PITTURA: I MAESTRI: Cosmè Tura e gli altri pittori ferraresi del suo tempo: La cultura figurativa del Quattrocento ferrarese23 Febbraio 2019 a cura di Rosemarie Molajoli Cosmè Tura, Francesco Cossa, Ercole de’ Roberti:  tre pittori che nel nome di Ferrara, in un accostamento temporale che non superò il mezzo secolo, determinarono nella storia dell’arte italiana, pur tanto folta e complessa, uno dei casi più singolari di invenzione e di eccezionale tenuta di una temperie geniale, di una carica umorosa e fulgente, in una irripetibile ‘concordia discors’, per cui ciascuno dei tre poté essere compagno e protagonista a suo modo. Essi appartengono pienamente al Quattrocento. È il mo Âmento cruciale del trapasso dal mondo medievale a quello del Rinascimento; nelle vicende delle arti figurative la narra Âzione di eventi storici o leggendari, sacri o profani, a scopo di spirituale edificazione cede alla scoperta e all’indagine del mondo naturale, di nuovi valori della realtà : volume, spazio, luce, movimento; l’artista passa dalla prestazione manuale, artigianale, spesso collettiva e quindi anonima – per una produzione pedissequa alla volontà di un committente, all’arbi Âtrio del suo gusto e delle sue ideologie – alla creazione indi Âviduale, autonoma, libera dalla servilità , ispirata dal “divino furore” platonico, per il raggiungimento della perfezione ideale, assoluta e immutabile. In questa aspirazione, l’artista si uguaglia al principe, e questi collabora con lui, conciliando la contrapposizione polemica del primo umanesimo fra la ”fortuna” dei grandi e la “virtù” dell’artefice. Del Rinasci Âmento i tre pittori ferraresi posseggono tutti gli aspetti este Âriori, tutte le angolazioni e le molteplici sfaccettature, hanno inoltre le caratteristiche strettamente inerenti agli uomini della loro epoca, un forte ‘individualismo’ e un ‘realismo’ che diventa spesso asprezza; al pari degli altri artisti contempo Âranei, essi scoprono il mondo circostante e i nuovi aspetti della realtà ; hanno la consapevolezza dell’importanza del Âl’uomo, della sua esistenza fisica, dell’espressione del suo volto, della natura e del paesaggio che lo circondano. Ma il vero loro fascino nasce dalla sensazione, che essi comunicano, di trovarsi ancora sul crinale fra due mondi diversi se non opposti, e di districarsi con estrosa e ribelle inquietudine dalle ultime pastoie della tradizione medievale e gotica per im Âmettersi sulle aperte strade del Rinascimento. Per tutto il Trecento, Ferrara non era stata un centro d’arte autonomo: aveva importato artisti e opere dalle re Âgioni contigue, dalle scuole più attive: Bologna, Modena. Verona, Padova. Durante i primi quattro decenni del nuovo secolo, il marchese d’Este, Nicolò III, aveva badato a raffor Âzare la funzione politica di mediazione fra le Signorie del suo tempo, e un po’ meno a emulare di queste la prorom Âpente fioritura culturale e artistica. Tuttavia aveva assunto ai propri stipendi una schiera di miniatori, costituendo così una scuola destinata nei decenni successivi a raggiungere grande splendore. Aveva anche chiamato arazzieri dalla Fian Âdra, e così avviato una manifattura che intensificherà la pro Âpria produzione sotto i suoi successori. E suo figlio Lionello. nel ’38, s’era incontrato e aveva stretto amicizia con Leon Battista Alberti, e cinque anni dopo lo farà ritornare a Fer Ârara per consulenze e progetti d’architettura. Quanto alla pittura, le novità venivano ancora dal Nord; ed erano quelle del ‘gotico internazionale’, specchio delle ornate eleganze dell’aristocrazia feudale, del mondo cavalleresco e ormai co Âsmopolita, in quel grande flusso d’estetismo profano che si diramò, alimentando un comune linguaggio figurativo, nelle più raffinate corti d’Europa, dalla Borgogna alla Boemia, al settentrione d’Italia. Due maestri nostrani, rappresentanti di quella corrente artistica â— cioè quanto di più ‘progredito’ esistesse in quei tempi fuori di Firenze â—, Pisanello e Jacopo Bellini, erano chiamati la prima volta a Ferrara nel ’38 (anch’essi, proba Âbilmente, dal giovane e colto Lionello) e poi altre volte vi tornarono per fornire alla corte estense quadri, ritratti e medaglie. Intanto, succeduto nel 1441 Lionello a Niccolò III, più alacre ritmo assumeva la vita culturale della città . Giunge Âvano folate d’aria nuova. Nella vicina Padova lavoravano Donatello e Mantegna: due differenti voci del Rinascimento. Verso l’anno ’50 dalla Toscana arriva a Ferrara Piero della Francesca, dalla Fiandra Rogier van der Weyden, apporta Âtori di memorabili novità : il primo di scoperte armonie dello spazio e della luce, il secondo di verità di natura e di sa Âpienza tecnica. Che cosa doveva germinare in terra ferrarese da simili innesti, lo si capì di lì a poco. Cosmè Tura, Francesco Cossa, Ercole de’ Roberti ebbero in comune la fantasia, uno straordinario estro immaginativo e inventivo che è nota predominante e segreto della loro originalità ; naturalmente ognuno di essi la visse alla propria maniera: il Tura, mediante forme e colori esasperati, arriva alla raffigurazione di un mondo decisamente irrealistico, quasi costringe ogni tratto della realtà nell’alveo dell’invenzione fantastica, d’un formalismo allucinato ma rigoroso fino a diventare suprema e forbitissima cifra stilistica; il Cossa con un tormento e una tensione minore introduce nelle sue imma Âgini l’idea del movimento sfuggendo in tal modo alla rigida immobilità delle figure di Cosmè; il de’ Roberti, con perspicacia, non soltanto tenta di attenuare l’arte aspra e ferrigna dei suoi due predecessori, ma riesce anche a raggiungere, con un’analisi profonda del mondo naturale e umano in tutti i suoi molteplici e multiformi aspetti, un’espressione alta Âmente poetica, subordinando la propria fantasia inventiva .1 una regola e a un equilibrio classici. Ma è decisamente Cosmè Tura il fondatore della scuola ferrarese, l’innovatore, l’artefice, l’animatore della pittura della prima Rinascita a Ferrara; la sua bravura consisté nell’operare sulla propria formazione tardogotica un innesto che prima d’essere di forme era di sostanza, di attitudine mentale. Lo fece senza esitazioni o compromessi, anzi con un certo dispettoso rigore di polemica conservatrice. Meno di una conversione e molto di più di una sperimentazione. Con la sua straordinaria forza immaginativa, sempre controllata e frenata dalla comprensione lucida e dalla attenta interpretazione della forma, diede le linee direttive a tutti i successivi svolgimenti; definì la poetica e trasmise l’originalità , la ten Âdone, la potenza, l’inquietudine e la bizzarria agli altri arti Âci, attraverso i rilievi â— tortuosi, metallici, fatti di cesello e incudine con superiore destrezza artigianale, quasi un’eredità del sangue e della terra natia – e il ferreo rigore dei contorni, l’irrealtà dei colori smaltati di rossi e di verdi accecanti, che li anno talvolta il sapore di una sfida. Il pittore appare costantemente tormentato dall’idea di comporre sotto la specie durevole del minerale e del metallo, di creare forme che ombrano scolpite nella pietra dura e modellate nel bronzo, con un linguaggio espressivo sempre coerente, strettamente logico e fedele a se stesso; egli trae, con ogni probabilità , questo gusto di riprodurre in pittura le materie inorganiche, dall’influenza che ebbero sin dal XV secolo le teorie secondo cui certe materie, naturalmente per ragioni magico-alchemiche, hanno valori, significati e poteri connaturati e dipen Âdenti dalla loro scelta e dal loro accoppiamento. Ed è lo stesso mondo magico che troviamo negli affreschi del Salone dei Mesi nel palazzo Schifanoia a Ferrara, il maggiore ciclo pittorico profano del Rinascimento, la più completa testimonianza della demonologia astrologica che il sec. XV ci abbia lasciato. All’ideazione di esso parteciparono il Tura e in seguito il de’ Roberti con una forza dinamica e una capa Âcità d’astrazione che oggi si direbbe ‘metafisica’ fino ai limiti del demoniaco; ma la parte prevalente, fra la pleiade dei pittori impegnati alla grande impresa, fu assunta e svolta, con grande freschezza inventiva e immaginazione poetica, dal Cossa. Qui tutte le raffigurazioni mensili dello Zodiaco sono col Âlegate alle rappresentazioni dei “figli dei pianeti” cioè degli dèi pagani che presiedono agli astri e al volgere del tempo, piene di fascino e di mistero, scelte soprattutto in base alle concezioni astrologiche che la cultura medievale aveva la Âsciato in eredità al Rinascimento. Esse rispecchiano con vi Âvace acutezza squarci di vita, favole eleganti, voluttà segrete, sotto i segni propizi delle costellazioni zodiacali. Le cacce aristocratiche, i lavori della campagna a regola delle stagioni, le deità mitologiche, le corse del palio, episodi della vita di corte inneggianti alla potenza e alla glorifica Âzione della famiglia d’Este, sono oggetto di una narrazione pungente e serena, tra realtà e fantasia, quale di lì a pochi anni l’avrebbe esaltata il genio prorompente di Ludovico Ariosto:  Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, Gli artisti si rendono interpreti di questo mondo fanta Âstico e ne condividono coi prìncipi committenti l’esaltante scoperta e la gioia di vederlo realizzato sulle pareti delle loro dimore. Dell’appassionata partecipazione del giovane duca ai progetti di Ercole de’ Roberti per la purtroppo perduta “delizia” di Belriguardo, ci è rimasto il ricordo in una let Âtera del 13 febbraio 1493 inviata dalla cancelleria ducale alla duchessa Isabella. Vi si può trovare una diretta testimo Ânianza del fervore d’opere che dominava l’ambiente della corte e influiva sulla educazione artistica di Alfonso d’Este; il documento ci mostra l’artista occupato a disegnare i cartoni per la decorazione di alcune sale di quella nuova residenza, mentre Alfonso, dimentico dei giochi e delle passeggiate, è intento ad osservare assiduamente il lavoro del pittore:  Ill.ma et Excell.ma Madama mia […] Ex belreguardo XIII februarii 1493.  Servulus Siverius Ma non sempre alla corte di Ferrara gli artisti vissero un tal clima idilliaco. C’era anche il rovescio della medaglia. Pur vivendo in stretta familiarità con i prìncipi, qualche volta affiorano scontentezza e rimbrotti per il trattamento pecuniario che veniva loro riservato: cosa che è abbastanza comune alla maggior parte degli artisti dell’epoca, ma che in loro colpisce particolarmente, per il contrasto fra la loro personalità e il mondo ‘cortese’ che li circonda. In una lettera indirizzata, il 25 marzo 1470, da Francesco Cossa al duca Borso (rinvenuta da A. Venturi nell’Archivio di Stato a Modena e pubblicata in “Kunstfreund”, n. 9, 1885) si legge: Ill.me Princeps et Excel.me Domine Domine mi Singularissime […] A dì passati insieme cum li altri dipintori suplicai ad V. Sig.ia supra il pagamento dela salla de Schivanoglio: Dove V.re Sig.ia rispose che se instasse la relacione: lll.mo Principe io non voglio esser quello il quale et a pelegrino de prisciano et ad altri Venga a fastidio. per tanto mi sonto deliberato ricorrere solo a V.ra Sig.ia: per che forsi a quella pare on egi stato referito che li sono de quelli che bene poteno stare contenti et sono tropo pagati del merchato deli deci bolognini. Et ricordare suplicando a quella che io sonto francescho del cossa il quale a sollo fatto quili fri canpi verso lanticamara: Siche lll.mo S. quando la Sig.ia V.ra non mi volesse dare altro che dece bolognini del pede: et bene ne p[er]desse quaranta on cinquanta duc[ati] continuamente avenga Viva sule mie braza staria contento et bene posato: Ma bene essendogi altre circostancie assai me ne dolgieria et tristaria fra mi medemo: Et masime Considerando che io che pur ho incomenciato ad avere un pocho di nome, fusse tratato et judicato ed apparagonato al più tristo garzone de ferara: Et che lo mio avere studiato e continuamente studio non dovesse avere a questa volta qualche più premio et maxime dala Ill.ma V.ra Sig.ia che quelli che e abesenti da tale studio, certo lll.mo principe nò paria esser che dentro da mi non me natristase e dolesse. E poi che lo mio lavorare a fede como o fato et adornare de oro e de boni coluri foseno de quelo precio che talle parte de i altri che se sono passato senza talle fatiche et spexe me ne pareria pure strano: Et questo dicho. Sig.r per che io ho lavorato quaxi et tufo a frescho che e lavoro avanzato e bono e questo è noto a tuti li maistri de larte: Tuta via lll.mo Sig.r me rimeto ali piedi de la S. V.ra. Et quella prego quando havesse questo obieto de dire non voglio fare a ti per che mi sarebbe forza fare ali altri. Sig.r mio continuamente la Sig.ia V.ra poteria dire che così e stato extimato: Et quando V.ra Sig.ia non volesse andare drieto ad extime priego quale voglia se non el tuto che forsi me vegneria ma quela parte li pare de gratia et benignitate Sua me la doni: Et io per gracioso dono lacceptaro et cossi p[re]dicarò. Me ricomando ala Ill.ma S.V.ra: Ferrariae die XXV Martij 1470. Ill.me D. D. Vre Servitor quamvis infimus Franciscus del Cossa Con amarezza il pittore chiede al principe, anche a nome dei collaboratori, il pagamento per l’opera svolta nel palazzo di Schifanoia; le sue parole sono velate di malinconia, poi Âché, pur essendo ormai maestro di chiara fama, si vede “tra Âtato et judicato et apparagonato al più tristo garzone de ferara”. Questa supplica ha notevole importanza per la sto Âria del Quattrocento ferrarese, poiché il maestro vi si di Âchiara esplicitamente autore degli affreschi della parete orientale del Salone dei Mesi di Schifanoia, facilitando così il difficile lavoro di interpretazione e ricostruzione critica nella complessità delle collaborazioni alle quali è dovuto quel capolavoro. Diverse da quelle del Cossa sono le parole con cui, l’8 gennaio 1490, Cosmè Tura si rivolge al duca Ercole: Veramente Ill.mo S. principe et Ex.mo Signor mio, de le fatiche mie non mi suffragano. Io non scio come potermi vivere et substentar in questo modo imperoché non mi trovo professione o facultate che mi substentino con la famiglia mia. Altro cha quello che con le diurne opere e magisterio mio de la pictura per mercede alla giornata mi ho guada Âgnato. Ritrovandome maximamente infermo de tale infermitade che non senza grandissima spesa et longeza di tempo mi potrò convalere, como forsi de’ havere inteso V. Ex.tia. Questo dico perché havendo da sey anni in qua facto una ancona da altaro a spese mie di oro colori e pictura al Sp.le Francesco Nasello Secretario de la Ex.tia V. la qual è in San Niccolo in Ferrara che me ne vegnieriano Ducati sexanta Et havendo similmente pincto allo Ill.o et R.do Monsignor de Adria un Sancto Antonio da padua e certe altre cosse per le qualle mi resta debitore Ducati. XXV. non posso essere satisfato cossa certo non debita ne honesta, et tanto più quanto sono potenti et hano molto bene il modo à satisfarmi et io sum povero et impotente et che non ho bisogno perdere le fatiche mie: per tanto Humilmente ricorro alla Ex.tia V. et supplico sicome quella per le opere che io ho facto per Ley gratiosamente si è dignata satisfarmi. Voglia dignarsi con quello honesto et conveniente modo gli pare far dir alli predicti mi vogliano con effecto satisfar senza tenermi più in parole o vero Longeza di tempo: Si non exigiti causa mercedis quanto non lo Vogliano far per honestate: V.ra prefacta Ex.tia voglia pigliarsi tal ordine che per debito mi satisfacino. Alla cui gratia humilmente mi ricomando: ferrariae VIII ° Januari MCCCCLXXXX E Ex.tia V.  Servitor fidelissimus Cosmus pictor […]  Il pittore, ormai stanco e in precario stato di salute, si la Âmenta delle proprie disagiate condizioni finanziarie e chiede .il duca di intervenire con la sua autorità per sollecitare da due committenti vicini alla corte il pagamento arretrato di alcuni dipinti eseguiti ormai da lungo tempo. C’è da notare l’insinuante abilità e una certa ironia con cui il Tura rivolge la sua supplica, soprattutto quando dimostra al principe quanto sia disonesto da parte dei suoi debitori il negargli il danaro, “tanto più quanto sono potenti et hano molto bene il modo a satisfarmi”, dal momento che invece lui è povero, e soprattutto non può permettersi di “perdere le fatiche”. È uno squarcio di luce sulla realtà della vita del pittore, an Âche se il fatto in se stesso, di debiti e crediti fra committenti e artisti, è di quelli che più usualmente s’incontrano nei car Âteggi che di loro ci sono pervenuti. Analogamente l’anno dopo, il 19 marzo 1491, sarà Ercole de’ Roberti a rivolgersi, con tono supplichevole, al duca Er Âcole, per ottenere il pagamento completo di tutti i suoi lavori A. Venturi ha riprodotto il documento in “Archivio Sto Ârico dell’Arte”, 1889): Illustrissime & Excellentissime princeps domine et dux mi […] Perche vostra excellentia forsi crede che sia richo, et che habbia qualche faculta: essendo tuta lo opposito ve dico che sum povero homo, et altro non nho se non le braza, e quella pocha de vertu me ha dato dio, cum la quale bisogna proveda al viver mio e de la mia dona e fioli, oltra che voria pur fare qualche dota ala vechieza, sino che sunto apto a portar il pexo: Et a questo fine me sum conzato cum vostra excellentia per servir quella et lavorar sempre como ho facto e faro fin che vivro. Di che vi prego Intendiatj il facto mio et sel mio pensiero mi sucedera, poi iudicara vostra Signoria segondo il parer suo. Signor doppo che sum stato cum vostra Signoria che non ne molti anni como sapetj mi avanza in camara per resto, lire 567 marchesine non so se posso io che non nho covelle far quello che seria el mio desiderio et che e necessario che faci: non pigliando da voi se non quanto di zorno in zorno quasi possi vivere costumatamente: unde unico Signor mio Supplico vostra Excellentia quella vogli un pocho por mente al facto mio, et considerar la faculta et capital de la mia virtù, cum la quale e necessario che mi proveda ut supra: et chel mezzo degli anni miei se ne va. et non nho altro principio ni inviamento se non lo apozo e speranza de Vostra signoria cum cuj mi avanza de quei denari: et non li posso avere ni speranza de averli mi vien dato: Poi vostra excel Âlentia se dignara far provisione al facto mio, e tale che ogni pensiero affanno e fastidio lo caro in vostra Signoria ali pedi de la quale sempre me racomando. 19 marcij 1491. Excellentie vestre  Servitor hercules de robertis pintor  Non possediamo, di questi artisti, altri documenti diretti, che servano a riallacciare l’opera ai fatti della loro vita. Non si può trarre, da tanta scarsità , alcuna deduzione sulla loro vicenda esistenziale. Ma anche scarso, e scarsamente signifi Âcativo, a tal fine è il ricordo che di loro ci è rimasto nel mondo dei letterati, sempre propenso, in quei tempi, a riflet Âtere il rispetto e la considerazione concessi agli artisti dai contemporanei: sola testimonianza a tal proposito è il vi Âvace scambio di lettere e sonetti tra due cittadini bolognesi, Angelo Michele Salimbeni e Sebastiano Aldovrandi (A. Ven Âturi, in “Atti e Memorie della Reale Deputazione di Storia patria”, III, vol. III, 1885), i quali, alla morte di Francesco Cossa, ne esaltarono il valore e la capacità pittorica, con parole piene di ammirazione. Il Salimbeni così scriveva all’Aldovrandi: Potremo da le nostre meste rime, dolce Sebastiano, esser coacti de la benigna amicitia che non longo tempo ci tenne Francisco Cossa farne memoria, bene che da più alti ingegni meritarla eterna laude, et, se io credesse che mie parole ad altre orecchie non pervenissero, direi che da un bon tempo in qua non esser stato simil pictore; benché multi in quella arte si trovano digni chi in una parte chi in un altra, et vedessi chi meglio saprà fare una testa che l’altra persona; chi meglio saprà cundursi in far panni che uno nudo; ma custui più universale che io vedesse ma’, et ultra il sapere de l’arte, dava a le sue figure tanta gratia secundo l’offitio loro che l’ochio del ver poco le face differente. So ch’io non parlo il falso, che’l vero manifestano l’opere sue ne la nostra città di Bologna, et l’ultima che è nel nostro domo rimase imperfecta, dove determinato havea tolerare ogni faticha quasi per conclusione dil suo honore; et dove per la parte facta, zoè la volta di sopra de la capella, dove più faticose le cose son pinte cum maestrevoli lontani et scurci.  Alla lettera seguiva il sonetto del Salimbeni: Convien che dal piacere la voglia lenti, L’Aldovrandi contrapponeva il seguente sonetto a quello del Salimbeni: S’el ciel consentì mai ch’un alto ingegno  Dall’ingenuo quanto retorico auspicio del mediocre poeta, e tanto al disopra del suo comune tono encomiastico, la storia della pittura ferrarese, così splendidamente affermata dalla triade quattrocentesca, avrebbe tratto nel secolo se Âguente la feconda realtà di ulteriori sviluppi e di altri degni protagonisti. Letto 973 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. 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