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PITTURA: I MAESTRI: Canova e la bellezza

16 Settembre 2009

di Mario Praz
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1976]  

È un pregiudizio romantico vedere unica fonte del ­la poesia nel sentimento popolare immaginato come genuino, immediato, quasi riflettente la paradisiaca condizione del fanciullo. In base a questo pregiudizio, è accademia quella che s’ispira ai modelli classici, ma non quella che s’ispira a quei modelli che, anziché ai Musei Vaticani, son conservati nel Museo dell’Uomo a Parigi; si fa dell’accademia copiando l’Apollo del Belvedere e il Laocoonte, ma si farebbe dell’arte pura, primigenia, derivando motivi e tecnica da quelle pit ­ture preistoriche sui ciottoli che, con nome curioso, son conosciute come “arte mobiliare”. Lionello Venturi fa il cipiglio a David e a Canova, sorride a Mirò e a Klee: perché gli pare che colui che copia dai Musei Vaticani uccida lo ” slancio meraviglioso verso l’ignoto della fantasia”, mentre colui che copia dalle grotte di Altamira “realizzi appieno l’autorità dell’arte”. L’ar ­te ellenistica è per lui una fonte impura, l’arte mesolitica, l’arte schematica, son fonti purissime.
Codesto punto di vista, in sostanza romantico, ri ­badito dalla tradizione crociana, il Venturi l’aveva fatto suo fin dal Gusto dei primitivi del 1926, in cui sotto il nome di gusto distingueva due tipi fondamen ­talmente diversi d’ispirazione, uno immediato nei pri ­mitivi, l’altro mediato nei greci e nei classici: questi ultimi non farebbero che raffinar la natura, mentre i primitivi manifesterebbero nelle loro opere la presen ­za di Dio; troverebbero Dio non nella natura ma nella fede, e rivelerebbero direttamente, con linee, forme, colori, non attraverso la mediazione della natura, ogni sentimento umano. Nel che può vedersi una variante della dottrina ruskiniana secondo cui l’opera d’arte era giudicata in ragione della presenza o dell’assenza di “spirito religioso”. L’immediatezza, feticcio romantico di cui sono sottospecie l’impressionismo e la scrittura automatica, una volta assunta a supremo criterio di giudizio, ha fatto sì che non solo vengano condannate intere epoche artistiche come il neoclassicismo, ma che dei grandi artisti neoclassici si salvino solo gli schizzi, gli abbozzi, gli spunti, come quelli che conservano qualche scintilla di quel fuoco divino che poi la riela ­borazione smorzerebbe. È la teoria platonica del fanciullino, già messa in versi nella famosa Ode in Intimations of Immortality from Recollections of Early Childhood del Wordsworth: l’anima fanciulla si trae ancora dietro riflessi di luce celeste, ma a poco a poco le ombre della prigione terrena cominciano a chiudersi sul ragazzo, egli può tuttavia ancora distinguere la fonte della luce e trovar gioia in essa; il giovinetto, sebbene si sia ancor più allontanato dall’oriente, è tut ­tavia accompagnato dal ricordo di quegli splendori; ma alla fine l’uomo li vede svanire per sempre, per ­dersi nella banale luce quotidiana. Perciò il fanciullo è il migliore dei filosofi: “Thou best Philosopher”, egli è l’occhio tra i ciechi, “thou Eye among the blind”.
La critica artistica tuttora imperante in Italia re ­spira ancora nel clima di questa tradizione romantica. Segni che le cose stiano cambiando (neanche il Croce avrebbe sostenuto che la sua Estetica era l’ultima pa ­rola) si notano non tanto tra noi, quanto all’estero. È di ieri in Inghilterra la reazione contro la critica romantica che in nome d’una pretesa arte ” tutta cuo ­re ” non riconosceva ad Alexander Pope rango di poe ­ta, ed è forse vicina l’ora che anche tra noi non si vorrà più di David e di Ingres approvare solo gli schizzi, e di Canova salvare soltanto i bozzetti: che si cesserà insomma di guardare la stoffa dal suo rovescio, dal suo seamy side.
Tornato in onore il mobilio neoclassico, rivaloriz ­zata l’architettura del neoclassicismo nella sua parte vitale, d’avanguardia, riapprezzati al giusto valore Da ­vid e Ingres, su cui si sono moltiplicati i libri in questi ultimi anni, resta ancor da render giustizia a Canova, non tanto all’estero, dove Rudolf Zeitler ha parlato adeguatamente di lui in Klassizismus und Utopia (Stoccolma 1954), quanto proprio da noi.
Ci sono dei luoghi comuni sull’arte del Canova: che egli sia un artista del grazioso, appartatosi dai tra ­volgenti avvenimenti politici dell’epoca per sognare delle Grazie e delle Muse; e che egli sia un tempera ­mento di artista settecentesco incapsulato e raggelato in uno stile superimposto, il neoclassico, creatore dun ­que d’opere non libere, e perciò stesso qualificabili di non-arte. Entrambi questi luoghi comuni trovano appiglio nella biografia dell’artista, amante del quieto vivere, e d’altronde restio dapprima a recarsi a Ro ­ma (“la natura si trova dovunque senza andare a Roma”) e poi renitente, nei primi tempi, ai consigli di coloro che volevano spingerlo all’imitazione dell’antico. Eccoci dunque proprio al caso del fanciullino di Wordsworth su cui “shades of the prison-house begin to close”. Caso parallelo, si direbbe, a quello di Ingres come lo vede Lionello Venturi in Pittori moderni: “Egli è il caso tipico d’una forma volutamente clas ­sica sovrapposta a un contenuto tendenzialmente ro ­mantico, senza che forma e contenuto si siano mai completamente fusi. Né si sa se attribuire la colpa di quella mancanza di fusione, di sintesi, all’assurdo dei suoi principi estetici o alla fiacchezza del suo tempe ­ramento morale”. In forma temperata, il secondo di quei luoghi comuni così si trova espresso in Arte e ‘mestiere’ nel Canova di Aldo De Rinaldis (“Arti fi ­gurative”, I, n. 3, 1945):

Venuto all’arte nel tardo Settecento di Venezia, quando il gusto dell’arte classica s’era affermato come non mai, con precedenza nell’architettura, il Canova si sentì sospinto a superare il settecentismo declinante, a risolverlo o consumarlo in una romantica nostalgia della bellezza antica, ch’era per lui come una bellezza esotica appena intraveduta. Per felicità d’istinto egli era un agile costruttore di settecentesche eleganze li ­neari; ma le affinò mitigandole, le addusse a modula ­zioni più lente e più severe. Era un sensuale affinato e senza foga; ma tentò di spegnere gli apporti romanti ­ci del sensualismo nella sostenutezza d’un linguaggio classicamente misurato.  

Il De Rinaldis non vede tuttavia dissidio tra i due elementi formativi dell’arte canoviana nel campo di opere che esprimono i momenti più felici (Amore e Psiche in piedi, le Danzatrici, l’Endimione):

Sentiamo in esse, come in poche altre sculture del ­lo stesso tipo, che tra i due elementi formativi dell’ar ­te canoviana â— il senso casuale della vita e la passione intellettualistica dell’arte classica â— vi fu pacifica age ­volezza di coesistenza, e non dissidio. Ciascuno dei due trovò nell’altro la sua disciplina e il suo temperamen ­to; e convennero ad una placida approssimazione di gelido equilibrio […]. Ci sentiamo di fronte alla vasta opera sua come dinanzi ai cospicui volumi di un abilis ­simo verseggiatore di epopee vacue e sonore, nei quali ci sia possibile salvare da negazioni critiche un gruppo di sonetti, qualche ode di leggero accento, qualche ballata alla maniera antica.  

In altre parole, il Canova troverebbe riscontro, in letteratura, nella figura di Vincenzo Monti, il cui ori ­ginario gusto barocchetto s’era calato nelle forme classiche.
Lo stesso tono conciliante troviamo nell’Arte mo ­derna di Emilio Lavagnino, che dopo aver constatato che la lingua parlata dal Canova nei bozzetti appare diversa da quella da lui usata poi nella traduzione dell’opera nel linguaggio ‘sublime’, conclude:

Due linguaggi diversi, questo è il punto, e tuttavia necessari perché le immagini nate nella sognante fan ­tasia del Canova potessero assumere, nei suoi momenti più felici, quella suprema eleganza e quella grazia che ce le fanno apparire fra i supremi raggiungimenti artistici della loro età.  

Abile, diplomatica formula in cui il Lavagnino combina quei due luoghi comuni con la famosa frase del Suasy a proposito dell’artista: ” Scultore veneziano tradotto in greco”.
Carlo L. Ragghianti nei suoi Studi sul Canova (in “Critica d’arte”, n. 22, 1957) fa gran conto dei dise ­gni del Canova, pur riconoscendone l’ineguaglianza: da una parte ci troviamo di fronte ” ad una raffinatez ­za coltivatissima ed estenuata squisitezza tale da ricor ­dare Prud’hon”, dall’altra a “una spontaneità natura ­le e ‘senza stile’, che può aver qualche riscontro negli schizzi realistici della Rivoluzione di David”. A giu ­dizio del Ragghianti questa convivenza di modalità disegnative illumina singolarmente l’originalità artisti ­ca del Canova. ” Senza questa specifica convivenza di un contadino, di un incolto, di un naturale, di uno spontaneo ‘senza lettere’ con un’anima ricca, anzi pie ­na di cultura e di forme” potremmo esser tratti ad assomigliare l’artista ad un Monti:

Ben diversamente dal Monti, letterario e atteggia ­to sin nelle minime e più dozzinali occorrerne e realiz ­zazioni della vita, studiato e paludato anche nella vi ­cenda quotidiana, i ‘disegni dal vero’ sono la spia di una profonda, radicale, organica ingenuità e vergini ­tà di sensi umani, di una naturalità spontanea, di una semplicità essenziale di vita interiore, di un’affet ­tività pronta, di un’emotività sorgiva. Canova è e si è conservato un uomo comune, non si è esoterizzato, non si è identificato totalmente con un’immagine su ­blimata e magnanima di se stesso […] non si è traspor ­tato tutto ed esaurito, sino a diventare quasi artificia ­le, nel mondo mitologico dove pure trova soltanto le condizioni vitali per l’espansione completa della sua fantasia.  

Pel Ragghianti la parte vitale dell’opera canovia ­na risiederebbe in quel che essa serba dei sentimenti spontanei di quest'”uomo comune”, senza pur voler negare “tutta la parte artistica educata – e in gene ­rale tanto più caduca quanto più maestosamente monumentale e ‘sublime’ “. E in nota da una lista di opere vitali, aggiungendovi numerosi bozzetti in terra e cera, e concludendo:  

Una monografia sul Canova fatta con intento este ­tico si troverà, in molti casi, sia a dare rilievo maggiore a piccoli schizzi e disegni che ad opere imponenti, sia e soprattutto a tracciare percorsi delle opere, che bene spesso avranno l’acme sempre in un disegno o in un bozzetto o in una stesura non definitiva, anziché nella scultura finita (detto dal punto di vista convenzionale).
E ancora:  

La statuaria, si badi bene, non è sempre il punto conclusivo e rappresentativo della sua arte, anzi fre ­quentemente ne è una propaggine ed anche una stan ­chezza, o una diversione operatasi per l’intervento di una serie di partecipazioni storiche, sociali ed anche di psiche personale (l’immortale in vita, senza con ­trasto) .

Il punto di vista del Ragghianti, come si vede, non è diverso da quello del Venturi; del Canova si salva quel che è espressione di umanità primigenia, spon ­tanea: “Le forze di sentimento e di cuore, di uma ­nità commossa o turbata o esultante od epicamente contemplante, di entusiasmo e di sensualità, egli le conserva sempre attive, semplici e sanguigne come sono nella spontanea natura di ogni uomo intero…”.
Elena Bassi, in quella che è a tutt’oggi la migliore monografia italiana sul Canova (1943), accetta la formula dell’artista che per mettersi all’unisono con lo spirito del suo tempo “dovette soffocare le aspira ­zioni giovanili e quasi sempre rinnegare se stesso “:  

Vedremo nello scultore un artista raffinato, che sa mantenersi Veneto nel raggiungere effetti di sottile cromatismo; ma non sa valutare le proprie possibilità quando vuoi fare composizioni colossali, a cui era spin ­to dalla volontà d’interpretare il gusto dell’epoca, dal tentativo di staccarsi da quella tenue vena arcadica che costituiva il suo maggior fascino.

A cui sembra contrastare, poche righe sotto, la chiusa:  

A noi rimane il rammarico di dover concludere che il Canova, dotato da natura in modo tale da po ­ter assurgere ad altezze supreme, rimane quasi prigioniero nelle pastoie delle teorìe artistiche e soffocato dall’enfasi petulante dei contemporanei.

Quali sarebbero le altezze supreme a cui poteva assurgere il Canova per dono di natura? â— ci doman ­diamo. Forse “quella tenue vena arcadica che costi ­tuiva il suo maggior fascino”? Comunque, la Bassi s’allinea all’opinione corrente: “A noi il Canova pia ­ce là dove esula dal suo tempo, come nei ritratti che continuano la tradizione settecentesca più schietta”. Medesima soluzione che per David e per Ingres. An ­che Giuseppe Delogu, in una recente antologia della scultura italiana, salva Canova per le opere per le quali “osserva il vero e si ispira all’umano modello, agli umani affetti”, constatando d’altronde che “fri ­gidezza, accademismo e maniera sono il passivo evi ­dente dell’arte canoviana”. Dovremmo dunque dire che è nel vero un giudizio su cui non solo concorda la comune dei critici, ma concordano perfino i critici più estrosi, insofferenti di luoghi comuni, e, per di più, insofferenti l’uno dell’altro? La cui voce si leva sul bordone degli altri con suon di cennamella non diver ­so, talora, da quello udito da Dante in Malebolge. Ecco Cesare Brandi intonare un tale concerto al Ca ­nova, nel suo Periplo della scultura moderna (in “L’Immagine”, gennaio-febbraio 1949):  

Egli fu il primo e coscienzioso burocrate dell’arte […]. La sua scultura resta il più nobile, il più coscien ­zioso, il più genuino e illusivo dei surrogati […]. Chi incappi nel suo Perseo è colto da raccapriccio nel con ­statare come si possa osservare la lettera e frodare lo spirito […]. Il Perseo inguainato nella sua levigatezza alla pomice come in una maglia di seta da acrobata, è d’una nudità trita e invereconda; un nudo in un quadro vivente. E non che sia vivo o vero: non c’è nulla di più congelato e decaduto dai sensi […]. Se la Gorgone che brandisce l’avesse fatto diventare di sas ­so, mai sasso sarebbe più sasso di questo […]. Come statua non è né sasso né carne. È una fabulazione a freddo, una ambizione sbagliata e uno sbaglio ambi ­zioso […] una collezione di formalismi distribuiti come una parure di gioielli […]. Sta in piedi in ossequio alla legge di gravita, ma è un crollo plastico. Questo, di esser freddo e stentoreo, è il segreto del Canova […]. L’Ercole e Lica è una mostruosità inarrivabile: come il mammuth ritrovato nel blocco di ghiaccio, è la scul ­tura barocca, il torso del Belvedere, il Toro Farnese, messi in ghiacciaia, anchilosati dai reumi, fossilizzati come l’antracite. La forma, in Canova, diventa rituale. Così il gesto che nel rito ha perso la coscienza di sé, di quel che significa, dell’azione che abbreviò o sim ­boleggia […]. Se poi minaccia di diventare espressivo, allora è quasi peggio. La sua mimica è atroce: non ricrea, imita […]. Il sorriso dell’Ebe, quel sorriso che ti cerca ma gela quanto il contatto con un morto, è imposto al marmo come una contrazione della materia e trattenuto come l’insetto affogato nell’ambra […]. La scultura del Canova traduce il marmo in cemento; è opaca, non va oltre la superficie.  

Giudizio sommario, la cui avventatezza è palese a chi oggi consideri davvicino proprio quell’Ercole e Lica “di una mostruosità inarrivabile”, che il recente restauro di Pico Cellini ha restituito al primitivo splen ­dore. L’artista, con suprema abilità, ha tratto partito dai “peli” del blocco di marmo, riservandone la parte maculata al corpo di Lica che ne risulta come co ­sparso di lividi. Si potrà tutt’al più dire che qui il Canova traduce il marmo in biscuit e che la statua è un cammeo di dimensioni eroiche.
In forma più sobria, è della stessa opinione del Brandi Kenneth Clark, che nel suo volume su The Nude (1956) parla del “classicismo manierato di Ca ­nova, da cui una esecuzione meccanica aveva allon ­tanato gli ultimi tremori dell’eccitazione”, e da que ­sto giudizio: “Canova, brillante ritrattista e maestro di chic contemporaneo, poteva produrre figure ideali ridicole come il Perseo del Vaticano, in cui una ver ­sione da figurino di mode dell’Apollo del Belvedere tiene quanto più discosto può da sé col braccio teso una caricatura della Medusa Rondanini. Apollo, con tutto ciò che gli uomini avevano associato al suo no ­me, aveva perduto il suo posto nella umana fantasia, e rimaneva solo la spoglia di Apollo a provvedere una disciplina senza senso nelle accademie artistiche”.
Ed ecco infine l’epitaffio dettato da Roberto Longhi nell’aprile del 1946, in occasione della mostra ”Cinque secoli di pittura veneziana” a proposito delle opere di Canova da lui chiamate “svarioni cimite ­riali”:

Antonio Canova, lo scultore nato morto, il cui cuore è ai Frari, la cui mano è all’Accademia e il resto non so dove.  

Se le sculture di Canova fossero di burro, come quel primo leone che, secondo una leggenda apocrifa, egli avrebbe fatto da ragazzo per la mensa del sena ­tore Falier, non v’è dubbio che fonderebbero di colpo al calore di accoglienze come quelle fatte loro dal Longhi, dal Brandi, dal Clark.
Tra i critici d’arte moderni, mi pare che la più saggia parola sia stata detta da Matteo Marangoni in Saper vedere:

II Bronzino ha dissanguato e raggelato la carnalità cinquecentesca, come il Canova la scultura antica. È anche questo, un fine, un modo â— sia pure pericoloso â— di giungere per altre vie all’arte, come in alcuni ri ­tratti, appunto, vi giunge lo stesso Bronzino.  

“Un modo pericoloso di giungere per altre vie al ­l’arte”: ecco una definizione ampia abbastanza da permettere l’accesso al Paradiso anche a un Bronzino, nonostante le “sue figure di biscuit, di gelidità smaltea” (come dice il Marangoni), anche a un Canova, nonostante i suoi “svarioni cimiteriali”. Non vi è una sola via per giungere all’arte; la poetica di un Pope è diversa da quella di uno Shakespeare da un lato e da quella di uno Shelley dall’altro. Non può essere che pel Canova si sia ripetuto l’errore dei romantici, che paragonavano a un cavallo a dondolo, a un campano di pecore, al canto del cuculo, al monotono su e giù dell’altalena, quel heroic couplet, quel distico eroico del Pope, di cui il loro orecchio era incapace di ap ­prezzare le infinite sfumature, essendosi avvezzato a una prosodia che, cercando seguire l’onda emotiva, non poteva evitare sovente di riuscir negletta?
Vedete per esempio, nel caso della Paolina Borghese, come si esprime Antonio Baldini nel delizioso capriccio che s’intitola Paolina fatti in là, che Mar ­ziano Bernardi ha opportunamente citato in un arti ­colo commemorativo del Canova (“Lo Smeraldo”, 30 luglio 1957). Laddove il Brandi riusciva a stento a sentire una linfa benigna sotto il levigato pack di quel marmo, Baldini sente il marmo rispondere come carne vera, sente essere altro il gelo della spalla e altro dove la vita piega, altro il freddo della fronte, altro delle guance, e quando senza risposta le ha chiesto un bacio sente anche il freddo particolarissimo di quel superbo nasino. Fantasia di letterato, di cui gli storici dell’arte posson sorridere. Ma badate, Baldini si trova in buona compagnia. Gustave Flaubert, viaggiando in Italia, vede il gruppo d‘Amore e Psiche alla Villa Carlotta, quel gruppo che faceva pensare un critico contemporaneo, il Fernow, alle pale d’un mulino, e che a me ricorda le eleganze acrobatiche del Fasolato. Flaubert rimase incantato:

Je n’ai rien regardé du reste de la galerie; j’y suis revenu à plusieurs reprises et à la dernière j’ai embrassé sous l’aisselle la femme pí¢mée qui tend vers l’Amour ses deux longs bras de marbre. Et le pied! Et la tíªte! Le profil! Qu’on me le pardonne, í§’a etè depuis longtemps mon seul baiser sensuel; il était quelque chose de plus encore, j’embrassais la beauté elle-míªme. C’était au génie que je vouais mon ardent enthousiasme.[1]  

Queste reazioni posson produrre in un letterato quelle sculture che il Brandi chiama “fossili e repul ­sive”, il cui contatto egli paragona a quello d’un mor ­to. E dal momento che Kenneth Clark, nel libro citato, refuta l’opinione del filosofo scozzese Alexander, che “se il nudo è trattato in modo da risvegliare nello spettatore idee o desideri appropriati al soggetto ma ­teriale, è falsa arte e cattiva morale”, e sostiene anzi che “nessun nudo, per quanto astratto, dovrebbe man ­care di risvegliare nello spettatore qualche vestigio di sentimento erotico, sia pure la più debole ombra, e che se così non fa è cattiva arte e falsa morale”, eccoci dinanzi al curioso caso di reazioni in qualche modo erotiche provocate da nudi ritenuti gelidi e repulsivi dai critici, e, almeno nell’intenzione, ritenuti casti dal ­lo stesso Canova le cui parole son così riportate dal Missirini: “La nudità, quando sia pura e di squisita bellezza adorna, ci tolga alle perturbazioni mortali e ci trasporti a que’ primi tempi della beata innocenza: e di più che ella ci venga come una cosa spirituale ed intelletta, e ci innalzi l’animo alle contemplazioni del ­le cose divine, le quali non potendo ai sensi esser ma ­nifeste per la loro spiritualità, solo per una eccellenza di forme ci possono essere indicate ed incenderci della loro eterna bellezza e distaccarci dalle imperfette ca ­duche cose terrestri…”.
Di chi è qui l’illusione, di Canova, dei critici, o dei letterati come il Flaubert e il Baldini? Il caso è quasi pirandelliano, ma forse trova la sua soluzione in una idiosincrasia del temperamento di Canova, nel suo atteggiamento verso la donna e l’esperienza amorosa. È molto probabile che Aldo De Rinaldis fosse nel vero quando definiva Canova “un sensuale affinato e sen ­za foga”. Lo Zeitler, nel suo capitolo Notizien über Canovas Verhältnis zu Frauen, accenna alla castità dell’artista e alla sua mancanza di foga che secondo alcuni (ma, aggiunge, non può trattarsi che d’impres ­sioni soggettive) trapelerebbe dalle sue figure femmi ­nili. Certo quel che il Cicognara scrisse dell’amico, che “il cuore si serbò immacolato da bassi affetti, né v’ebbero ricetto che i sentimenti più nobili e più ele ­vati”, se le cose stessero veramente così, renderebbe conto della gelidità che i più trovano in quelle sculture. Nihil est in intellectu quod non prius fuerit in sensu. Elena Bassi ha giustamente osservato che la psicologia di Canova era ” complessa sotto un’apparenza di gran ­de semplicità”, e quanto a vita erotica è noto che non ne furono esenti neanche quei “canori elefanti” di cui parlava il Parini. Il Canova ardeva per Juliette Réca-mier, colei sui cui rapporti con l’anziano Chateau ­briand fu scritto quel maligno epigramma che si con ­clude:

Il n’avait pas voulu que l’une pût donner
Ce que l’autre ne pouvait prendre.[2]  

Parrebbe come se la sensualità casta di Juliette fosse l’esatto riscontro della casta sensualità di Anto ­nio Canova. Osserva lo Zeitler: “Canova ha spesse volte rappresentato gruppi d’innamorati. Questi gio ­vani e giovinette, uomini e donne non afferrano mai con foga l’uno il corpo dell’altro. Questi amanti con ­versano tra loro di qualcosa, scherzano con una ghir ­landa o con una farfalla, sentono all’unisono, ma non si desiderano reciprocamente. Ben diverso è l’aspetto degli amori degli dei nel barocco, e nel corso dell’Ot ­tocento i rapporti dei sessi nell’arte saranno rappre ­sentati in modo diverso da quello di Canova. Ma non perciò deve considerarsi anormale o artisticamente meno efficace la concezione di Canova”. In altre pa ­role, l’erotismo canoviano è preliminare e contempla ­tivo, un erotismo adolescente. Esasperato, darà i nudi di Ingres, che talora fan pensare a quelli di Canova (così la Bagnante vista di schiena del Museo Bonnat presenta la stessa immagine della Venere italica di Canova, di poco posteriore), e sul libertinage sérieux et plein de conviction di Ingres si vedano le parole di quel fine intenditore di tali stati d’animo che fu Bau-delaire: “M. Ingres n’est jamais si heureux ni si puissant que lorsque son génie se trouve aux prises avec les appas d’une jeune beauté. Les muscles, les plis de la chair, les ombres des fossettes, les ondulations montueuses de la peau, rien n’y manque”.[3] Parole che po ­trebbero ripetersi per la Paolina di Canova. Infine dello stesso Ingres scrisse il Blanche: “II fut un émotif voluptueux” (Fu un emotivo voluttuoso). La nostra divagazione letteraria ci porterebbe a considerare sot ­to questo rapporto anche il tipo femminile amato da Poe, della cui moglie adolescente Virginia Clemm scrisse un testimone contemporaneo: “Her face could defy the genius of a Canova to imitate” (II suo volto sfiderebbe il genio di un Canova ad imitarlo). E ri ­cordiamo i ben noti versi To Helen:  

Thy hyacinth hair, thy classic face,
Thy Naiad airs brought me home
To the glory that was Greece
And the grandeur that was Rome.4  

Ingres, Poe, Baudelaire, non tanto il primo, ma gli altri due nomi parranno una strana compagnia per Canova. Ma il punto che vorrei fare è questo: che per quel genere di sensualità affinata e senza foga, di emotività voluttuosa, e di erotismo represso, tratto che tutti quegli artisti sembrano avere in comune, la di ­sciplina neoclassica poteva offrirsi non come una coar ­tazione, ma anzi come un veicolo d’espressione quan ­to mai appropriato e felice. E che un Canova o un Ingres vi si assoggettassero contraggenio, e vi perdes ­sero la loro ispirazione genuina, soltanto la superfi ­cialità del luogo comune corrente potrebbe sostenere. A me par codesto un giudizio non meno avventato di chi volesse persuaderci che Petrarca distrusse la sua originalità adottando il sonetto, la canzone e la sestina come sue forme espressive.
Se si vuoi cogliere il clima poetico espresso dalle Veneri, dalle Grazie, dalle Psichi e dagli Amori di Canova (e quando dico clima poetico, va da sé che lo considero pienamente realizzato in forma plastica), si rileggano certi versi dell’Ode su un’urna greca e dell’Ode a Psiche del Keats, un altro poeta dalla sen ­sualità affinata e inesperta. Sui fianchi dell’urna gre ­ca è rappresentato un innamorato fisso per sempre nell’atto di approssimarsi al bacio:

Bold Lover, never, never canst thou kiss,
Though winning near the goal – yet, do not grieve;
She cannot fade, though thou hast not thy bliss,
For ever wilt thou love, and she be fair!
[…]
More happy love! more happy, happy love!
For ever warm and stili to be enjoy’d,
For ever panting and far ever young;
All breathing human passion far above,
That leaves a heart high-sorrowful and cloy’d,
A burning forehead, and a parching tongue[5].

Nell’Ode a Psiche il poeta immagina di sorpren ­dere Amore e Psiche adagiati accanto in un bosco:

They lay calm-breathing on the bedded grass;
Their arms embraced, and their pinions too;
Their lips touch’d not, but had not bade adieu,
As if disjoined by soft-handed slumber.[6]  

Dove mai la sensualità contemplativa è stata me ­glio espressa che in questi versi del Keats, nelle odalische di Ingres, nelle Veneri di Canova? Che poi il Baudelaire a proposito di Ingres adoperi il termine “libertinaggio”, e che Wordsworth, alla vista del gruppo di Amore e Psiche di Canova, esclamasse ri-traendosi scandalizzato: “Demoni!” â— sono omaggi che la divinazione poetica e etica rispettivamente ren ­dono alla complessità di quegli artisti.
Scrivendo di Parma in Winters of Content nel 1932 Osbert Sitwell dice il Canova “at present the most underrated of ali sculptors” (oggi il più sottova ­lutato di tutti gli scultori). “Anche oggi, tuttavia”, prosegue, “quand’egli è così ingiustamente trascurato, il suo nome cade nell’aria con quell’autorevole ‘suono genuino’ di moneta buona, di cui il nostro subconscio investe i nomi di tutti i grandi artisti. Ma fortunata ­mente non è difficile trovare per lui nel campo della pittura un’analogia che serve a provare il suo genio: Ingres”. E dopo aver fatto un paragone tra i due, os ­serva come Ingres ebbe la fortuna d’integrarsi in una tradizione francese che da Manet a Picasso l’ha sem ­pre ammirato, mentre Canova non lasciò dietro di sé in Italia discendenti tali da celebrarlo e difenderlo adeguatamente, poiché dopo di lui, come osservava anche il Longhi con un’affermazione un po’ troppo categorica, ma sostanzialmente vera, “per più d’un secolo l’arte italiana è finita”. E conclude il Sitwell:

In verità l’albero di cui egli è l’ultimo fiore per ­fetto non potrà fiorire di nuovo finché non abbia ripo ­sato per molti secoli. Sicché, in un certo senso, cia ­scuna delle magnifiche tombe da lui scolpite fu un mausoleo delle sue proprie speranze e degli ideali che egli rappresentò con tanta bellezza. Ciò nonostante verrà giorno in cui il mondo udrà d’una Società Canoviana, di onoranze solenni, di discorsi e di monu ­menti.

1 Non ho guardato nulla del resto della galleria; ci sono ritornato in diverse ri ­prese, e l’ultima ho baciato sotto l’ascella la donna in deliquio che tende verso l’Amore le lunghe braccia di marmo. E il piede! E la testa! Il profilo! Mi si perdoni, è stato,   da molto tempo,   il mio solo bacio sensuale;   era qualche cosa di più ancora, baciavo la bellezza stessa.   Era al genio che dedicavo il mio ardente entusiasmo.
2 Non aveva voluto che l’una potesse dare / ciò che l’altro non poteva prendere.
3 Ingres non è mai così felice e potente come quando il suo genio si trova alle prese con le attrattive di una giovane bellezza. I muscoli, le pieghe della carne, le ombreggiature delle fossette, i rilievi ondulati della pelle: non manca nulla.
4 La tua chioma di giacinto, il tuo classico volto / le tue arie di Naiade mi
hanno ricondotto / alla luce che fu la Grecia / alla grandezza che fu Roma.
5 Né mai le labbra unir potrai con ella,   / Ben che presso alla meta,   audace Drudo â— / Ma non ti dolga; che, se pur non godi, / Tu per sempre amerai la sempre bella. /   [. . .]   E più felice, più felice amore! / Sempre ardente ed ancor da esser colto,   / Sempre bramoso e sempre giovinetto,   / Lungi da passion d’umano petto / Che lascia addolorato e sazio il cuore, / Arsa la lingua ed affocato il volto.
6 Giacevano essi con calmo respiro sul giaciglio d’erba; / si abbracciavano le lo ­ro braccia e le loro ali; / non si toccavano le labbra, ma non s’eran dette addio, / quasi che fossero state staccate dalla lene mano del sonno.


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart