’abolizione delle finzioni prospettiche, e cade per ciò stesso lo spazio naturalistico. L’oggetto resta ancora emblematico di una realtà mentale e lirica; ma anziché sprofondare in una dimensione remota, si impo ­ne nei primi piani ravvicinati, che la timbratura dei colori, non più minerali, ma schiariti da una sostanza liquefatta, rende trasparenti malgrado la loro coesione. Sicché gli accostamenti avvengono adesso per somiglianze di forme che si riflettono l’una nell’altra, o per rapida dissonanza cromatica: la brocca col vio ­lino, il vaso col pesce, e il nero con l’ocra, il verde con il rosa.
L’ultimo tema di Braque sono gli uccelli, i grandi volatili remiganti nel cielo. Braque ha ripetuto nel 1955 a un intervistatore l’essenza del suo lungo lavoro: “Durante tutta la mia vita, la mia grande preoc ­cupazione è stata di dipingere lo spazio”. Questi Oiseaux ritagliati su fondo chiaro, ad ali aperte, sono l’ultimo simbolo dei suoi alti voli di fantasia per la creazione di nuovi spazi ideali, e resi concreti in forza di invenzione pittorica, per le creature della terra.


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Bart