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PITTURA: I MAESTRI: Carpaccio: Più fantastico di una favola

18 Novembre 2009

di Manlio Cancogni  
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1967]  

Questo artista di cui si è detto ch’era un pittore di genere, un narratore, un contafavole, un fantastico, e, passando all’esame critico delle origini, un ferra ­rese, un fiammingo, un allievo del Mantegna, di Antonello, di Giovanni Bellini, di Piero della Francesca, un ‘caso difficile’ insomma, mi pare che debba essere visto innanzi tutto come un ‘caso’ d’estrema sempli ­cità. Con ciò non si vuole dire che il Carpaccio sia un naïf, un’anima candida e sprovveduta, una specie di doganiere Rousseau dei suoi tempi. A parte il fatto che io non credo al naïf, e ancora meno alla naïveté del Doganiere, si sa anche troppo bene che il Carpac ­cio era tutt’altro che un ignorante. Aveva visto molto e la sua pittura è piena di riferimenti letterari.

Dunque la naïveté è fuori questione. La sempli ­cità di cui si parla a proposito del Carpaccio è la capacità di seguire fedelmente la propria natura, utilizzando nel modo più conveniente il materiale for ­nito dalla propria esperienza, senza altri problemi. E la natura del Carpaccio consisteva soprattutto in un’estrema attenzione alla realtà, in una curiosità lu ­cida per ciò che è visibile, che non ha riscontro nella pittura del suo tempo.

Un contafavole? Un artista di illimitata fantasia? Non riesco proprio a vedere dove sia questa grande vena inventiva, a meno che non si voglia far passare per invenzione fantastica l’arte di mettere un’infinità di cose dentro lo spazio limitato di una tela. Si guardi, ad esempio, L’arrivo degli ambasciatori inglesi presso il re di Bretagna, che apre il ciclo della Scuola di Sant’Orsola. Dov’è la favola? Il Carpaccio rappresenta so ­lo ciò di cui ha un’esperienza quotidiana, diretta. Le architetture sono quelle della sua città, da cui è pro ­babile (per quanto si faccian mille congetture anche su questo) si sia staccato di rado ; veneziani sono i personaggi, uomini e donne, sia quelli illustri in primo piano che quelli di sfondo; veneziana la luce, assor ­bita a ogni ora, durante i suoi vagabondaggi lagunari, che avvolge il racconto. Ha ragione Cesare Brandi quando afferma che la “inesauribile fantasia di Vit ­tore Carpaccio non era che un’illusione”.

Delle sue origine e della sua vita si sa poco. Non si conoscono nemmeno con esattezza le date di na ­scita e di morte. Era figlio di un tal Pietro Scarpazza. aveva moglie, probabilmente un figlio. I modesti dati biografici sono sommersi dall’importanza dell’epoca in cui viveva, una di quelle epoche che sollecitano in maniera particolare gli interessi degli studiosi ; perché sono epoche di passaggio, in cui una fase di vita cul ­turale si chiude, e un’altra, più ricca, si apre. Il Car ­paccio dipinse nel momento in cui nella pittura vene ­ziana del Quattrocento si stava operando la grande. profonda rivoluzione che l’avrebbe portata alla matu ­rità del Cinquecento, nel momento in cui entravano nel campo, finora dominato dalle personalità dei Bel ­lini e dei Vivarini, nuove figure d’artisti con altri interessi e più alte ambizioni.

Eccolo dunque questo Vittore Carpaccio, o Scar ­pazza, giovane sui venticinque anni, affacciarsi sulla scena della pittura lagunare insieme ad altri suoi coe ­tanei, come Bartolomeo Montagna, Cima da Conegliano, Benedetto Diana. Da dove aveva preso le mosse la sua arte? chi erano i suoi maestri? La ri ­sposta più giusta credo che sia: tutti e nessuno. Lionello Venturi l’ha dichiarato esplicitamente: “II Car ­paccio non ebbe un vero maestro come non ebbe veri scolari”. Si possono fare tanti nomi, anzi tutti i nomi dei maestri che operarono nella seconda metà del secolo: i Bellini, Antonello da Messina, i fiamminghi, i ferraresi, e perché no, Piero della Francesca. Questo conferma ciò che risulta a prima vista guardando le sue tele: il Carpaccio era una natura eminentemente ricettiva, curiosa, un raccoglitore a cui niente sfuggiva nell’ordine visivo. Il suo occhio doveva scattare con la rapidità di una macchina da presa.

Sempre a proposito della sua “esuberante fanta ­sia”, si discute molto sulla conoscenza che avrebbe avuto dell’Oriente. Esso appare in moltissimi dipinti sotto forma di città, figure, animali, piante, abiti, og-getti. Forse, si dice, il Carpaccio accompagnò Gentile Bellini nel suo viaggio alla corte di Maometto II; forse ebbe modo di recarsi più tardi in Terrasanta. Non ci sono prove né dell’uno né dell’altro viaggio. La cosa più probabile è che il Carpaccio non si sia mai mosso da Venezia. Che bisogno aveva di andare in cerca dell’Oriente per descriverlo? Lo aveva a ogni ora sotto gli occhi. In una città come Venezia, con di scambi che aveva con i mercati della Siria, della Palestina e dell’Asia Minore, l’Oriente lo si incontrava a ogni angolo. E quei simboli, turbanti, broccati, pie ­tre preziose, animali strani, bastavano a soddisfare un uomo casalingo (perché certamente lo era, quel poco che sappiamo di lui lo prova) come il Carpaccio.

Dunque un uomo d’indole solitaria, però a suo modo informato, con una visione personale della real ­tà, innamorato degli oggetti, dello spettacolo quoti ­diano della vita, e poco a parte delle vicende pub ­bliche, sia politiche che artistiche, della sua città. E così si spiegherebbe fra l’altro la sua ‘involuzione’ (sottolineata da quasi tutti i critici) sopraggiunta quando era ancora un uomo nel pieno delle forze creative. La pittura veneziana s’apriva alla nuova grande av ­ventura profana della luce e del colore, libera dagli schemi architettonici e religiosi del Quattrocento, e lui continuava a dipingere nella vecchia cornice, e, salvo qualche eccezione (come le cosiddette Corti ­giane del Museo Correr), a ripetere le vecchie storie di Madonne e di santi come se niente fosse accaduto e quelle storie bastassero al suo bisogno di descrivere. C’è in proposito una lettera ch’egli mandò nel 1511 al marchese Francesco Gonzaga in merito a una sua tela con la veduta di Gerusalemme, che non sembra certo scritta da un maestro; anzi, nemmeno da un uomo cui fosse riconosciuto nella società un posto di rilievo. Era successo che un giorno, mentre dipingeva quella tela, fosse venuto a trovarlo un tale che gli aveva proposto di vendergliela. Concluso il mercato, quello era partito e non s’era fatto più ve ­dere. Il Carpaccio non conosceva il suo nome, né quelli dei suoi accompagnatori. Ricordava solo che uno di questi era un prete con una barba nera che altre volte aveva visto in compagnia del marchese. Scriveva per ­ciò al marchese per chiedergli spiegazioni su quel fatto e per ricordargli che “io son quello pictor della nostra illustrissima signoria condutto per depingere in la salla grande dove la signoria vostra se dignò ascendere sopra il sollaro ad vedere la opera nostra che era la historia de Ancona. Et il nome mio è dicto Victor Carpatio …”. La lettera insomma di un uomo modesto che per far valere i suoi diritti ha bisogno di pregare, di raccomandarsi.

Un uomo, si direbbe, oggi, fuori del giro: fuori del giro dell’arte, come da quello degli affari pub ­blici. Ma che continuava a lavorare, su commissione, con la stessa scrupolosità di quando era considerato uno dei giovani ‘di punta’ che miravano in alto, mol ­to in alto.

Per un artista come il Carpaccio dunque la cosa migliore è di non sforzarsi affatto di collocarlo nel suo tempo, di inserirlo a ogni costo nella storia. I. non stiamo a chiederci come mai a un dato momento sia cominciata per lui l’involuzione. È probabile in ­fatti che quel posto ‘d’avanguardia’ gli sia attribuito oggi a posteriori, ma che lui non ne abbia mai avuto consapevolezza. Era un pittore, un artigiano, non un filosofo. Cerchiamo di identificarci con lui, non faccia ­mo il contrario.

A chiunque è capitato, almeno una volta, di andare a spasso per una strada già vista, d’aggirasi per un quartiere già conosciuto, e di osservarlo, sco ­prirlo nei suoi particolari come se fosse la prima volta che lo percorre, ingressi, botteghe, vetrine, insegne. finestre, cornicioni, grondaie, godendoselo pezzetto per pezzetto, abbandonato al puro piacere dello sguar ­do. Ebbene, io penso che questa sia la via più giusta per capire la pittura del Carpaccio. I suoi quadri non chiedono di più di quanto la realtà non chiedesse a lui: lasciarsi vedere, lasciarsi scoprire, senza che nulla ne resti fuori.

Un quadro esemplare in questo senso, che può farci da guida per tutti gli altri, credo che sia il Mi ­racolo della reliquia della Croce, all’Accademia di Venezia, che in genere i visitatori trascurano per la sua vicinanza a quelli assai più famosi che raccontano la leggenda di sant’Orsola. È davvero un miracolo. Perché non appena si comincia a guardare, attratti da quel brulichio di vita che s’incunea, con le acque verdi del canale, fra le strane architetture delle case. si resta come assorbiti, risucchiati dalla visione, e l’ul ­tima cosa che ci si domanda è il significato di essa. Una voce, è vero, ci ricorda che l’episodio che da il nome al quadro è narrato nella loggia in alto a sinistra, in cui il patriarca di Grado, Francesco Querini, ottiene di risanare un indemoniato per mezzo della reliquia della Croce. Ma chi l’ascolta? È solo l’occhio che vive. E l’occhio, lo stesso meraviglioso occhio del ­l’artista, ci tira dentro il quadro. Si dimenticano le figure in primo piano, a sinistra, collocate, in maniera piuttosto statica, davanti e sotto il loggiato, e ci si trova a bordo delle prime due gondole che sembrano aver evitato per un pelo una collisione. Le gondole, le pri ­me due e le altre che oscillano fin sotto il ponte e oltre, sono nere. Ha qualche cosa di magico questo nero, così vivo, così umido d’acqua marina. Ma anche qui il Carpaccio non inventava nulla, vedeva soltanto. Le gondole nel quindicesimo secolo, come oggi del resto, avevano quel colore.

Mi vien fatto di ricordare un episodio che appar ­tiene all’aneddotica della pittura contemporanea. Due critici osservavano, presente il pittore, un quadro di Utrillo, fermando l’attenzione su una certa macchia che interrompeva in basso il bianco di un muro, e notando come il pennello l’avesse collocata nel punto giusto per bilanciare un’altra macchia di colore che appariva più lontano. E Utrillo che ascoltava, incre ­dulo, a un certo momento intervenne dicendo: “È proprio lì che il cane aveva alzato la zampa”.

Ma lasciamoci portare dall’occhio: passiamo fra il gondoliere negro con la piuma in testa bilanciato sulla gondola di sinistra (con la punta del piede ripie ­gato stringe il bordo dell’imbarcazione) e il cagnolino bianco arruffato che il giovin signore dal mantello rosso della gondola di destra lascia incurantemente a prua, e avviciniamoci alle due gondole che ci vengono incontro occupando il centro dello specchio d’acqua, e alle altre due che seguono, spostate un poco sulla destra. Hanno l’aria d’essere sul punto di scontrarsi, e queste rotte che s’intersecano, si spezzano, a seconda dei colpi di remo del gondoliere, sembrano calcolate per accrescere l’impressione di movimento, di dondo ­lio che ha tutto il canale ; e allora si può parlare di ritmo, di contrappunto, di musica… anche se il Car ­paccio ti dice: ” Guarda che è proprio così: se osservi il canale in un’ora di movimento, le gondole si presen ­tano proprio in questo modo, su queste linee che si tagliano, si spezzano, oscillano”. Giù, giù, sotto il pon ­te di legno (non è un’invenzione nemmeno quella, Rialto a quel tempo non era ancora in muratura), il gioco delle imbarcazioni si ripete, senza stancare, come accade quando ci si abbandona al movimento del ­l’acqua, sia del mare, di un fiume, di un canale, che potrebbe durare all’infinito e ci vuota la mente.

E poi c’è la riva sinistra del canale, così gremita di vita che sembra di udire le voci dei veneziani che vi passeggiano e di sentire gli odori che escono dalle finestre e dalle porte. C’è appunto l’albergo Storione che avanza la sua insegna, un bel pesce in campo rosso dentro una ghirlanda appesa a un trave infisso nel muro   all’altezza del secondo piano,   dove probabil ­mente le cucine sono già al lavoro data l’ora che volge al tramonto. Due giovanotti, uno sta appoggiato allo spigolo della casa, si fanno delle confidenze. Quelli che ascolta ha l’aria di interessarsi a qualche cosa ch’ ­accade sulla sua sinistra e che noi purtroppo non ve ­diamo. Nel mezzo della riva passa un uomo con un barile in spalla. Un altro, proprio sul bordo, armeggia intorno a non si sa bene che cosa. L’occhio vede, re ­gistra movimenti, forme, non spiega le relazioni e i! perché di quelle forme. Tutte le persone che passeg ­giano o sostano sulla riva hanno l’aria di godersi la loro esistenza senza occuparsi per nulla del grand’ avvenimento, pubblico, storico, che avviene al piano di sopra e che ha fornito all’artista il pretesto per la sua meravigliosa escursione sul canale. E poi gli occhi si alzano e scoprono altre meraviglie, le finestre. i davanzali, le mensole, i vasi di fiori, le insegne, le grate, le altane, e su su i comignoli simili a una vege ­tazione fantastica, e le serve, sul tetto della casa signo ­rile a destra, che battono i tappeti, un tappeto rosso. due verdi, che fanno da contrappunto al verde del canale, ma che il Carpaccio ha dipinto così, ci giurerei, perché erano proprio verdi e non di un altro colore. Io credo che non ci sia altro modo per guardare il Carpaccio che considerarlo un uomo così stupefatto dall’enorme ricchezza di vita figurativa che la realtà ci offre a ogni istante da non desiderare altro che rap ­presentarla, riprodurla, fissarla per sempre nella me ­moria, strappandola all’azione distruttiva del tempo E l’incanto, la poesia, della sua pittura, nascono pro ­prio da questo sentimento struggente della realtà eh’ si vuole fissare e che passa. Così l’occhio acquista una funzione quasi metafisica. Lo strumento che registra, fissa, immobilizza in uno spazio ideale le care appa ­renze della realtà. Misurati a questa ambizione, a qui sto sentimento, che cosa potevano rappresentare per lui gli altri problemi che i posteri attribuiscono ai suo: contemporanei, ai giovani maestri che preparava!!’ l’avvento del secolo più glorioso nella storia della pit ­tura veneziana? Il Carpaccio non era un inventore; non era di quelle personalità che aprono un’epoca. che s’identificano con un movimento di pensiero, che in ­carnano un valore universale. Era semplicemente Vit ­tore Carpaccio. Un uomo strettamente legato alla sua esperienza particolare, alle sue predilezioni,   ai suo: sogni. E come tale, proprio perché non si era mai pre ­occupato d’essere di più,   assolutamente originale e inconfondibile.


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4 Comments

  1. Commento by Carlo Capone — 18 Novembre 2009 @ 21:15

    Carpaccio   è un autore trascurato  ma    questo pregevole articolo ce lo ripropone sotto una luce diversa.  Sono andato a gustarmi la galleria delle sue opere  maggiori  e ho  visto  una pittura dai molteplici influssi. Si rinvengono le geometrie di Piero della Francesca e  gli angeli del Beato Angelico, per  citare i più salienti,    e però,  dopo  questa impressione  e grazie   allo sguardo  di Manlio Cancogni,      restiamo stupiti dalla dovizia di particolari,  da quelle  strade di Venezia      immagine di una città straripante,vivida,  dove la gente    si accalca tra sfarzosi palazzi  ma anche lungo caseggiati non consegnati alla Storia.    Un cronachista suo malgrado, dunque,  magari    legato a canoni superati  dall’Umanesimo  – la Venere di Botticelli è coeva, per dire-  ma attento testimone di ciò che ha visto.    

  2. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 18 Novembre 2009 @ 21:26

    E’ bello, Carlo, trovare questi bravi scrittori, come Cancogni e gli altri che ho già pubblicato, che scrivono sui grandi pittori.

    Vedo che sei anche un intenditore d’arte. Del resto l’icona del tuo sito è un quadro di Artemisia Gentileschi.

  3. Commento by Carlo Capone — 19 Novembre 2009 @ 12:16

    Bart, l’arte mi  è sempre stata nel cuore, in virtù  del percorso di studi effettuato e grazie alla passione  infusami dal docente di Storia dell’Arte al Liceo  Pontano di Napoli,  Padre Francesco Salvato SJ.   Che qui mi piace ricordare.

    Un suo derivato, diciamo così, è l’antiquariato.  A Pasqua, ad esempio,  ho acquistato nel negozio    di  un amico di Napoli (  barone e convinto borbonico) due vasi Luigi Filippo (di scuola Capodimonte e certificati 1830)  recanti     scene di pastori e villanelle    su sfondo in oro zecchino.

    In genere, dovunque mi trovi, se scorgo un mercato   antiquario  ci passo le ore.   E ancora rimpiango i due putti in oro zecchino che  scovai  in quello di Lucca. Era la mattina    dell’incontro  a casa tua :-)  

    Ti do un suggerimento per gli articoli  sugli  artisti  . Secondo me il testo andrebbe assecondato e corredato con  immagini di alcune opere salienti       dell’artista   o del moviemnto      in questione.
    Quando pubblicai le due noterelle su Caravaggio io lo feci (era Il ragazzo morso dal ramarro) . La resa mi  parve  eccellente.  

    Saluti

    Carlo

  4. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 19 Novembre 2009 @ 12:31

    La mancata pubblicazione delle immagini negli articoli è legata al fatto che esse, quando poi diventano numerose, appesantiscono il sito. Ho visto certi siti, che proprio per la dovizia di immagini si aprono lentamente.
    Le immagini le ho riservate alle Gallerie degli artisti.

    Per ora sono convinto che sia una scelta giusta. Per poter mettere le immagini occorrerebbe una potenza adsl ragguardevole. Io credo di marciare già a 7MB.

    Poi c’è anche un fattore tempo. Se gli articoli sull’arte non sono già dotati di foto, dovrei andarle a cercare personalmente, e, per la verità, me ne manca il tempo.

    Credo che il lettore, una volta resosi conto delle qualità dell’artista presentato, possa fare le sue richerche sul web direttamente.

    Grazie, comunque, del suggerimento, ma tieni conto anche delle mie forze limitate :-)

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