PITTURA: I MAESTRI: Canaletto: Venezia salvata
18 Agosto 2009
di Giuseppe Berto
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1968] Â
Giovanni Antonio Canal meglio conosciuto come il Canaletto, il più famoso “pittor da vedute” della sua epoca, è una specie d’intoppo nella pittura veneziana del Settecento la quale, senza di lui, correrebbe con naturale sviluppo dalla drammaticità ereditaria di Giambattista Tiepolo alla drammaticità precorritrice di Francesco Guardi. Questi due sì sono nella ruota giusta del tempo, seguono il destino della splendida città che, ormai quasi solo apparenza, va verso il suo disfacimento, disgrazia che del resto capita alla gene Âralità delle cose umane. Guardi percepì la grandezza occulta di questa disgrazia, l’oscuro piacere che può dare il male e il senso della fine, ed espresse ciò con le vedute d’una città che porta in sé il germe della morte: la pittura di Guardi ci introduce nell’epoca moderna.
Canaletto invece, nato appena quindici anni pri Âma di Francesco Guardi, si trova contro il tempo; nelle sue vedute e nelle sue scene egli cristallizza Venezia e i veneziani in una verità ferma, immune da decadenza o disfacimento, destinata a durare per sempre. Tal Âvolta egli addirittura sublima la sua città dilatandola in dimensioni fantastiche e tuttavia non irreali, sicché oggi, ossia col senno di poi, vien da pensare che facendo un altro piccolo sforzo egli avrebbe potuto inventare il surrealismo o la pittura metafisica. Non ha inven Âtato niente.
Tutto questo, si capisce, non avrebbe importanza alcuna se Canaletto non fosse un artista. Ma, pare, egli è un artista, ha fatto delle conquiste nel campo della luce e della prospettiva atmosferica, e, ciò che più conta, ha saputo arrivare a risultati di poesia, seb Âbene si fosse messo nelle condizioni meno propizie per arrivarci. Non è un personaggio del tutto semplice questo pittore che sembra tanto semplice. Oggi lo si direbbe un alienato, e in verità produsse con meravi Âgliosa abbondanza quel che la moda e anzi l’industria culturale del tempo, non essendo ancora stata inven Âtata la fotografia, chiedeva ai pittori. Lavorava soprattutto per l’Inghilterra. Dietro ai quadri qualche volta scriveva di aver ritratto la scena “con ogni mag Âgior attenzione” e in più attestava, per quanto non sempre fosse vero, che tale veduta veniva da lui ripro Âdotta “per la prima e l’ultima volta”. Se il Canaletto è un artista, bisogna proprio dire che le vie dell’arte sono parecchie, per nostra buona ventura.
Eppure aveva cominciato grandiosamente, si vuo Âle, con un atto di rivolta al padre, il quale l’aveva messo a tirare la carretta al proprio seguito facendogli fare scenografie per opere e drammi. A ventidue anni, come informa lo storico suo contemporaneo Antonio Maria Zanetti, “annojato dalla indiscretezza de’ poeti drammatici” il Canaletto “scomunicò solennemente il teatro” e se ne andò a Roma. Chissà mai se il gio Âvane scenografo ebbe a che fare direttamente anche con Antonio Vivaldi, le cui opere si davano allora in Venezia, e ne rimase “annojato”. Del resto ben si sa che i geni sanno essere sovente indiscreti e noiosi al pari di tanti altri, se non di più.
A Roma ad ogni modo Canaletto si guadagnò da vivere facendo dapprima lo scenografo, diventando tuttavia prestissimo, probabilmente per influsso dei paesisti fiamminghi, “pittor da vedute”, ossia quanto di più simile ad uno scenografo si possa immaginare. Che l’abbia fatto accodandosi all’andazzo più conveniente e per lui più facile, o soggiacendo inconsciamente al dominio paterno che pur si era voluto scrollare di dosso, non è lecito sapere: a quei tempi la psicoanalisi non esisteva ancora. Certo fu condizionato anche dal Âl’essere egli nato e cresciuto a Venezia: “i siti della quale”, come nota l’acuto Zanetti, “non possono esse Âre più opportuni a quel fatto”, vale a dire a pittar vedute. Infatti, tornato a Venezia dopo un anno o due, egli si mise a dipingere piazza San Marco e il Canal Grande e altri celebri siti, dapprima con un certo nervosismo, poi sempre più pacatamente, come forse piaceva agli inglesi. Venezia è un polo della sua esistenza, e l’altro polo è l’Inghilterra, entrambe croce e delizia come suole, oggetto d’ambivalenza. Doveva sicuramente amare Venezia, altrimenti non avrebbe potuto ritrarla come l’ha ritratta, ma nello stesso tempo coltivava l’orgoglio di dipingere per lontani mi Âlord pieni di ghinee, i quali egli con molta probabi Âlità odiava perché di ghinee a lui ne arrivavano po Âchine, essendoci di mezzo l’intermediario. Comunque, se metteva in conto anche la soddisfazione d’essere apprezzato dagli aristocratici inglesi, fu molto ripa Âgato perché il gruppo più cospicuo delle sue opere, che componeva la collezione personale del suo mece Ânate-mercante Joseph Smith, fu nel 1763 venduto al re Giorgio III e ancor oggi si trova al castello reale di Windsor, e quando se ne stampa la riproduzione di qualcuna viene scritto che ciò accade per cortesia di Sua Maestà la Regina Elisabetta II.
Il Canaletto ha fama d’essere stato avido di de Ânaro, esoso, scorbutico. Questa sana rinomanza gliel’hanno fatta, naturalmente, coloro che acquistavano i suoi quadri e avrebbero voluto pagarli meno di quanto li pagavano. Che il Canaletto, ritraendo Venezia per lungo e per largo, tenesse anche un occhio al mercato è giudizioso supporlo. Ma è ancor meglio pensare che il bernoccolo degli affari ce l’avevano più quelli che compravano i suoi quadri che non lui che li vendeva. Il primo inglese di cui si sa per certo che lo fece lavo Ârare fu un impresario teatrale di nome Owen McSwiney: vendette due sue vedute allegoriche su rame al duca di Richmond, al quale comunicò per lettera che il Canaletto era bizzarro, e mutevole nel chiedere il prezzo delle sue opere, ma assai bravo nel ritrarre dal vero. Ci sarebbe da pensare ad un’astuzia da rivendi Âtore o sensale, se non ci fosse la seguente stizzosa sen Âtenza dell’autorevole scrittore e magistrato francese Charles de Brosses, al quale evidentemente non era riuscita l’impresa d’acquistare un Canaletto a prezzo di favore: “Non è più possibile trattare con lui a causa dei prezzi che pretende”.
Qui il Canaletto comincia a diventarmi proprio simpatico, compassionevolmente simpatico direi, con un’insistenza sul concetto che rivela, nonostante le molte diversità che ci separano, una mia tentazione d’identificarmi in lui. Cioè da questo momento in poi lavoro su di lui di fantasia, attendibilmente peraltro, perché tutto quel che riguarda la psicologia del pro Âfondo è probabile in virtù della circostanza che non può essere provato.
Esoso, dunque, avido di denaro. E carattere difficile, faceva i prezzi a capriccio, forse seguendo impulsi di simpatia o antipatia nei confronti di chi si presentava per acquistare. Gl’inglesi gli andavano a genio, i francesi no. Ne abbiamo abbastanza per affermare che la sua caratteristica dominante dev’essere stato il senso di frustrazione. Come vedutista si trovava invischiato in un’arte minore, ossia, regolarmente iscritto al sin Âdacato pittori di allora, era una specie di mestierante della pittura, il cui compito consisteva nel riprodurre gradevolmente i siti gradevoli, in modo che quelli che li avevano visti potessero conservarne dilettoso ricordo e quelli che non li avevano visti ricavarne dilettosa cognizione.
Dentro di sé, e nelle proprie opere migliori com’egli poteva vederle e giudicarle, egli era molto di più, era un artista, ne aveva orgogliosa sicurezza. Chi lo giu Âdicava “pittor da vedute” ancorché famoso, chi con Âdiscendentemente diceva ch’era assai bravo nel ripren Âdere dal vero, chi insomma si fermava all’esteriorità dei suoi quadri, lo feriva nell’intimo, gli portava dub Âbi, gli dava smarrimenti, forse angosce. L’arte è sem Âpre un mestiere opinabile, e non esiste grandezza o presunzione che salvi da un andirivieni di certezza e di sconforto. Così diventa preziosa anche una cosa fu Âtile qual è l’elogio, la conferma degli altri. Canaletto la conferma l’aveva nel mercato, dove si trova una conferma ambigua, e nella lode di chi diceva ch’egli era il migliore tra i minori, vale a dire prigioniero di un genere che non arrivava all’arte. Così egli oscilla paurosamente tra senso d’inferiorità e senso di supe Âriorità , si butta via fabbricando da forsennato quadri su quadri, magari infilandosi dentro la camera oscura a copiare la realtà capovolta, o col processo quasi meccanico della ‘quadratura’, ch’egli ben conosceva perché lo usano comunemente gli scenografi. Poi, si capisce, gli veniva il senso di colpa e la necessità di riscattarsi nel modo più immediato, ossia facendosi pagare: se mi volete, costo molto. Né gl’importava granché se quelli, il viaggiatore de Brosses tanto per dire, se ne andavano impermaliti senza comprare nul Âla, perché egli aveva alle spalle il mecenate inglese.
Questo mecenate, il quale si chiamava come s’è visto Joseph Smith, con ogni probabilità non era per niente un mecenate, bensì uno che si faceva nel modo migliore gli affari suoi. Editore, collezionista, mercan Âte, lo Smith girava nell’orbita del consolato britannico di Venezia, e ad un certo momento divenne console: posizione sociale ottima per esercitare le mercature con successo. Ai compatrioti inglesi spesso vendeva i Canaletto a intere serie, egli stesso accumulò decine di quadri e almeno centoquaranta disegni, quelli che poi furono venduti al re. Il suo amico Orazio Walpole dice di lui che ingaggiò il Canaletto a lavorare per parecchi anni a basso prezzo, mentre lui vendeva le sue opere agli inglesi guadagnandoci sopra parecchio. Anche lui un anticipatore, tutto sommato. Questa fu la colonna alla quale si appoggiò il bizzarro, l’esoso, l’ar Ârogante Canaletto per quasi tutta la vita. Sarebbe edi Âficante dire che ne fu rovinato, ma non è possibile immaginare quel ch’egli sarebbe stato senza l’abbon Âdanza di acquirenti inglesi. Forse non molto diverso da quello che fu, poiché nella sua vastissima produ Âzione raramente si rintracciano spinte d’evasione. En Âtro i moduli paesistici si trovava bene ; e del resto quan Âdo il momento era felice, e la sua prodigiosa tecnica non si esauriva in se stessa ma gli serviva per rappre Âsentazioni d’una fissità magica, i risultati erano alti.
Lo Smith sicuramente non era contrario a ciò, anzi. Purché fosse salvo il ritmo della produzione e rispettato il gusto inglese, egli lasciava libero il Ca Ânaletto. In altre parole, non gl’impediva certo di esse Âre un artista. Forse poco gl’importava che lo fosse, ecco tutto. Questo però doveva importare al Cana Âletto, e se gli fosse davvero importato avrebbe ben tro Âvato la forza di sottrarsi allo Smith e alle sollecita Âzioni del mercato. Invece vi si adattò perché era un debole, o perlomeno un mite, e la sofferenza derivantegli dalle sue frustrazioni non fu quasi mai costrut Âtiva, non lo spinse fuori, lo portò solo alle impennate d’orgoglio, alle bizzarrie, al chiedere prezzi esosi ai clienti che non fossero gl’inglesi che gli procurava il signor Smith. Così finì per adattarsi alla propria sorte con una fedeltà direi masochistica.
Nel 1745, poiché la guerra di successione austriaca intralciava i traffici e l’afflusso dei viaggiatori inglesi a Venezia, il Canaletto, per non perdere i contatti con la ricca clientela, si recò lui stesso a Londra dove, al solito, intraprese a lavorare intensamente. Aveva quarantott’anni e ancora ventitré anni di feconda attività davanti a sé. Alcuni dei suoi studiosi affermano che da quel viaggio in Inghilterra cominciò la sua deca Âdenza poiché il contatto con la più rigida e chiara aria settentrionale l’avrebbe reso freddo ed affettato. Altri viceversa sostengono che il cambiamento d’atmosfera lo condusse a rinnovare certe sue consuetudini che altrimenti avrebbero potuto dar nella maniera. Non fu. almeno al principio, un viaggio facile come si poteva sperare. Davanti alle nuove vedute ch’egli andava pit Âtando, gli amatori inglesi rimasero a dir poco delusi e si diffuse la voce che il Canaletto capitato a Londra non era quello vero, bensì un altro, più scadente. Egli reagì orgogliosamente con un comunicato stampa, os Âsia pubblicando su di un giornale un avviso col quale invitava le persone competenti a recarsi presso il suo recapito nella casa del signor Riccardo Wiggan in Silver Street, dove per quindici giorni avrebbe tenuta esposta la sua opera più recente, una veduta del parco di San Giacomo. Dopo di allora gli andò sicuramente meglio, prova è che soggiornò a lungo a più riprese in Inghilterra, vi dipinse molti bei quadri che gli fu Ârono comprati e. si spera, giustamente pagati.
Verso i sessant’anni tornava definitivamente a Ve Ânezia, dove lavorò di meno e, per concorde opinione di tutti questa volta, peggio di prima. I tempi cam Âbiavano, il vedutismo era in declino, la conferma ester Âna di cui egli aveva sempre avuto bisogno cominciò a cercarla nell’ammissione all’Accademia di Belle Arti. appena fondata. Un posto di accademico, in fondo, era quanto di più giusto gli potesse toccare. Ma le accademie sono di norma più imperfette degli acca Âdemici, sicché lo respinsero ben due volte. Fu ammes Âso, non senza contrasti, solo nel 1765, e per saggio d’ob Âbligo presentò il Portico di palazzo, uno dei suoi qua Âdri peggiori dove, rinnegate le grandi conquiste di prospettiva atmosferica, si sbizzarrisce in un’orgia di prospettiva geometrica. Ci sarebbe da pensare ad una presa in giro, ma sembra che l’umorismo, la sorridente amarezza con la quale i veneziani andavano masche Ârando la loro decadenza, non l’abbia mai sfiorato. Le sue vanità di accademico diventano sempre più pic Âcole. Nel ’66 sottoscrive un disegno nel seguente mo Âdo: “Io Zuane Antonio da Canal. Ho fatto il pre Âsente disegnio delli musici che canta nella chiesa Ducal di S. Marco in Venezia in ettà de anni 68 senzza ochiali”. Si spense il 20 aprile di due anni dopo. A quanto si sa, visse senza moglie e morì senza testamen Âto, e anche questi sono segni della sua moderazione.
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Commento by Carlo Capone — 18 Agosto 2009 @ 13:30
Splendido ritratto di di un artista che meglio di tutti ha interpretato il bisogno di potenza e fama veneziano. L’accenno alla decadenza settecentesca della Città mi ha fatto tornare alla mente quel piccolo capolavoro di Berto che è Anonimo veneziano, da cui venne tratto un film di successo con la regia di Enrico Maria Salerno. Quella Venezia morente con il protagonista trova pochi riscontri nel cinema italiano.
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 18 Agosto 2009 @ 13:43
Fu un film delicato con una splendida Florinda Bolkan.
Commento by Carlo Capone — 18 Agosto 2009 @ 14:08
concordo, noi giovani di allora impazzivamo per Florinda Bolkan. Io poi ce l’avevo di fronte casa, nel senso che la nostra vicina di piano era identica a lei. Scura di carnagione e stessi occhi bellissimi. Pregavo i santi di capitare con lei in ascensore per poterla ammirare da vicino. Tra l’altro era simpaticissima. Cara Sandra.
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 18 Agosto 2009 @ 22:10
Straordinarie le pitture del Canaletto. Hanno una grande magia di luce, che approda a risultati di vera e propria poesia. Si ha una Venezia d’incanto, immortale.
Ottimo ed esaustivo il ritratto che si fa, nella presente ampia, ben documentata pagina, di questo poeta della pittura
Gian Gabriele Benedetti
P.S.
Indimenticabile, il coinvolgente film “Anonimo veneziano”!