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PITTURA: I MAESTRI: Cellini e le arti decorative

31 Gennaio 2010

di Charles Avery
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1981]

Grazie alla sua Vita e ai suoi Trattati, siamo me ­glio informati su Cellini che su qualsiasi altro artista del Cinquecento, eccetto forse Michelangelo, che pure ricorse spesso alla parola scritta, ma in forma poetica ed epistolare.

Cellini è oggi famoso soprattutto per le grandi sculture in bronzo e in marmo, come il Perseo e il Ganimede, eseguite per Cosimo de’ Medici intorno al 1550. In realtà esse rappresentano solo una piccola parte della sua produzione, come ci si rende conto leggendo la sua Vita.

La grande quantità di piccole opere d’arte decorativa che egli creò e descrisse amorevolmente nelle sue memorie, sono troppo spesso trascurate, perché sopravvissute in piccola parte. È la sorte comune de ­gli oggetti realizzati in metalli preziosi, come i gioiel ­li, quella di andare distrutti per mano di ladri e sac ­cheggiatori, oppure di essere fusi e rimodellati, se ­condo la moda del momento, da parte dei successivi proprietari.

In effetti Cellini fu soprattutto orafo, autore di vasellame e oggetti decorativi in metallo prezioso. Una vivace descrizione di questo aspetto della sua at ­tività si può trarre dal dipinto raffigurante La bottega dell’orefice, di Alessandro Fei, il Barbiere, conservato a Firenze, Palazzo Vecchio, nello Studiolo di France ­sco I (1570 ca.). Il dipinto illustra una scena della frenetica attività delle botteghe del duca Cosimo agli L’Uffìzi. In primo piano, sulla sinistra alcuni esperti stanno valutando degli oggetti preziosi, mentre sulla destra un orafo sta lavorando a una corona gran ­ducale.

Dietro di lui, su un ripiano, una quantità di vasi e brocche, con catene o collane che pendono dal bordo. Sullo sfondo le fornaci sono roventi, mentre a sinistra due fabbri battono delle lamine su un’in ­cudine. Vicino a loro altri orafi attendono al loro lavoro.

Cellini fece anche dei gioielli, anche se nessuno di essi è rimasto. Per uno, tuttavia, abbiamo una precisa documentazione figurativa. Si trat ­ta di un disegno acquarellato che fa parte di un al ­bum compilato intorno al 1729 da un disegnatore italiano, F. Bartoli, per un amatore e collezionista in ­glese, John Talman. L’intero album è composto di disegni colorati che rappresentano per lo più oggetti liturgici usati nelle cerimonie pontificali in San Pie ­tro. Purtroppo la maggior parte di questo prezioso patrimonio fu distrutta nel 1797, quando dovette es ­sere fusa per pagare Napoleone, che aveva mosso guerra agli Stati pontina.

La fibula, o ferma-piviale, di Clemente VII Medici, che il disegno raffigura, era uno dei primi ca ­polavori di Cellini, realizzato intorno al 1530. Le cir ­costanze della commissione, originate dalla distru ­zione della maggior parte del tesoro papale avve ­nuta nel corso del Sacco di Roma del 1527, sono descritte nella Vita. Il Papa voleva un enorme ferma ­glio d’oro “il quale si fa tondo a foggia di un ta ­gliere e grande quanto un taglieretto, di un terzo di braccio”. Nei suoi trattati Cellini aggiunge che ave ­va pressappoco le dimensioni di una mano aperta.

La scritta sul disegno dice: “Nel mezzo è un dia ­mante a punta. È incastonato con quattro bellissimi smeraldi, due zaffiri eccezionalmente belli e grossi, e due bei rubini”; gli attribuisce un valore di 15.000 sterline nel 1729. I gioielli corrispondono esattamente alla descrizione che ne fa Cellini nel suo Trattato del ­l’oreficeria.

A prescindere dalla descrizione stravagante che ne da Cellini, il fermaglio fu molto lodato da Vasari nelle sue Vite. Visto di fronte, il fermaglio raffigurava il Pa ­dre Eterno, con al centro un grande diamante tagliato a piramide, una pietra molto famosa che era stata acquistata da Giulio II per 36.000 ducati. In passato era stata incastonata in una fibula fatta per quel pa ­pa da Caradosso, un predecessore di Cellini e il più famoso orefice romano in pieno Rinascimento.

Il profilo circolare e la collocazione simmetrica delle pietre, in parte forse dettata dalla tradizione, mostrano Cellini come un orefice tipicamente rina ­scimentale, in una composizione che non ha nulla di manieristico. Il suo Padre Eterno ricorda inoltre l’o ­pera di Raffaello, in particolare l’analoga figura nel ­la cupola della cappella Chigi in Santa Maria del Popolo. Cellini diede sfogo alla sua immaginazione e alla sua abilità tecnica nella varietà di pose e nelle gradazioni di rilievo dei putti che circondano l’Eter ­no e sembrano sostenere le preziose pietre. La veduta laterale mette chiaramente in evidenza il profilo pi ­ramidale del grande diamante centrale â— che tra pa ­rentesi era un vanto dei Medici â— e il gancio che esce dalle fauci del Icone e che serviva a chiudere il pivia ­le. Sul retro, la forma a U del gancio serve a incorni ­ciare lo stemma dei Medici sormontato dalla tiara papale.

Per la rimanente produzione orafa di Cellini, si è purtroppo costretti a ricostruire mentalmente le im ­magini sulla base delle vivide descrizioni dell’artista e degli esemplari analoghi scelti tra i pochi soprav ­vissuti dell’oreficeria rinascimentale. Pietre preziose ed enormi perle dalle forme insolite e suggestive for ­mavano il nucleo attorno al quale l’orafo poteva a-bilmente costruire una composizione, figurativa o astratta, per la gioia della ricca clientela. Molti di questi gioielli sono stati tradizionalmente considera ­ti opera di Cellini solo in base a una generica somi ­glianza: nessuno però corrisponde con esattezza a qualche esemplare descritto nella Vita.

Forse il più stupefacente gioiello attribuito in passato a Cellini è il famoso “Canning Jewel” del Victoria and Albert Museum, così denominato per ­ché appartenne nel XIX secolo al conte Canning, primo Viceré dell’India. Rappresenta un mostro marino ed è fatto con una perla irregolare montata su oro smaltato, tempestato di perle, rubini e dia ­manti. Era tradizionalmente considerato un dono dei Medici a un imperatore Mogul: benché questa idea non possa essere smentita, essa risulta sprovvista di basi storiche. Il fatto che una delle pietre sia ta ­gliata a forma di fiore stilizzato fa pensare a un influs ­so indiano, e l’ipotesi più credibile è che sia opera di un artigiano italiano impiegato alla corte dei Mogul.

In ogni caso si tratta di un caratteristico esempio della oreficeria manieristica e mostra chiaramente il gusto di ricavare da un fenomeno naturale, una per ­la dalla forma singolare, una originale e preziosa opera d’arte. Richiama alla mente il suggerimento che Leonardo dà agli artisti di studiare le macchie di umidità sul muro come stimolo alla fantasia.

A prescindere dalla sua attività di orafo, Cellini fu esperto artigiano anche nella lavorazione di altri metalli. Nella Vita egli descrive come il duca Cosimo lo aiutò materialmente a pulire alcune antichità etrusche scavate nei pressi di Arezzo nel 1555. Cellini dovette ripristinare le parti mancanti della più fa ­mosa di esse, la leggendaria Chimera. Questo era certamente il tipo di opera che doveva at ­trarre il suo gusto per l’esotico.

Cellini inoltre disegnò monete e medaglie. Que ­ste venivano coniate da matrici di acciaio che sono naturalmente immagini speculari della medaglia coniata. È chiaro quanto dovesse essere la ­borioso il compito del cesellatore dei conii, che do ­veva incidere il disegno, in negativo e all’incontra-rio, nell’acciaio freddo, facendo ogni tanto degli ab ­bozzi di prova allo scopo di verificare il procedere dell’opera. Nei suoi trattati Cellini indica come fab ­bricare la serie dei punzoni speciali per ogni singola moneta o medaglia.

Egli inoltre spiega che il vantaggio dell’uso dei punzoni, piuttosto che dei bulini, consiste nella pos ­sibilità di ottenere una notevole uniformità per i nu ­merosi conii necessari per una copiosa emissione di una moneta o medaglia. A Cellini si deve un’impor ­tante innovazione tecnica, che permise di coniare medaglie più grandi e più spesse con una pressa meccanica, mentre in passato era necessario usare la fusione, metodo più laborioso e difficile. Una me ­daglia coniata con una matrice di acciaio possiede maggiore precisione e leggibilità, fatto questo par ­ticolarmente importante per i piccoli dettagli e per le scritte.

La medaglia di Clemente VII mostra sul recto il papa a capo scoperto con indosso un piviale, ferma ­to con una fibula simile a quella che Cellini disegnò per Clemente VII. Il verso mostra una figura alle ­gorica femminile, personificazione della Pace, che regge una cornucopia e da fuoco a un cumulo di pu ­gnali, delineata con sensualità con un drappeggio ondeggiante e diafano e in una posa ardita. L’armo ­nia della figura con la linea curva della medaglia e dell’iscrizione alle sue spalle è raggiunta con eccezio ­nale destrezza.

Mentre l’uso delle monete è anche oggi perfet ­tamente comprensibile, la funzione della medaglia può essere meno evidente. Le medaglie dovevano essere coniate in una certa quantità allo scopo di diffondere l’immagine di un individuo, con una scritta informativa e, di solito, una allegoria sul verso che si riferiva a una delle imprese o a una delle caratteristi ­che di questo personaggio. Era normale che alcuni esemplari venissero coniati per il mecenate e la sua cerchia in metallo prezioso, tuttavia la maggior par ­te delle medaglie era fatta in leghe di pregio minore, come bronzo e ottone, o in metalli puri come rame e piombo. Le medaglie in oro e argento sono diventa ­te molto rare, a causa della loro successiva fusione per il recupero del metallo prezioso; gli esemplari in bronzo e piombo invece, meno pregiati, sono so ­pravvissuti in numero molto maggiore.

Senza alcun dubbio, il capolavoro di Cellini orafo è la Saliera, della quale egli andava giustamente fiero. Inizialmente commissionata dal Cardinale di Ferrara nel 1540, quando l’artista era ancora a Roma, essa fu portata a termine in Francia per Francesco I. Poco dopo fu data come dono di ­plomatico all’arciduca Ferdinando d’Austria e da al ­lora rimase a Vienna.

La Saliera è una rara testimonianza della ricchez ­za di accessori d’argento e d’oro che, come sappia ­mo da resoconti contemporanei, decoravano la ta ­vola dei re e dei nobili di tutta l’Europa. D’altra par ­te non c’è dubbio che essa fosse eccezionalmente sontuosa anche secondo gli standard del tempo, e superiore per disegno ed esecuzione alla maggior parte di oggetti simili. Nel suo Trattato dell’oreficeria Cellini aggiunge alla descrizione contenuta nella Vi ­ta un interessante aspetto pratico: la base d’ebano poggiava su quattro sfere d’avorio incassate ciascu ­na in un incavo, che consentivano alla saliera, con i suoi contenitori separati per il pepe e il sale, di esse ­re spostata dolcemente sulla tavola. Anche la deco ­razione attiene alle sue funzioni pratiche: il sale è un prodotto del mare e il pepe lo è della terra, così Cel ­lini rappresenta i due elementi con le relative divi ­nità classiche. Il tridente di Nettuno è proteso sul contenitore del sale, a forma di barca, che il suo in ­dice addita, mentre la mano destra di Cerere, che regge una cornucopia di frutta e fiori, quasi sfio ­ra un tempio ionico, che è il contenitore del pepe. Il suo coperchio poteva essere sollevato mediante un’impugnatura a forma di figura femminile sdraia ­ta. La composizione centrifuga delle due principali figure protese all’indietro e verso l’esterno, trova la sua unità formale nella serie di linee immaginarie che congiungono gli arti delle figure, come pure nel contorno ovale della base architettonica.

Questa base contiene altre figure che conferisco ­no unità all’iconografia: le quattro Parti del Gior ­no, personificate da figure intere reclinate, che per il tema e per la composizione richiamano immedia ­tamente le statue michelangiolesche della Sagrestia Nuova.

Le figure maschili sono strettamente michelan ­giolesche, non così quelle femminili. Tra questi quattro cartigli oblunghi ce ne sono altri quattro si ­mili a feritoie, dalle quali sporgono la testa e le brac ­cia di altre quattro figure. Dalle loro guance enfiate si potrebbe arguire che rappresentino i Venti, come in effetti conferma Cellini nella Vita. Essi sono anche il simbolo dei quattro punti cardinali. Nel suo trat ­tato comunque Cellini li descrive come le quattro stagioni, e ciò suggerisce un ulteriore significato. La complessa dovizia di intricati motivi decorativi, evi ­denziati da smalti brillanti, funge da sfondo contro il quale i corpi sericamente levigati e il vigoroso mo ­dellato delle’principali figure si stagliano con un ri ­salto autenticamente scultoreo.

Eleganza e inventiva sono i due aspetti fonda ­mentali, e sono ottenuti attraverso la combinazione di una fertile fantasia e una assoluta padronanza del ­la tecnica.

Cellini era perfettamente in grado di passare a lavori di grandi dimensioni, ma vi apportava sem ­pre la sua pratica di raffinato decoratore e di cesel ­latore minuzioso. Naturalmente avviava ogni pro ­getto con lo stesso metodo, con modelli preliminari in cera che sono frequentemente menzionati nella Vita e documentati nel suo studio al momento della morte. Ne sopravvive uno solo, molto importante, quello per il Perseo. Una scultura in bronzo, come quella del Levriere, denota l’esistenza di un originale in cera. La prima occasio ­ne di un lavoro di grandi dimensioni gli venne dai suoi rapporti con Francesco I, che stava costruendo la reggia di Fontainebleau. Qui egli era rimasto col ­pito dagli stucchi del Rosso e del Primaticcio, che costituivano la prima espressione della plastica ma ­nierista. L’elegante ma innaturale allungamento delle membra e la stilizzazione geometrizzante delle parti anatomiche, che Cellini poté qui osservare, in ­fluenzarono profondamente tutta la sua scultura fi ­gurativa, dalla monumentale sovrapporta in bronzo con la Ninfa di Fontainebleau alle minusco ­le figure della Saliera, e dai candelabri rappresentanti a grandezza naturale divinità classi ­che come Giunone, alle statuette poste sulla base del Perseo. Il confronto fra la cera, il mo ­dello in bronzo e la statua definitiva del Perseo, mostra che Cellini si concentrò all’inizio sul disegno di una figura che prevedeva forme affusolate, perché l’effetto lineare era molto importante nel Cinque ­cento. Successivamente studiò con maggiore atten ­zione l’anatomia, e ammorbidì la figura, come si ve ­de nel secondo modello, quello in bronzo, e nello stesso tempo curò l’espressione del volto, come è ri ­scontrabile dal modello di Londra.

Alla fine, forse perché su scala monumentale avrebbe prodotto un effetto troppo bizzarro, abban ­donò il primitivo allungamento della figura in fa ­vore di proporzioni più naturali, cosicché la statua nella Piazza della Signoria appare certamente meno snella rispetto ai modelli.

Dei grandiosi progetti di Cellini a Fontainebleau, che occupano tanta parte della Vita, nulla purtroppo sopravvive, tranne la lunetta della Ninfa, interessante non solo per la posa michelangiolesca e la tendenza alla stilizzazione dell’anatomia, ma an ­che per i vivaci studi di animali che la circondano, modellati con una libertà che anticipa i famosi uc ­celli e scimmie del Giambologna, di una generazio ­ne più giovane. Due disegni molto raffinati ed eleganti, raffiguranti Giunone e un Satiro, forniscono la testimonianza più sicura del pro ­getto delle candelabre e delle cariatidi a grandezza naturale per il grande cancello. Ne esistono delle ri ­duzioni in bronzo, ma sono di dubbia autenticità, mentre un certo numero di statuine in bronzo del ­l’epoca, rappresentanti divinità antiche, sono state attribuite a Cellini con diversa attendibilità.

La frustrazione che l’artista dovette subire per non aver avuto la possibilità di realizzare questi pro ­getti â— forse per validi motivi, dal punto di vista del re â— fu compensata al suo ritorno nella nativa Firen ­ze dall’ambizioso progetto di aggiungere un nuovo gruppo alla statuaria monumentale già esistente nel ­la Piazza della Signoria. Non è chiaro se sia stato l’artista o il duca Cosimo a provocare la commissio ­ne, in ogni caso si rivelò un atto di mecenatismo molto intelligente e fortunato. Cellini consegnò il bozzetto in cera dopo poche settimane e, una volta approvato, si mise al lavoro alacremente facendo varie prove di fusione. Il risultato più notevole fu il busto bronzeo del duca Cosimo, che, co ­me egli scrive nella Vita, fu fatto a titolo di esperimento, usando argille locali, fiorentine, per la fu ­sione. Dal punto di vista estetico, comunque, il busto non ha nulla di sperimentale: è un brillante ri ­tratto psicologico, che il committente dovette trovare fin troppo rivelatore, se lo confinò all’Elba co ­me decorazione del portale di una fortezza. L’im ­provviso volgersi della testa, i capelli mossi e gli oc ­chi, che dovevano essere ancora più penetranti con l’originale smalto colorato, concorrono a formare un’immagine che non è certo quella di un benevolo governante.

L’effetto di vigoroso movimento è accentuato dal contrasto con l’elaborata corazza, che non è una vera armatura rinascimentale, ma è ispirata ai busti degli antichi imperatori romani. Cellini ha liberamente reinventato motivi classici, come la testa della Medusa e le protomi di Icone, con la fantasia di un espertissimo orafo. In origine, infatti, i diversi par ­ticolari erano messi in evidenza dalla doratura, che faceva del busto tanto un oggetto squisitamente de ­corativo quanto un realistico ritratto.

La stessa attenzione minuziosa all’espressione facciale si può riscontrare in un altro busto in bron ­zo del Cellini, quello di Bindo Altoviti, il banchiere papale, fatto per lo studio del suo palazzo romano. Molto significativa è anche la testa mozza della Me ­dusa del gruppo del Perseo, per la quale l’artista ese ­guì un accurato lavoro preparatorio, documentato dal modello bronzeo ora a Londra.

L’idea di aggiungere una scultura nella Piazza del ­la Signoria era audace, venendo, come veniva, da un orafo abituato a lavorare su piccola scala e con po ­che opere di grandi dimensioni alle spalle. Avrebbe dovuto confrontarsi con il colossale David di Miche ­langelo e il gruppo di Ercole e Caco del Bandinelli po ­sti ai lati del Palazzo della Signoria, senza contare lo splendido gruppo bronzeo, di un secolo più antico, di Donatello, la Giuditta e Oloferne, che era stato in origine fatto per il Palazzo Medici, ma era stato confi ­scato dal governo repubblicano alla loro espulsione nel 1494 e posto nella Piazza, a ricordo della loro ca ­duta. Cellini celebrò la sua impresa nella Vita con il più lungo e dettagliato resoconto mai scritto sulla modellatura, fusione e rifinitura di una statua, men ­tre gli aspetti prettamente tecnici sono di nuovo spiegati nei suoi trattati.

La scelta e il trattamento del tema formano un interessante contrappunto concettuale e visivo. La storia biblica di Giuditta e Oloferne era interpretata come un’allegoria, il trionfo dell’Umiltà sull’Orgo ­glio. Nella composizione di Donatello, la vincitrice pesantemente drappeggiata trionfa su una figura maschile morente, quasi nuda, giacente su un cusci ­no ai suoi piedi: nell’opera di Cellini il vincitore è un nudo maschile e la vittima una figura femminile, mentre il tema è tratto dalla mitologia pagana. Il ri ­lievo narrativo di Perseo che libera Andromeda, posto sotto il gruppo principale, corrisponde pressappoco alla collocazione data da Donatello ai rilievi allegorici con i putti orgiastici. La base di Cellini era molto più elaborata, un vero tour de force di decorazione manieristica, ospitante quattro belle piccole statue in bronzo di divinità classiche, di probabile imme ­diata derivazione dai suoi primi disegni per Fontainebleau, richiamati perfino dalle mani levate, che in origine dovevano reggere torce, dal momento che quelle dovevano fungere da candelabri.

Mentre era impegnato nel lungo lavoro del Per ­seo, Cellini si lasciò imprudentemente trascinare dai sarcasmi del suo principale rivale, il Bandinelli, nel campo della scultura in marmo, che gli era total ­mente sconosciuto. Nonostante affermasse il contrario, Cellini si trovava certamente in difficoltà con la scultura vera e propria, una tecnica molto diver ­sa dal modellare e dal cesellare, non solo perché il Bandinelli malignamente gli forniva blocchi che avevano difetti interni, ma anche perché tutta una vita passata a plasmare, liberamente e in ogni posa, figure fatte di cera o di argilla e sostenute da un’ar ­matura, non lo aveva preparato ad affrontare la dif ­ficoltà di adattare la composizione ai limiti fissati da un blocco di marmo. Delle numerose sculture in marmo la sola pienamente riuscita è il Crocifisso ora all’Escorial. Si tratta di una composizione sulla quale l’artista aveva meditato e fatto prove per gran parte della sua carriera, se dobbiamo credere alla Vita e a un certo numero di modelli documenta ­ti tra quanto fu ritrovato nel suo studio. È ricca di pathos e scolpita con una raffinatezza che si avvicina alla levigatezza che si può ottenere più facilmente con il metallo.

L’insuccesso del Cellini nell’assicurarsi l’incari ­co della fontana del Nettuno, che doveva essere l’ag ­giunta successiva al Perseo alla scultura monumen ­tale della Piazza, gli provocò una grande delusione, e â— prevedendo probabilmente una maggiore rivali ­tà nella committenza medicea da parte degli scultori emergenti della generazione più giovane, come Vin ­cenzo Danti e Giambologna â— si diede a scrivere la Vita e i trattati, che, curiosamente, rappresentano una delle sue maggiori realizzazioni, per quanto in campo letterario. La Vita di Cellini, assieme ai pochi lavori rimasti che abbiamo preso in esame, offre una suggestiva testimonianza del rapporto personale di un artista con i suoi mecenati. Artisti e committenti erano entrambi più liberi di dare corso alla propria immaginazione quando si trattava di piccole opere decorative per uso privato, piuttosto che di sculture monumentali di godimento pubblico. La confiden ­za di Cellini con grandi uomini di governo, come Clemente VII, Francesco I e il duca Cosimo era” del tutto straordinaria per un’epoca che attribuiva grande importanza al. formalismo e al protocollo. Indubbiamente ciò fu dovuto in parte al loro de ­siderio di tenere d’occhio i preziosi metalli e le pie ­tre che venivano forniti per il lavoro, e in parte alla comprensibile preoccupazione che oggetti costosi di uso personale â— sia gioielli sia accessori per la tavola â— riflettessero esattamente gli intendimenti del com ­mittente. Una rigida distinzione tra ‘belle arti’ e ‘arti decorative’ risulta nel nostro caso priva di senso. Specialmente all’epoca del Cellini, che segna l’apo ­geo del Manierismo, i gioielli personali e gli oggetti decorativi per la casa erano di estrema importanza nel determinare lo sole di un individuo. Spille da cappello o anelli erano importanti per gli uomini al ­lo stesso modo che collane o spille per le signore, ed erano oggetti spesso più costosi di una scultura, il cui materiale, marmo o bronzo â— come pure la manodopera â—, era in confronto a buon mercato.

A prescindere dalla loro qualità artistica, il va ­lore intrinseco dei materiali di cui erano fatti giusti ­ficava un significativo grado di apprezzamento, un senso di ammirazione perfettamente comprensibile, ancora oggi diffuso quando l’uomo della strada am ­mira le vetrine di Asprey o di Tiffany, o guarda di sfuggita i gioielli della corona.


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