PITTURA: I MAESTRI: Carpaccio: Più fantastico di una favola18 Novembre 2009 di Manlio Cancogni  Questo artista di cui si è detto ch’era un pittore di genere, un narratore, un contafavole, un fantastico, e, passando all’esame critico delle origini, un ferra Ârese, un fiammingo, un allievo del Mantegna, di Antonello, di Giovanni Bellini, di Piero della Francesca, un ‘caso difficile’ insomma, mi pare che debba essere visto innanzi tutto come un ‘caso’ d’estrema sempli Âcità . Con ciò non si vuole dire che il Carpaccio sia un naïf, un’anima candida e sprovveduta, una specie di doganiere Rousseau dei suoi tempi. A parte il fatto che io non credo al naïf, e ancora meno alla naïveté del Doganiere, si sa anche troppo bene che il Carpac Âcio era tutt’altro che un ignorante. Aveva visto molto e la sua pittura è piena di riferimenti letterari. Dunque la naïveté è fuori questione. La sempli Âcità di cui si parla a proposito del Carpaccio è la capacità di seguire fedelmente la propria natura, utilizzando nel modo più conveniente il materiale for Ânito dalla propria esperienza, senza altri problemi. E la natura del Carpaccio consisteva soprattutto in un’estrema attenzione alla realtà , in una curiosità lu Âcida per ciò che è visibile, che non ha riscontro nella pittura del suo tempo. Un contafavole? Un artista di illimitata fantasia? Non riesco proprio a vedere dove sia questa grande vena inventiva, a meno che non si voglia far passare per invenzione fantastica l’arte di mettere un’infinità di cose dentro lo spazio limitato di una tela. Si guardi, ad esempio, L’arrivo degli ambasciatori inglesi presso il re di Bretagna, che apre il ciclo della Scuola di Sant’Orsola. Dov’è la favola? Il Carpaccio rappresenta so Âlo ciò di cui ha un’esperienza quotidiana, diretta. Le architetture sono quelle della sua città , da cui è pro Âbabile (per quanto si faccian mille congetture anche su questo) si sia staccato di rado ; veneziani sono i personaggi, uomini e donne, sia quelli illustri in primo piano che quelli di sfondo; veneziana la luce, assor Âbita a ogni ora, durante i suoi vagabondaggi lagunari, che avvolge il racconto. Ha ragione Cesare Brandi quando afferma che la “inesauribile fantasia di Vit Âtore Carpaccio non era che un’illusione”. Delle sue origine e della sua vita si sa poco. Non si conoscono nemmeno con esattezza le date di na Âscita e di morte. Era figlio di un tal Pietro Scarpazza. aveva moglie, probabilmente un figlio. I modesti dati biografici sono sommersi dall’importanza dell’epoca in cui viveva, una di quelle epoche che sollecitano in maniera particolare gli interessi degli studiosi ; perché sono epoche di passaggio, in cui una fase di vita cul Âturale si chiude, e un’altra, più ricca, si apre. Il Car Âpaccio dipinse nel momento in cui nella pittura vene Âziana del Quattrocento si stava operando la grande. profonda rivoluzione che l’avrebbe portata alla matu Ârità del Cinquecento, nel momento in cui entravano nel campo, finora dominato dalle personalità dei Bel Âlini e dei Vivarini, nuove figure d’artisti con altri interessi e più alte ambizioni. Eccolo dunque questo Vittore Carpaccio, o Scar Âpazza, giovane sui venticinque anni, affacciarsi sulla scena della pittura lagunare insieme ad altri suoi coe Âtanei, come Bartolomeo Montagna, Cima da Conegliano, Benedetto Diana. Da dove aveva preso le mosse la sua arte? chi erano i suoi maestri? La ri Âsposta più giusta credo che sia: tutti e nessuno. Lionello Venturi l’ha dichiarato esplicitamente: “II Car Âpaccio non ebbe un vero maestro come non ebbe veri scolari”. Si possono fare tanti nomi, anzi tutti i nomi dei maestri che operarono nella seconda metà del secolo: i Bellini, Antonello da Messina, i fiamminghi, i ferraresi, e perché no, Piero della Francesca. Questo conferma ciò che risulta a prima vista guardando le sue tele: il Carpaccio era una natura eminentemente ricettiva, curiosa, un raccoglitore a cui niente sfuggiva nell’ordine visivo. Il suo occhio doveva scattare con la rapidità di una macchina da presa. Sempre a proposito della sua “esuberante fanta Âsia”, si discute molto sulla conoscenza che avrebbe avuto dell’Oriente. Esso appare in moltissimi dipinti sotto forma di città , figure, animali, piante, abiti, og-getti. Forse, si dice, il Carpaccio accompagnò Gentile Bellini nel suo viaggio alla corte di Maometto II; forse ebbe modo di recarsi più tardi in Terrasanta. Non ci sono prove né dell’uno né dell’altro viaggio. La cosa più probabile è che il Carpaccio non si sia mai mosso da Venezia. Che bisogno aveva di andare in cerca dell’Oriente per descriverlo? Lo aveva a ogni ora sotto gli occhi. In una città come Venezia, con di scambi che aveva con i mercati della Siria, della Palestina e dell’Asia Minore, l’Oriente lo si incontrava a ogni angolo. E quei simboli, turbanti, broccati, pie Âtre preziose, animali strani, bastavano a soddisfare un uomo casalingo (perché certamente lo era, quel poco che sappiamo di lui lo prova) come il Carpaccio. Dunque un uomo d’indole solitaria, però a suo modo informato, con una visione personale della real Âtà , innamorato degli oggetti, dello spettacolo quoti Âdiano della vita, e poco a parte delle vicende pub Âbliche, sia politiche che artistiche, della sua città . E così si spiegherebbe fra l’altro la sua ‘involuzione’ (sottolineata da quasi tutti i critici) sopraggiunta quando era ancora un uomo nel pieno delle forze creative. La pittura veneziana s’apriva alla nuova grande av Âventura profana della luce e del colore, libera dagli schemi architettonici e religiosi del Quattrocento, e lui continuava a dipingere nella vecchia cornice, e, salvo qualche eccezione (come le cosiddette Corti Âgiane del Museo Correr), a ripetere le vecchie storie di Madonne e di santi come se niente fosse accaduto e quelle storie bastassero al suo bisogno di descrivere. C’è in proposito una lettera ch’egli mandò nel 1511 al marchese Francesco Gonzaga in merito a una sua tela con la veduta di Gerusalemme, che non sembra certo scritta da un maestro; anzi, nemmeno da un uomo cui fosse riconosciuto nella società un posto di rilievo. Era successo che un giorno, mentre dipingeva quella tela, fosse venuto a trovarlo un tale che gli aveva proposto di vendergliela. Concluso il mercato, quello era partito e non s’era fatto più ve Âdere. Il Carpaccio non conosceva il suo nome, né quelli dei suoi accompagnatori. Ricordava solo che uno di questi era un prete con una barba nera che altre volte aveva visto in compagnia del marchese. Scriveva per Âciò al marchese per chiedergli spiegazioni su quel fatto e per ricordargli che “io son quello pictor della nostra illustrissima signoria condutto per depingere in la salla grande dove la signoria vostra se dignò ascendere sopra il sollaro ad vedere la opera nostra che era la historia de Ancona. Et il nome mio è dicto Victor Carpatio …”. La lettera insomma di un uomo modesto che per far valere i suoi diritti ha bisogno di pregare, di raccomandarsi. Un uomo, si direbbe, oggi, fuori del giro: fuori del giro dell’arte, come da quello degli affari pub Âblici. Ma che continuava a lavorare, su commissione, con la stessa scrupolosità di quando era considerato uno dei giovani ‘di punta’ che miravano in alto, mol Âto in alto. Per un artista come il Carpaccio dunque la cosa migliore è di non sforzarsi affatto di collocarlo nel suo tempo, di inserirlo a ogni costo nella storia. I. non stiamo a chiederci come mai a un dato momento sia cominciata per lui l’involuzione. È probabile in Âfatti che quel posto ‘d’avanguardia’ gli sia attribuito oggi a posteriori, ma che lui non ne abbia mai avuto consapevolezza. Era un pittore, un artigiano, non un filosofo. Cerchiamo di identificarci con lui, non faccia Âmo il contrario. A chiunque è capitato, almeno una volta, di andare a spasso per una strada già vista, d’aggirasi per un quartiere già conosciuto, e di osservarlo, sco Âprirlo nei suoi particolari come se fosse la prima volta che lo percorre, ingressi, botteghe, vetrine, insegne. finestre, cornicioni, grondaie, godendoselo pezzetto per pezzetto, abbandonato al puro piacere dello sguar Âdo. Ebbene, io penso che questa sia la via più giusta per capire la pittura del Carpaccio. I suoi quadri non chiedono di più di quanto la realtà non chiedesse a lui: lasciarsi vedere, lasciarsi scoprire, senza che nulla ne resti fuori. Un quadro esemplare in questo senso, che può farci da guida per tutti gli altri, credo che sia il Mi Âracolo della reliquia della Croce, all’Accademia di Venezia, che in genere i visitatori trascurano per la sua vicinanza a quelli assai più famosi che raccontano la leggenda di sant’Orsola. È davvero un miracolo. Perché non appena si comincia a guardare, attratti da quel brulichio di vita che s’incunea, con le acque verdi del canale, fra le strane architetture delle case. si resta come assorbiti, risucchiati dalla visione, e l’ul Âtima cosa che ci si domanda è il significato di essa. Una voce, è vero, ci ricorda che l’episodio che da il nome al quadro è narrato nella loggia in alto a sinistra, in cui il patriarca di Grado, Francesco Querini, ottiene di risanare un indemoniato per mezzo della reliquia della Croce. Ma chi l’ascolta? È solo l’occhio che vive. E l’occhio, lo stesso meraviglioso occhio del Âl’artista, ci tira dentro il quadro. Si dimenticano le figure in primo piano, a sinistra, collocate, in maniera piuttosto statica, davanti e sotto il loggiato, e ci si trova a bordo delle prime due gondole che sembrano aver evitato per un pelo una collisione. Le gondole, le pri Âme due e le altre che oscillano fin sotto il ponte e oltre, sono nere. Ha qualche cosa di magico questo nero, così vivo, così umido d’acqua marina. Ma anche qui il Carpaccio non inventava nulla, vedeva soltanto. Le gondole nel quindicesimo secolo, come oggi del resto, avevano quel colore. Mi vien fatto di ricordare un episodio che appar Âtiene all’aneddotica della pittura contemporanea. Due critici osservavano, presente il pittore, un quadro di Utrillo, fermando l’attenzione su una certa macchia che interrompeva in basso il bianco di un muro, e notando come il pennello l’avesse collocata nel punto giusto per bilanciare un’altra macchia di colore che appariva più lontano. E Utrillo che ascoltava, incre Âdulo, a un certo momento intervenne dicendo: “È proprio lì che il cane aveva alzato la zampa”. Ma lasciamoci portare dall’occhio: passiamo fra il gondoliere negro con la piuma in testa bilanciato sulla gondola di sinistra (con la punta del piede ripie Âgato stringe il bordo dell’imbarcazione) e il cagnolino bianco arruffato che il giovin signore dal mantello rosso della gondola di destra lascia incurantemente a prua, e avviciniamoci alle due gondole che ci vengono incontro occupando il centro dello specchio d’acqua, e alle altre due che seguono, spostate un poco sulla destra. Hanno l’aria d’essere sul punto di scontrarsi, e queste rotte che s’intersecano, si spezzano, a seconda dei colpi di remo del gondoliere, sembrano calcolate per accrescere l’impressione di movimento, di dondo Âlio che ha tutto il canale ; e allora si può parlare di ritmo, di contrappunto, di musica… anche se il Car Âpaccio ti dice: ” Guarda che è proprio così: se osservi il canale in un’ora di movimento, le gondole si presen Âtano proprio in questo modo, su queste linee che si tagliano, si spezzano, oscillano”. Giù, giù, sotto il pon Âte di legno (non è un’invenzione nemmeno quella, Rialto a quel tempo non era ancora in muratura), il gioco delle imbarcazioni si ripete, senza stancare, come accade quando ci si abbandona al movimento del Âl’acqua, sia del mare, di un fiume, di un canale, che potrebbe durare all’infinito e ci vuota la mente. E poi c’è la riva sinistra del canale, così gremita di vita che sembra di udire le voci dei veneziani che vi passeggiano e di sentire gli odori che escono dalle finestre e dalle porte. C’è appunto l’albergo Storione che avanza la sua insegna, un bel pesce in campo rosso dentro una ghirlanda appesa a un trave infisso nel muro  all’altezza del secondo piano,  dove probabil Âmente le cucine sono già al lavoro data l’ora che volge al tramonto. Due giovanotti, uno sta appoggiato allo spigolo della casa, si fanno delle confidenze. Quelli che ascolta ha l’aria di interessarsi a qualche cosa ch’ Âaccade sulla sua sinistra e che noi purtroppo non ve Âdiamo. Nel mezzo della riva passa un uomo con un barile in spalla. Un altro, proprio sul bordo, armeggia intorno a non si sa bene che cosa. L’occhio vede, re Âgistra movimenti, forme, non spiega le relazioni e i! perché di quelle forme. Tutte le persone che passeg Âgiano o sostano sulla riva hanno l’aria di godersi la loro esistenza senza occuparsi per nulla del grand’ avvenimento, pubblico, storico, che avviene al piano di sopra e che ha fornito all’artista il pretesto per la sua meravigliosa escursione sul canale. E poi gli occhi si alzano e scoprono altre meraviglie, le finestre. i davanzali, le mensole, i vasi di fiori, le insegne, le grate, le altane, e su su i comignoli simili a una vege Âtazione fantastica, e le serve, sul tetto della casa signo Ârile a destra, che battono i tappeti, un tappeto rosso. due verdi, che fanno da contrappunto al verde del canale, ma che il Carpaccio ha dipinto così, ci giurerei, perché erano proprio verdi e non di un altro colore. Io credo che non ci sia altro modo per guardare il Carpaccio che considerarlo un uomo così stupefatto dall’enorme ricchezza di vita figurativa che la realtà ci offre a ogni istante da non desiderare altro che rap Âpresentarla, riprodurla, fissarla per sempre nella me Âmoria, strappandola all’azione distruttiva del tempo E l’incanto, la poesia, della sua pittura, nascono pro Âprio da questo sentimento struggente della realtà eh’ si vuole fissare e che passa. Così l’occhio acquista una funzione quasi metafisica. Lo strumento che registra, fissa, immobilizza in uno spazio ideale le care appa Ârenze della realtà . Misurati a questa ambizione, a qui sto sentimento, che cosa potevano rappresentare per lui gli altri problemi che i posteri attribuiscono ai suo: contemporanei, ai giovani maestri che preparava!!’ l’avvento del secolo più glorioso nella storia della pit Âtura veneziana? Il Carpaccio non era un inventore; non era di quelle personalità che aprono un’epoca. che s’identificano con un movimento di pensiero, che in Âcarnano un valore universale. Era semplicemente Vit Âtore Carpaccio. Un uomo strettamente legato alla sua esperienza particolare, alle sue predilezioni,  ai suo: sogni. E come tale, proprio perché non si era mai pre Âoccupato d’essere di più,  assolutamente originale e inconfondibile. Letto 3404 volte. | ![]() | ||||||||||
Commento by Carlo Capone — 18 Novembre 2009 @ 21:15
Carpaccio  è un autore trascurato  ma   questo pregevole articolo ce lo ripropone sotto una luce diversa.  Sono andato a gustarmi la galleria delle sue opere  maggiori  e ho  visto  una pittura dai molteplici influssi. Si rinvengono le geometrie di Piero della Francesca e  gli angeli del Beato Angelico, per  citare i più salienti,   e però,  dopo  questa impressione  e grazie  allo sguardo  di Manlio Cancogni,    restiamo stupiti dalla dovizia di particolari,  da quelle  strade di Venezia    immagine di una città straripante,vivida,  dove la gente   si accalca tra sfarzosi palazzi  ma anche lungo caseggiati non consegnati alla Storia.   Un cronachista suo malgrado, dunque,  magari   legato a canoni superati  dall’Umanesimo  – la Venere di Botticelli è coeva, per dire-  ma attento testimone di ciò che ha visto.  Â
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 18 Novembre 2009 @ 21:26
E’ bello, Carlo, trovare questi bravi scrittori, come Cancogni e gli altri che ho già pubblicato, che scrivono sui grandi pittori.
Vedo che sei anche un intenditore d’arte. Del resto l’icona del tuo sito è un quadro di Artemisia Gentileschi.
Commento by Carlo Capone — 19 Novembre 2009 @ 12:16
Bart, l’arte mi  è sempre stata nel cuore, in virtù  del percorso di studi effettuato e grazie alla passione  infusami dal docente di Storia dell’Arte al Liceo  Pontano di Napoli,  Padre Francesco Salvato SJ.  Che qui mi piace ricordare.
Un suo derivato, diciamo così, è l’antiquariato.  A Pasqua, ad esempio,  ho acquistato nel negozio   di  un amico di Napoli (  barone e convinto borbonico) due vasi Luigi Filippo (di scuola Capodimonte e certificati 1830)  recanti   scene di pastori e villanelle   su sfondo in oro zecchino.
In genere, dovunque mi trovi, se scorgo un mercato  antiquario  ci passo le ore.  E ancora rimpiango i due putti in oro zecchino che  scovai  in quello di Lucca. Era la mattina   dell’incontro  a casa tua :-) Â
Ti do un suggerimento per gli articoli  sugli  artisti  . Secondo me il testo andrebbe assecondato e corredato con  immagini di alcune opere salienti    dell’artista  o del moviemnto    in questione.
Quando pubblicai le due noterelle su Caravaggio io lo feci (era Il ragazzo morso dal ramarro) . La resa mi  parve  eccellente. Â
Saluti
Carlo
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 19 Novembre 2009 @ 12:31
La mancata pubblicazione delle immagini negli articoli è legata al fatto che esse, quando poi diventano numerose, appesantiscono il sito. Ho visto certi siti, che proprio per la dovizia di immagini si aprono lentamente.
Le immagini le ho riservate alle Gallerie degli artisti.
Per ora sono convinto che sia una scelta giusta. Per poter mettere le immagini occorrerebbe una potenza adsl ragguardevole. Io credo di marciare già a 7MB.
Poi c’è anche un fattore tempo. Se gli articoli sull’arte non sono già dotati di foto, dovrei andarle a cercare personalmente, e, per la verità , me ne manca il tempo.
Credo che il lettore, una volta resosi conto delle qualità dell’artista presentato, possa fare le sue richerche sul web direttamente.
Grazie, comunque, del suggerimento, ma tieni conto anche delle mie forze limitate :-)