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PITTURA: I MAESTRI: Turner e l’Italia

26 Febbraio 2019

di Evelyn Joll
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1982]

I

[1793-1829]

Nell’estate 1819 sir Thomas Lawrence si trovava a Roma per eseguirvi i ritratti del papa e del cardinal Con ­salvi, commissionatigli dal Principe Reggente. Lawrence, che per molti anni era stato un acceso ammiratore dell’opera di Turner, così scrisse allora a Joseph Farington: “Turner dovrebbe venire a Roma. Qui troverebbe mate ­ria a lui del tutto congeniale […] Egli possiede un’eleganza e spesso una grandezza d’invenzione che richiedono proprio una scena come questa per potersi liberamente spandere […]”. In realtà Turner aveva sperato di visitare Italia fin dal tempo della caduta di Napoleone nel 1815 ne era stato impedito dalla sola urgenza del lavoro. Im ­possibile dire se l’intervento di Lawrence abbia fornito l’incoraggiamento finale, quello cioè che convinse Tur ­ner a imbarcarsi per l’Italia il 1 ° agosto 1819; egli rimase all’estero esattamente sei mesi.

Come ha osservato Kenneth Clark (Landscape into Art, !949) Turner aveva già dipinto l’Italia, come riflessa attraverso gli occhi di Claude Lorrain, per circa vent’anni. E in realtà questi fu l’artista che egli studiò più intensa ­mente, quando, fra il 1800 e il 1819, si dedicò con grande impegno a un profondo esame degli antichi maestri. La familiarità di Turner con lo stile di Claude nel trattare il paesaggio era tale che, sulla via per Roma, annotò su uno schizzo a matita raffigurante una veduta da lontano di Loreto (Da Ancona a Roma, CLXXVII, 6): “II primo fram ­mento di Claude”. Tuttavia, sebbene Turner riconoscesse echi dei dipinti di Claude in molti dei luoghi che visitò, era un elemento del paesaggio italiano, come ha altresì indicato Kenneth Clark, al quale l’artista non era stato affatto preparato dai dipinti del Lorenese, cioè la brillantezza della luce del mezzogiorno. Numerosi dipinti di Claude infatti mostrano la campagna al mattino presto o alla sera, mentre sfuma in lontananza in una delicata nebbia blu azzurra, impregnata sì dalla luce del sole, ma di un sole senza più accesi barbagli. La forza abbagliante, quasi accecante del sole del mezzogiorno italiano colse Turner di sorpresa e, nonostante la sua notevole capacità di osservazione, egli dovette attendere una decina d’anni compiere una seconda visita prima di essere interamene in grado di infondere questa luce nei suoi dipinti.

Nel passato alcuni studiosi di Turner ignorarono di proposito questo spinoso argomento, preferendo considerare la visita dell’artista in Italia nel 1819 come un momento decisivo della sua carriera, quello che, analo ­gamente alla conversione di Saulo sulla via di Damasco, segnò il passaggio dal ‘primo’ Turner al Turner ‘matu ­ro’. Sebbene vi sia un elemento di verità in questa asser ­zione, essa deve essere notevolmente modificata dopo un esame alla luce dei fatti. Quel che è vero è che la reazione di Turner alla luce italiana fu immediatamente visibile nei suoi acquerelli.

Giunto in Italia attraverso il passo del Moncenisio, Turner visitò Torino, Milano, Como, Verona e Venezia dove probabilmente trascorse due settimane. Nel suo al ­bum di schizzi Como e Venezia (CLXXXI) vi sono alcuni ac ­querelli con vedute veneziane in cui è evidente l’impatto con la luce italiana. Per esempio Venezia: guardando verso est dalla Giudecca: aurora rivela un acquerello impostato su toni assai più chiari di quelli usati in precedenza. È altresì vero che egli si era mosso in questa direzione ancor pri ­ma della visita in Italia; in un’opera come Mainz e Kastell. in collezione privata americana e pubblicato da M. Butlin (Turner Watercolours, 1962) vi era già un accenno a questa luminosità, ma nell’acquerello veneziano si ha la netta impressione che l’artista non debba più faticare per raggiungere tale effetto, ma se ne sia assolutamente im ­padronito. Utilizzando il candore della carta, con tocchi fra i più delicati e trasparenti, suggerisce la chiarezza e l’estrema limpidezza della luce del primo mattino. Al ­quanto orientale per l’economia dei mezzi utilizzati, que ­sto acquerello esprime tuttavia perfettamente la freschez ­za del nuovo giorno. La gamma dei colori è ancora rela ­tivamente ristretta, convenientemente al soggetto tratta ­to e non vi è ancora traccia di quelle stravaganze di cui Turner sarà così spesso accusato in futuro. Nondimeno alcuni degli acquerelli del 1819 recano sprazzi di giallo e di rosso, i ‘plus’ colori della teoria di Goethe, cui Turner istintivamente aderì, nonostante la loro completa discor ­danza con la sobria tavolozza della tradizione topografica settecentesca nella quale era stato educato.

In realtà Turner usò con molta parsimonia l’acque ­rello durante il suo primo viaggio in Italia; la sua attività fu tuttavia enorme: riempì instancabilmente quaderni su quaderni di schizzi a matita, registrando tutto ciò che lo interessava â— c’era ben poco che non lo interessasse! â— nella scena romana e nella campagna circostante. Per un colpo di fortuna il Vesuvio cominciò a eruttare verso la fine di ottobre e ‘l’artista si precipitò a Napoli per os ­servare lo spettacolo. Dovette trattarsi di una esperienza davvero curiosa per lui che due anni prima aveva dipinto un acquerello del Vesuvio in eruzione (New Haven, Yale Center for British Art) per Walter Fawkes; ulteriore testi ­monianza, questa, della viva attrazione per l’Italia provata dall’artista prima della sua visita. Una notazione relativa ai suoi metodi di lavoro è contenuta nella lettera del 15 novembre indirizzata a sir John Soane dal figlio e citata da Finberg (1961): “Turner si trova nei dintorni di Napo ­li per tracciare dei veloci schizzi fra l’attonito stupore del bel mondo, che si chiede che uso egli possa farne â— ani ­me semplici! A Roma un giovinastro dilettante del pen ­nello rivolse a Turner ‘vecchio del mestiere’ l’invito ad andare a colorare all’aperto â— costui gli grugnì in rispo ­sta che ciò avrebbe portato via troppo tempo, dal mo ­mento che avrebbe potuto eseguire ben 15 o 16 schizzi a matita nello stesso tempo di uno a colori e se ne tornò a casa borbottando”. Esiste peraltro anche la testimonian ­za dell’artista dilettante R. J. Graves, citata anch’essa da Finberg, in cui si dice che Turner quando aveva occa ­sione di osservare un effetto che intendeva riprodurre sceglieva accuratamente i suoi colori e lavorava rapida ­mente finché non era soddisfatto del risultato.

Non c’è dubbio tuttavia che gli acquerelli più rifiniti di soggetto italiano furono eseguiti al suo ritorno in In ­ghilterra; in essi il frequente impiego del colore a corpo, utilizzato accanto all’acquerello, mira a raggiungere ef ­fetti atmosferici al tempo stesso rarefatti e complessi. Essi furono tutti dipinti per Walter Fawkes, presumibilmente sulla base di studi a matita che aveva visti negli album di schizzi dell’artista e che gli erano piaciuti. È sorprendente però che Turner non abbia ricevuto nessun’altra com ­missione per acquerelli di soggetto italiano da altri suoi estimatori e protettori.

Sebbene la visita del 1819 abbia generato una ricca produzione di disegni e acquerelli, ben diversa è la que ­stione dei dipinti a olio. Parrebbe infatti che di fronte alla tela Turner si sentisse sopraffatto se non addirittura inibito dall’esperienza italiana e i soli risultati della visita furono tre olî di vaste dimensioni esposti nel 1820, nel 1823 e nel 1826. La maggior parte dei critici sono stati portati a considerarli una conferma della mancata acqui ­sizione nella tecnica della pittura a olio di quei progressi che egli aveva raggiunti invece nell’acquerello. C’è del vero in questa affermazione, ma questi tre quadri presen ­tano di fatto alcune differenze rispetto a quelli dipinti im ­mediatamente prima del 1819. Si nota per esempio che l’impatto con il mondo classico, con quel paesaggio con ­sacrato da Claude e da Poussin, lo ha portato all’acquisi ­zione di un modello meno classico. Kenneth Clark in The Romantic Rebellion (1973) scrive: “Questi due dipinti Ro ­ma vista dal Vaticano e Foro romano mostrano l’abbandono, da parte di Turner, di ogni tentativo di composizione classicheggiante. Invece di inserire architettonicamente gli oggetti in una costruzione rettangola ­re, avendo intuito che il nostro campo visivo è ellitti ­co, ha reso tutto quanto è lontano da noi con linee curve, come del resto realmente avviene quando lo sguardo si concentra su un punto. Nella sua veduta di Roma dal Va ­ticano con Raffaello che dipinge, egli ha posto al centro di questo campo visivo circolare la Madonna della sedia di Raffaello e, prendendo spunto dalla forma del colonnato del Bernini, ha fatto ruotare tutto intorno ad esso. Anche il Foro è trattato come un’ellissi e quei ruderi che avevano ispirato tanti pittori da Poussin in poi, fornendo mate ­riale per una salda, classica composizione, sono stati tra ­sformati in un mare agitato. Quasi che Turner avesse scelto questo luogo sacro del classicismo per creare un romantico disordine”. Tuttavia il Foro romano esprime, a dispetto del suo “romantico disordine”, una fortissima impressione di stabilità e solidità.

Elementi compositivi analoghi si possono ritrovare nel Golfo di Baia, esposto nel 1823. Poiché qui il soggetto trattato è un paesaggio e non una veduta cittadi ­na, il complesso sistema di curve e nodi con cui l’artista guida l’occhio dello spettatore attraverso i vari piani sfu ­mati in lontananza, è più immediatamente visibile. Il pri ­mo piano tuttavia è ancora trattato in chiaroscuro e non ancora nella mera contrapposizione di colori che Turner doveva usare più tardi. Pur in tutte le sue bellezze questo dipinto resta ancora frammentario, non è ancora orga ­nizzato in tutto unico. Alcuni elementi del paesaggio e-rano di pura fantasia, come sottolineò George Jones, l’a ­mico di Turner, che più tardi appose sulla cornice l’i ­scrizione “Splendide mendax” (stupendamente falso), proprio per enfatizzare tale concetto. Quando però il di ­pinto fu esposto nella Turner’s Gallery nel 1835, un cri ­tico dello Spectator riconobbe in esso il frutto di una poe ­tica immaginazione, in cui “l’esagerazione dei colori na ­turali” risultava pertanto accettabile.

Questa comparsa di elementi fantastici nei paesaggi turneriani del secondo decennio del secolo fu pronta ­mente commentata dai critici. Mentre alcuni si dimostra ­rono pronti a concordare con il critico dello Spectator concedendo all’artista tale licenza nell’uso dei colori, al ­tri la ricusarono e la loro disapprovazione divenne più marcata quando la visione paesistica di Turner si concen ­trò su un soggetto che era a loro familiare. Se potevano essere disposti ad accettare la fantasiosa visione Golfo di Baia, perché non conoscevano il luogo, la questione fu ben diversa quando si trattò di un porto della Francia del Nord. Quando Turner espose il Porto di Dieppe (New York, Frick Collection) alla Royal Academy nel 1825, Henry Crabb Robinson scrisse: “Turner espone una magnifica veduta di Dieppe. Se è suo intento creare un’atmosfera e un gioco di colori tutto suo, perché non dargli un nome romantico? Nessuno potrebbe aver niente da ridire su un Giardino di Armida o anche di un Eden cosi dipinto. Ma noi conosciamo Dieppe, nel Nord della Francia e non possiamo facilmente rivestirla di simili co ­lori immaginari”. Il colore di Turner, che finì col di ­ventare sempre più eccentrico e irrazionale col passare del tempo, avrebbe fornito un ulteriore ostacolo ai critici nell’approccio alla sua opera. Nel secondo decennio del secolo essi ebbero una particolare avversione per l’uso marcato e sempre più frequente che Turner fece del gial ­lo. Questo fu frequentemente il colore preferito di Tur ­ner (dopo la sua morte nel suo studio ne fu ritrovata una dozzina di diverse varietà) e in verità già prima del 1819 se ne notò il diffuso impiego. Per esempio i due dipinti del Tempio di Giove Panellenio, esposti nel 1816, furono descritti dal critico del Sun come “due ghi ­nee nuove di zecca, giallo splendenti, fastose e di buona lega”, ma fu dopo la visita in Italia che l’uso del giallo venne più frequentemente rimproverato all’artista. Roma vista dal Vaticano fu criticato per la predominanza eccessiva del giallo negli Annals of the Fine Arts, mentre la Literary Gazette a proposito di Foro romano annotò: “Sem ­bra che Turner […] abbia giurato fedeltà al Folletto giallo”. Il pittore di Norfolk E. V. Rippingille riportò da Roma un aneddoto relativo a un venditore al minuto di mostar ­da inglese che si era messo in società con Turner: “Uno vendeva la mostarda e l’altro la dipingeva!”. La Jessica esposta nel 1830 che C. F. Bell ritenne, quasi certa ­mente a torto, esser stata dipinta a Roma nel 1828-29, fu descritta dal Morning Chronicle simile “a una donna appe ­na uscita da un vaso di mostarda”. La predilezione di Turner per il giallo in questo particolare periodo rappre ­senta sicuramente un tentativo di catturare coi colori lo splendore e la brillantezza del sole italiano.

Sebbene, come abbiamo già notato, Turner abbia da ­to forma definitiva e completa ad assai pochi acquerelli a seguito della sua esperienza del 1819, iniziò invece, al suo ritorno in patria, una serie di studi, sempre ad acquerel ­lo, che avrebbero ricoperto un ruolo fondamentale nello sviluppo dei suoi dipinti ad olio delle ultime due decadi della sua carriera. Tali studi, per lo più raggruppati da Finberg, nel suo Inventario del Lascito Turner, col titolo Prove di colore (CCLXIII), sono in tutto circa 400. Assai pochi sono identificabili nel soggetto e datarli con preci ­sione risulta quasi impossibile: bozzetti ad acquerello ri ­coprono un arco di tempo dal 1794 al 1828 ma si ritiene comunemente che la datazione proposta da Finberg fra il 1820-30 sia troppo restrittiva e che un buon numero di essi sia da considerarsi del quarto decennio del secolo, Quasi tutti appaiono eseguiti per scopi personali dell’au ­tore, sebbene alcuni siano in relazione con acquerelli più completi o con degli olî. Per la maggior parte si tratta di esperimenti di colore, spesso applicato a vaste zone in violento contrasto fra loro. Vengono introdotte numero ­se innovazioni tecniche sempre col fermo proposito di fondere luce e colore senza perdere il senso della forma o della profondità. Fu la maestria con cui lavorò ad acque ­rello nelle sue “prove di colore” a consentirgli di appli ­care con scioltezza queste acquisizioni nei suoi olî.

Nella tarda estate del 1828 Turner partì nuovamente per Roma. Vi soggiornò per circa tre mesi, abitando in Piazza Magnanelli 12, nella stessa casa del giovane pittore Charles Eastlake, futuro presidente della Royal Academy e direttore della National Gallery. Le caratteristiche di questa seconda visita furono del tutto differenti dalla pri ­ma: questa volta egli eseguì pochi schizzi a matita, con ­centrandosi invece pienamente sulla pittura ad olio. Do ­po il ritorno di Turner in Inghilterra, Eastlake scrisse nel febbraio 1829 che l’artista aveva lavorato “letteralmente giorno e notte; qui iniziò otto o dieci dipinti e ne fini e e-spose tre â— più di un migliaio di persone andò a vedere le sue opere quando furono esposte e potete ben imma ­ginare quanto furono sorpresi, irritati o deliziati gli esponenti delle diverse scuole artistiche nel vedere queste espressioni di metodi così nuovi, invenzioni tanto auda ­ci, cose così inequivocabilmente eccellenti”. I tre dipinti esposti erano Orvieto, Regolo e la Visione di Medea.

Appare appropriata la descrizione che ne fece Joseph Severn: “Questi dipinti di Turner erano come le opere di un poe ­ta che avesse preso interesse per il pennello”.

Un aspetto imbarazzante dell’attività romana dell’ar ­tista riguarda Palestrina che egli era reticente ad ammettere di aver dipinto con amore per Lord Egremont come pendant del dipinto di Claude Lorrain Giacobbe con Labano e le sue figlie che era in suo possesso. Pare probabi ­le che Turner decidesse di dipingere Palestrina in segno di soddisfazione per la rinnovata amicizia con Lord Egre ­mont, ristabilitasi nel 1827 dopo un intervallo di ben 13 anni, ma è quasi altrettanto probabile che Egremont avrebbe voluto conoscere e approvare la sua impresa. Per ­ché altrimenti non accolse Palestrina nella sua collezione a Petworth? Non può esser stato a causa delle dimensioni perché la casa disponeva di spazio quasi illimitato e seb ­bene sia evidente che Egremont non approvava interamente le modificazioni intervenute nel ­lo stile di Turner dal suo ultimo acquisto di una sua opera intorno al 1813, è anche evidente che l’artista era disposto a modificare il suo lavoro pur di compiacere il suo protettore. Forse la ragione sta nella differenza fra Palestrina e l’opera di Claude, differenza che Egremont deve aver giudicato tanto rilevante da rendere inaccettabile il collocarli come pendants. Forse egli provò nei confronti di Palestrina gli stessi sentimenti di quel critico dello Spectator che, recensendo il Regolo al tempo dell’e ­sposizione del 1837 scrisse: “Turner è esattamente il con ­trario di Claude; invece della quiete della bellezza â— la tenera serenità e la calda luminosità di una scena italia ­na, qui tutto è troppo vivo, turbolento e inquieto”, per quanto a onor del vero bisogna aggiungere che Turner ha rielaborato notevolmente il Regolo prima di esporlo alla British Institution.

Il secondo soggiorno romano condusse a un altro importante risultato: una serie di schizzi a olio, alcuni dei quali, se non tutti, dipinti su due grandi tele poi ritagliate ‘come avvenne per gli schizzi di Cowes), che paiono esse ­re approssimativamente l’equivalente a olio delle “prove di colore” a acquerello. Si tratta per la maggior parte di soggetti non identificati, ma il gruppo include uno schiz ­zo per Ulisse che schernisce Polifemo, la cui versio ­ne finita doveva apparire alla Royal Academy nel 1829. Questi schizzi romani sono dipinti a grandi zone di colo ­re dai toni fortemente contrastati e con stacchi netti, seb ­bene la tonalità dominante sia relativamente cupa. Del resto Turner trattò magistralmente sia i colori tenui che quelli brillanti, come dovette riconoscere Ruskin. Gli schizzi a olio romani mostrano un Turner ancora alla ri ­cerca di una sua strada ma si indovina che essi preannun ­ciano qualcosa di grande che non può essere lontano.

Quando l’artista lasciò Roma nel gennaio 1829, così scri ­bacchiò su uno dei suoi album di schizzi (CCXXX-VII):

“Addio ancora una volta al paese d’ogni felicità che la libertà sognata può desiderare e sperare…”.

A quel tempo egli intendeva veramente tornare a Ro ­ma l’inverno successivo e vi prese persine l’appartamen ­to. Tuttavia diversi fattori ostacolarono il suo ritorno, primo fra tutti la morte di suo padre avvenuta nell’au ­tunno del 1829. Una ragione più prosaica può aver inciso negativamente e cioè la gran seccatura provata da Turner per i lunghi ritardi che i suoi dipinti subirono una volta spediti da Roma, per cui arrivarono troppo tardi per l’e ­sposizione alla Royal Academy del 1829; Orvieto e Palestrina vennero esposti nel 1830 e la Visione di Medea nel 1831. Un’ulteriore ragione, che io espongo in via estre ­mamente ipotetica, può esser stato che Turner, una volta dipinto Ulisse schernisce Polifemo (Londra, National Gallery), di fronte alla straordinaria libertà di colore del dipinto (il contrasto con il colore dello schizzo risulta as ­sai marcato) abbia avuto la chiara sensazione di avere assorbito luce e calore mediterranei abbastanza profon ­damente, da non rendere necessaria, almeno per il mo ­mento, un’ulteriore visita in Italia. Ciò di cui abbisogna ­va ora Turner era un’opportunità di sviluppare ulterior ­mente i progressi visibili in Ulisse schernisce Polifemo.

Quest’opera fu considerata da Ruskin, e a buon dirit ­to, “il dipinto centrale” dell’evoluzione turneriana. Esso dimostra davvero che egli aveva finalmente raggiunto l’a ­pice delle sue forze, con una completa espressione della gamma cromatica creando un ciclo superato forse solo da quello di La nave negriera. Il tema del piccolo mortale che sfida e batte un gigante è naturalmente uno di quei temi particolarmente congeniali all’artista che co ­sì spesso rappresentò il genere umano nell’atto di misu ­rare le sue forze contro quelle della Natura. John Gage ha avanzato la plausibile ipotesi che il colore esagerato di Ulisse, specialmente nel cielo, può essere dovuto allo studio condotto dall’artista sulla pittura del Trecento e Quattrocento italiano durante la sua seconda visita in Italia. In particolare Gage cita le annotazioni dell’artista in uno dei suoi album di schizzi (CCXXXVII) sugli affre ­schi del Camposanto di Pisa, e Turner dovette aver avuto molteplici altre occasioni di vedere opere analoghe a Ro ­ma. A giudicare dall’abilità di Turner di estrarre dall’o ­pera di altri pittori, sia del passato che contemporanei, tutto ciò che avesse rilievo per la sua personale evoluzio ­ne, è assai probabile che egli abbia cercato di trarre il massimo profitto da simile opportunità. Gage suggerisce anche che Turner era interessato agli esperimenti di pae ­saggi a tempera, dipinti in colori smorti, simili al pa ­stello, dall’artista tedesco J. C. Reinhart per il marchese Massimi; noi possediamo al proposito la testimonianza di Eastlake che la tempera giocò un ruolo determinante in parte della produzione romana dell’artista.

Non ci deve meravigliare che la brillantezza dei colori dell’Ulisse fosse risultata eccessiva per alcuni critici, anche se altri hanno concordato nel dire che erano giustificati dall’estro poetico dell’artista. Tra i primi, il Morning Herald considerò che nell’Ulisse il colore di Turner aveva “raggiunto la perfezione nell’artificiosità più appariscen ­te, tale da poter essere un esempio di follia coloristica…”.

Se realmente Turner aveva affrontato con una cer ­ta riluttanza i soggetti italiani nell’intervallo fra le sue due visite a Roma, cambiò completamente atteggiamen ­to, come abbiamo visto, durante la sua seconda visita. E questo suo interesse non fu concluso dal ritorno in In ­ghilterra, ma continuò per il resto della sua attività. Nel corso del terzo decennio dell’Ottocento gran parte delle sue opere esposte rappresentava soggetti italiani; a questi si aggiunsero nel quarto decennio i soggetti veneziani (in piccola parte già comparsi verso il 1830), che alla prova dei fatti risultarono i più popolari e facilmente commer ­ciabili fra tutte le sue opere più tarde. Turner visitò nuo ­vamente Venezia nel 1833 e nel 1840; entrambi i sog ­giorni furono molto brevi ma gli fornirono materiale per alcuni dei suoi più magici dipinti, anche ad acquerello, e questa città gli divenne emotivamente molto importan ­te. Già nel lontano 1816 Hazlitt aveva rimproverato ai dipinti di Turner “un’eccessiva astrazione di prospettiva aerea, una rappresentazione non tanto degli elementi na ­turali quanto del mezzo attraverso il quale essi sono vi ­sti”. Tale critica appare più giustamente applicabile ad alcuni soggetti veneziani eseguiti nel quarto decennio; essi invero sfiorano l’astrazione per il modo in cui vengo ­no dipinti gli edifici che si levano come spettri dalle lagu ­ne luccicanti in una nebbia di luce opalescente; e li salva proprio dall’incoerenza questa luce onnicomprensiva e un pregnante senso della struttura che sostiene perfino le opere più sfumate e diafane dell’artista.

Accanto alle opere di soggetto italiano che furono esposte, esistono anche delle tele nel Lascito Turner, che derivano dal materiale raccolto in uno degli inverni tra ­scorsi a Roma. La connessione è spesso tenue, perché do ­po il 1830 e, il soggetto in tali dipinti facilmente sfugge ad una precisa identificazione, perché la fantasiosa crea ­tività dell’artista è determinante per il loro aspetto finale. Esse sono state acutamente definite da Lawrence Gowing “immagini create dal colore quasi di sua spontanea vo ­lontà” e in realtà esse sembrano essere il frutto di una spontanea magia, che solo Turner sembrava possedere. Sebbene lui stesso scrivesse: “Ho sempre posseduto un solo segreto, quello di lavorare duramente”.

Tentando un’analisi definitiva ci domandiamo quan ­ta parte abbia avuto l’esperienza della luce e del paesag ­gio italiano nello stile maturo dell’artista. Ma non è facile rispondere perché lo stile di Turner non fini mai di evol ­versi ed è perciò assurdo pretendere di stabilire con preci ­sione quando si sia verificato un certo cambiamento.

Risulta tuttavia evidente che i soggiorni italiani han ­no rivestito un’importanza fondamentale nell’evoluzio ­ne di Turner, sebbene non tutto ciò che si ricollega al ­l’impatto dell’artista con l’Italia possa essere convalida ­to: così non pare convincente per esempio la supposi ­zione che sia riferibile alla grandiosità delle proporzioni trovata a Roma l’ampiezza di respiro della sua opera, no ­nostante il clima artistico inglese del secondo quarto del ­l’Ottocento favorisse al contrario gli ideali del minuto, del particolare. Infatti alcune delle opere turneriane di impostazione più grandiosa precedono la visita del 1819, mentre uno dei risultati raggiunti dopo il 1830 fu l’abili ­tà â— ottenuta probabilmente grazie agli schizzi â— di sugge ­rire soprattutto negli acquerelli spazi infiniti in pochi centimetri di carta.

Forse la miglior analisi del cambiamento prodottosi nell’arte di Turner dopo il 1819 si trova in Turner: Imagination and Reality di Lawrence Gowing (1966): “La vec ­chia gerarchia venne rovesciata: il colore assunse la pre ­cedenza. Esisteva per primo, fornendo il substrato fantastico dal quale poteva scaturire la somiglianza con gli oggetti esterni”. Certamente ora Turner cominciò a stu ­diare e analizzare nuovamente il colore e la riflessione della luce, rivedendo le sue letture sulla prospettiva per dar loro rilievo. Questo lavoro lo vide spingersi sempre più verso il colore puro perché, già agli inizi della sua carriera, aveva appreso da Fuseli che “un colore ha mag ­gior forza della combinazione di due colori” e che “una mescolanza di tre impedisce ancor più che quella forza emerga”, al che Turner stesso aggiunse: “e al di là di ciò monotonia, discordanza, fango”. Nei suoi dipinti del terzo e quarto decennio del secolo queste zone di colore puro furono spesso disposte sulla tela con assai poco ri ­spetto per le forme del disegno. Ed è proprio da questo che traggono l’elemento fantastico o come afferma La ­wrence “una forza di invenzione”, che li rende così at ­traenti oggi.

Infine, sebbene Turner continuasse a evolversi in un modo sempre più anticlassico, nella sua arte rimase pur sempre una tensione che continuava a riflettere la sua ammirazione per Claude. Come un artista che fosse la quintessenza del Romanticismo, Turner si ispirò per molti dei suoi soggetti a tempeste, naufragi, fuoco e dilu ­vio, trascinato com’era dal suo temperamento pessimisti ­co verso simili immagini disastrose; d’altra parte la sua sensibilità per gli aspetti tranquilli della natura non lo abbandonò mai completamente e ciò traspare in tele di radiosa bellezza come Il Ponte delle Torri a Spoleto o Norham Castle: alba. Sembra plausibile che i due lunghi soggiorni italiani dell’artista, durante i quali per parecchi mesi si trovò circondato dai paesaggi e dalla luce che avevano permeato di tanta serenità i dipinti di Claude abbiano rinforzato la fede di Turner in questo aspetto più idillico della natura.

Lawrence aveva veramente ragione quando presagì che Roma avrebbe fornito al genio di Turner l’opportunità di cui necessitava per “la sua libera espansione”.

II

[1830-1851]

Turner e i suoi protettori
di Evelyn Joll
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1982]

Turner nacque povero e morì ricco. La sua fortuna gli venne quasi interamente dalla vendita dei suoi lavori e, durante la sua lunga carriera, non ci furono mai mo ­menti in cui vennero a mancargli dei protettori. Sebbene la sua opera fosse oggetto di continue critiche, che au ­mentarono col tempo, ci furono sempre clienti pronti a rimangiarsi il proprio giudizio, e la relazione fra Turner e i suoi protettori getta una luce abbastanza interessante sulla storia del collezionismo in Inghilterra fra il 1795 e il 1850. Poiché questo volume si occupa della produzione cella seconda parte della carriera dell’artista, dal 1830 al 1851, si porrà l’accento sugli ultimi mecenati dell’artista, ma è necessario, ovviamente, fornire qualche indicazione sui protettori di Turner prima del 1830. Infatti il periodo 1828-29 annuncia non solo un mutamento nello stile del ­l’artista, ma anche un nuovo genere di mecenati della sua opera, come vedremo in seguito.

Turner espose i suoi primi acquarelli alla Royal Academy nel 1790, a soli quindici anni, e in brevissimo tem ­po ricevette numerose commissioni per i suoi disegni. In realtà, nell’ottobre 1798, il diarista Joseph Farington an ­notò che “Egli [Turner] ha più commissioni di quante riesca a soddisfare e più danaro di quanto possa spende ­re”. In quest’epoca egli stava lavorando, fra gli altri, per il terzo conte di Essex, Sir Richard Colt Hoare e per Ed ­ward Lascelles, primo conte di Harewood. L’anno suc ­cessivo fu eletto membro associato della Royal Academy, e nel 1800 espose alla Royal Academy cinque acquerelli di Fonthill, eseguiti per William Beckford, il suo eccentri ­co ma ricchissimo proprietario.

Nel 1801 Turner espose Barche olandesi durante una burrasca: pescatori che cercano di tirare a bordo  il pesce commissionatogli dal duca di Bridgewater, perché costi ­tuisse pendant dell’Inizio di burrasca di Willem van de Velde nella sua collezione. Che un collezionista così aristocratico e importante dovesse scegliere un pittore così relativamente giovane (Turner aveva esposto dipinti ad olio per soli cinque anni) costituiva per l’artista un ecce ­zionale fiore all’occhiello. Inoltre la Marina Bridgewater, come venne denominata in seguito, era stato il dipinto più rilevante dell’esposizione del 1801, quello che aveva Ottenuto gli elogi tanto della critica che dei conoscitori. Fuseli e Benjamin West, il presidente della Royal Academy, proposero entrambi il paragone con Rembrandt e l’ultimo si spinse fino a dire che “era ciò che Rembrandt aveva pensato di fare e non aveva potuto fare”. Il succes ­so di questo dipinto fu senz’altro utile a Turner per essere eletto membro effettivo della Royal Academy nel 1802. non appena raggiunta l’età necessaria.

Turner ricevette in pagamento per il dipinto 250 ghi ­nee e in seguito tentò inutilmente di ottenere ulteriori 20 ghinee per la cornice. Era consuetudine a quei tempi che il prezzo della cornice fosse pagato a parte, ma i colleghi di Turner lo giudicarono assai imprudente perché aveva cercato di sollecitare il pagamento di un protettore tanto importante. Il duca morì due anni dopo, ma da un al ­bum di schizzi di Turner risulta che probabilmente egli a-veva avuto l’intenzione di commissionargli un acquerello di Kilgaran Castle, per cui l’insistenza di Turner a propo ­sito della cornice non doveva costargli, almeno in appa ­renza, la perdita di un protettore.

La Marina Bridgewater fu importante anche per un’al ­tra ragione, perché mostrò che il duca aveva riconosciu ­to l’affinità fra l’opera di Turner e quella degli antichi maestri. Turner ebbe una straordinaria abilità nel trarre spunti dall’arte degli antichi maestri e nel farli propri; i risultati di quest’operazione non erano delle sbiadite imitazioni, ma opere di considerevole originalità che. nonostante tutto, conservano tracce facilmente ricono ­scibili dell’antico maestro cui si ispiravano. I pittori che influenzarono maggiormente Turner furono Tiziano, Rembrandt, Jacob Ruisdael, Cuyp, Willem van de Velde, Nicolas Poussin e, soprattutto, Claude Lorrain.

Questa caratteristica da “antico maestro” nell’ope ­ra di Turner venne immediatamente ravvisata dai critici contemporanei, che alludono sempre alla sua opera in termini di antichi maestri, talora in senso positivo e ta-lora in senso dispregiativo. Ma, ciò nonostante, questo elemento dell’arte turneriana è stato finora sottovalutato come fattore determinante ai fini delle commissioni. Al ­tri collezionisti, come il noto intenditore Richard Payne Knight, seguirono l’esempio del duca di Bridgewater com ­missionando a Turner il pendant di un’opera di un antico maestro presente nella loro collezione. Appare chiaro per ­ciò che fu questa caratteristica della sua arte ad attrarre i me ­cenati del tipo più tradizionale verso la sua opera. Infatti tracce dell’influenza degli altri artisti si possono ravvisare nell’opera di Turner quasi fino alla fine della sua vita, di ­ventando ovviamente sempre meno evidenti ed è perciò nella prima parte della sua carriera che quest’aspetto è più rilevante.

Sebbene la carriera di Turner sembrasse avviata sulla via del successo, sui suoi dipinti alla Royal Academy co ­minciarono ad appuntarsi moltissime critiche, soprattut ­to da parte dell’influente esperto Sir George Beaumont. Turner decise perciò di aprire una sua galleria in Harley Street e, dal 1804 in poi, espose le sue opere in questa se ­de. Sembrò che alcuni protettori preferissero acquistare direttamente alla galleria dell’artista; fra questi Lord Egremont che acquistò quattro dipinti nella sola esposi ­zione del 1808. Un altro acquirente fu Sir John Leicester, che commissionò a Turner due dipinti raffiguranti la sua dimora nel Cheshire, Tabley Hall, esposti alla Royal Academy nel 1809. Il successo di questi due dipinti diede l’avvio a ulteriori commissioni di vedute di abitazioni dei protettori dell’artista: da Lord Egremont e Lord Lonsdale (1810), da John Fuller M.P. (1810-1815), dal conte di Darlington (1818) e da William Moffatt e John Nash nel secondo decennio dell’Ottocento.

Naturalmente Turner, in questi house portraits, creò qualcosa di assai diverso dalle descrizioni alquanto scial ­be e topograficamente particolareggiate di moda nel XVIII secolo, ma il risultato parve incontrare l’approva ­zione dei suoi protettori. E, in alcuni casi, Turner trattò ancora più liberamente questo soggetto nell’acquerello, come dimostra la splendida serie di Farnley Hall e dei suoi giardini. Farnley, presso Leeds nello Yorkshire, era l’abitazione di Walter Fawkes, il più ragguardevole pro ­tettore di Turner e suo intimo amico. A Farnley, durante le sue regolari visite fra il 1809 e il 1824, Turner veniva trattato quasi come un membro della famiglia e si sentiva molto a suo agio, sebbene fosse quasi altrettanto ben ac ­cetto a Petworth, la dimora di Lord Egremont, negli anni del terzo decennio del secolo.

Ci si potrebbe quindi aspettare che maggiori deluci ­dazioni sui rapporti fra Turner e questi suoi due protet ­tori potessero emergere dalla loro corrispondenza. Ma, purtroppo, tutte le lettere indirizzate dall’artista a Fawkes furono distrutte dopo la morte di quest’ultimo e, della corrispondenza di Turner con Lord Egremont non rima ­ne praticamente nulla. La Raccolta della corrispondenza di J.M.W. Turner, pubblicata nel 1980, curata con grande competenza da John Gage, evidenzia appunto quanto scarse siano le testimonianze rimasteci dei rapporti fra Turner e i suoi protettori durante la sua carriera e soprat ­tutto ai suoi inizi. Questa perdita è particolarmente grave nel caso di Fawkes, data la genuinità e il calore della sua amicizia con Turner, deducibile dalla dedica all’artista sul suo catalogo del 1819. Fawkes scrisse che non avrebbe mai potuto guardare il catalogo “senza sentire intensa ­mente il piacere che durante la maggior parte della mia vita mi hanno procurato la pratica del vostro talento e il piacere della vostra compagnia”. Questo catalogo fa rife ­rimento all’esposizione degli acquerelli della Collezione Fawkes nella casa londinese di Grosvenor Square 45, che includeva più di sessanta opere di Turner.

Un mese prima Sir John Leicester aveva aperto al pubblico la sua bella galleria in Hill Street, appena com ­pletata. In essa Turner era rappresentato da otto di ­pinti, più che per qualsiasi altro artista vivente. Queste due esposizioni, e in particolare quella di Hill Street, che divenne un avvenimento annuale, contribuirono assai a far conoscere al pubblico l’opera di Turner, sia ad olio che ad acquerello, e a testimoniare chiaramente di quali protezioni egli godesse.

Nel 1827 Sir John Leicester (che era stato nominato Lord de Tabley l’anno precedente) morì e i dipinti della sua collezione furono subito venduti all’asta, in luglio. Turner presenziò alla vendita e riacquistò due di questi dipinti Sole nascente nella foschia e Un maniscalco di campagna che discute il prezzo del ferro a un prezzo su ­periore a quello pagato a suo tempo da Sir John. Sembra possibile che questa pubblica affermazione di fiducia nei propri dipinti da parte di Turner non dovette sfuggire all’attenzione di potenziali collezionisti. Turner aveva fama di essere molto attento al suo danaro; se egli era disposto a spenderlo per riacquistare i suoi stessi dipinti, i colle ­zionisti non avrebbero cercato di acquistare anche loro la sua opera?

Walter Fawkes era morto due anni prima di Lord de Tabley e, sebbene Lord Egremont ospitasse spesso Tur ­ner a Petworth durante il terzo decennio del secolo, ac ­quistò un solo dipinto, Jessica, dopo il 1830. Inoltre appare chiaro dalle versioni definitive dei quattro dipinti eseguiti da Turner per la sala da pranzo di Pet ­worth nel 1827-28 che a Egremont non do ­vette affatto piacere il mutamento stilistico in atto alla fine del secondo decennio del secolo. Pare impossibile che abbia apprezzato Ulisse schernisce Polifemo, esposto nel 1829, che Ruskin considerò “l’opera centrale” della carriera di Turner. Qui, pressoché per la prima vol ­ta, il colore è libero da ogni costrizione e c’è ben poco che possa richiamare alla mente uno degli antichi mae ­stri. Ora che gli abituali protettori di Turner sono per lo più morti o hanno smesso di collezionare la sua opera, la sua pittura, dopo Ulisse, risulterebbe dunque troppo avanzata, tanto per i critici che per gli acquirenti?

Le guerre napoleoniche non solo avevano ridotto la possibilità di recarsi sul continente, ma avevano anche limitato l’importazione di dipinti dall’Europa in Gran Bretagna. Ma, dopo la guerra, gli antichi maestri comin ­ciarono ancora una volta a invadere la Gran Bretagna, e una buona parte di essi erano dei falsi. Numerosi nuovi collezionisti rimasero scottati dall’acquisto di questi falsi e da allora si risolsero a collezionare opere di pittori in ­glesi contemporanei. Questa tendenza era stata incoraggiata ancor prima del 1815 con la fondazione, nel 1805, della British Institution e di due associazioni di pittori acquerellisti. Seguì, nel 1824, la fondazione della Society of British Artists e, in provincia, sia la Liverpool Academy che la Royal Manchester Institution tennero delle mostre di pittura moderna a cominciare dal secondo decen ­nio del secolo. Il terzo decennio vide diffondersi l’uso, in molte delle maggiori città, delle Art Unions; si trattava di lotterie i cui vincitori collezionavano premi sotto forma di dipinti delle esposizioni di arte contemporanea di quel momento.

Tutte queste iniziative incoraggiarono e favorirono i collezionisti, molti dei quali erano industriali o commer ­cianti che vivevano nel Centro o nel Nord dell’Inghilter ­ra. Non c’è dubbio che queste persone si sentissero su un terreno più sicuro con la pittura moderna che non pre ­sentava problemi di attribuzione.

Come reagirono questi nuovi collezionisti di fronte all’opera di Turner? All’inizio del quarto decennio, Thackeray, scrivendo su Fraser’s Magazine, notò l’entusia ­smo della nuova classe media per i dipinti giovanili dell’artista, ma chi acquistò le sue opere del terzo e quarto decennio? Naturalmente non è possibile farne una lista completa in uno studio di questo genere, ma ricordia ­mo che i più importanti o interessanti furono John Sheepshanks, Robert Vernon, H.A.J. Munro of Novar, John Naylor, Elhanan Bicknell, Godfrey Windus, Joseph Gìllott e i Ruskin, padre e figlio.

Sheepshanks (1787-1863) era un ricco fabbricante di tessuti a Leeds. Egli possedeva cinque dipinti ad olio di Turner due dei quali acquistati all’asta dei dipinti dell’architetto John Nash nel 1835, e tre commissionati da lui stesso. In realtà egli non era un ve ­ro collezionista d’avanguardia e, tranne Un battello di salvataggio con il dispositivo Mamby, le sue appaiono alquanto convenzionali nel contesto delle altre opere del ­l’artista di questo periodo.

Robert Vernon accumulò una vasta fortuna come ap ­paltatore del rifornimento di cavalli per le armate britanniche durante le guerre napoleoniche. Egli acquistò secondo il suo gusto personale anziché affidarsi a dei mercanti ed anche lui non si dimostrò particolarmente audace nella scelta delle opere di Turner. È importante soprattutto per aver fatto dono di queste opere (escluso Pescatrici napoletane sorprese al bagno dal chiaro di luna che eliminò nel 1842) alla National Gallery nel 1847, insieme al resto della sua col ­lezione. Venezia dalla gradinata dell’albergo Europa fu messo in mostra come prova della donazione di Vernon, e fu la prima opera di Turner ad essere esposta alla National Gallery. Così Turner, alla fine della sua vita, acquisì qua ­si lo status di un antico maestro, riconoscimento che po ­trebbe aver ulteriormente incoraggiato i collezionisti ad acquistare le sue opere.

H.A.J. Munro of Novar, proveniente da un’aristo ­cratica famiglia scozzese, collezionò opere di antichi maestri e fu al tempo stesso il più consistente acquirente dei dipinti di Turner dal 1830 in poi. Sembra che egli sia stato una persona alquanto schiva, ma a Turner era evidentemente simpatico e, contrariamente alle sue abitudini, fece con lui un giro in Val d’Aosta, nel 1836. per eseguirvi degli schizzi. E, cosa ancor più eccezionale, Tur ­ner donò a Munro uno dei suoi album di schizzi. Un episodio imbarazzante del mecenatismo di Munro nei confronti di Turner riguarda l’acquisto di Venere e Adone all’asta nel 1830. Munro affermò, prima della ven ­dita, che per quella data egli aveva acquistato quasi tutti i dipinti dell’artista battuti all’asta. Però in realtà pochissi ­mi dipinti di Turner erano stati venduti all’incanto prima del 1830, a parte quelli dell’asta de Tabley del 1827, dove peraltro Munro non aveva acquistato nulla. Qualsiasi sia la spiegazione, Munro acquistò certamente una larga parte dei dipinti venduti alle esposizioni della Royal Aca ­demy fra il 1835 e il 1844. Si assunse anche le spese del viaggio di Turner a Venezia nel 1833 e volle che l’artista dipingesse per lui un acquerello di quella città. Invece Turner eseguì quell’olio di Venezia dal portico della Madon ­na della Salute che Munro non apprezzò molto. Stando a quanto afferma Thornbury, Turner, mortifica ­to dalla delusione di Munro “inizialmente rifiutò di ven ­dergli il dipinto, ma alla fine acconsentì”.

Un industriale del Nord dell’Inghilterra che protesse Turner fu Henry McConnell, proprietario di un cotoni ­ficio a Manchester. Egli commissionò all’artista una cop ­pia di dipinti: Venezia (esposto alla Royal Aca ­demy nel 1834) e Trasportatori di carbone su chiatte che scaricano il carbone di notte (esposto nel 1835). Non ci so ­no noti i particolari precisi di questa commissione, ma McConnell dichiarò in una lettera a John Naylor, scritta nel 1861, che i dipinti furono eseguiti “su mio espresso suggerimento”.

I dipinti presentano un netto contrasto fra lo splen ­dente scintillio di Venezia e l’atmosfera oscura e tene ­brosa del Tyneside. Ma con questo si intendeva proba ­bilmente esprimere un’idea profondamente radicata in molti britannici, Turner incluso, come ha fatto notare Gerard Finley, secondo cui Venezia era intesa come un simbolo di perduta libertà.

Nel 1849 McConnell andò in America per alcuni anni e vendette questi due dipinti a John Naylor di Liverpool. Al suo ritorno, nel 1861, cercò di ricomprarli, ma Naylor non volle cederli, per cui McConnell acquistò altri lavori di Turner fra cui Rocce e luci azzurre, preceden ­temente appartenuto a Naylor, e Venezia: il Camposanto.

John Naylor (1813-1889) non era né un aristocrati ­co né un uomo d’affari fattosi da solo. Ereditato un note ­vole patrimonio quand’era ancora giovane, dopo il suo matrimonio nel 1846 cominciò a collezionare in grande stile opere per lo più moderne, spendendo, fra il 1848 e il 1860, 60.000 sterline, 11.000 delle quali in opere di Turner. Alcuni acquisti di Naylor furono fatti dopo la morte di Tur ­ner, alle aste del decennio 1850-1860, dove acquistò, per esempio, due splendide scene portuali di vaste dimensio ­ni, attualmente nella Frick Collection di New York: Dieppe e Colonia. Naylor ebbe fama di essere un collezionista prudente, che acquistava di rado diretta ­mente dallo studio dell’artista per cui risulta particolar ­mente interessante il fatto che egli abbia comprato due grandi marine direttamente da Turner, negli ultimi anni della sua vita: Barche da pesca al largo di Calais e Barche da pesca olandesi. Pagò 1,267 sterline per ciascun dipinto, un prezzo che fu presumibilmente fissa ­to da Turner stesso e che rappresenta una delle poche documentazioni in nostro possesso sui compensi richiesti dall’artista negli ultimi anni della sua vita. A giudicare dai prezzi raggiunti dalla coppia della Frick Collection tre anni dopo, nel maggio 1854 (Dieppe 1,942 e Colonia 2.100 sterline), sembrerebbe che Turner avesse definito i prezzi per Naylor in maniera assai corretta.

Studiando la storia di alcuni dipinti di Turner c’è da restare sconcertati dal numero di volte in cui uno stes ­so dipinto cambiò di proprietà nel giro di pochi anni, fi ­nendo anche talora di nuovo presso l’acquirente iniziale. Nessuno compare in questo carosello più frequentemen ­te di Joseph Gillott. Gillott, che aveva accumulato una grande fortuna fabbricando pennini d’acciaio, era un collezionista su vasta scala e, per la frequenza con cui vendeva o scambiava i suoi dipinti, potrebbe quasi essere considerato un mercante. Si deve tenere presente, del re ­sto, che a quei tempi i collezionisti sostituivano i loro dipinti assai più spesso di quanto non si usi fare oggi. Si ritiene, per esempio, che nel 1844 Gillott abbia acquista ­to otto dipinti di Turner per 8 sterline e che più tardi ne abbia venduti sei al prezzo cui aveva pagato gli otto, te ­nendo per sé due opere: Il castello di Rosenau e Spiaggia di Calais. Tuttavia pare che abbia vendu ­to La spiaggia di Calais nel dicembre 1846 e l’abbia riac ­quistata nel febbraio 1849 in uno scambio che implicava opere di William Etty e T. S. Cooper e intanto i dipinti di Turner erano appartenuti, nel breve intervallo di poco più di due anni, ancora a un altro collezionista. Forse Turner non si preoccupò di tutti questi maneggi di Gil ­lott che, comunque, sembra esser stato un individuo dal carattere piuttosto fragile e violento. Sebbene Gillott non abbia iniziato a collezionare opere di Turner fino al quarto decennio, non bisogna pensare che egli abbia li ­mitato i suoi acquisti ai lavori dell’ultimo periodo tanto che, alla vendita della sua collezione nel 1872, i cui prezzi furono altissimi, comparvero alcuni importanti dipinti giovanili.

Un tenace acquirente delle opere di Turner fu Elhanan Bicknell, un imprenditore di caccia alla balena, che viveva a Herne Hill. Egli iniziò a collezionare dipinti nel 1838, forse incoraggiato dal genero David Roberts, gran ­de ammiratore dell’opera di Turner. Bicknell iniziò la sua collezione di opere di Turner acquistando due vedute veneziane esposte alla Royal Academy nel 1841 e nel 1842. Quindi, nel marzo 1844, acquistò Palestrina, presumibilmente per 1.000 ghinee, e Turner aveva senz’altro scritto a Griffith: “Spalancherò la mia bocca piuttosto che separarmene”. Nello stesso periodo Bicknell acquistò in blocco sei dipinti diretta ­mente dallo studio di Turner. Non si sa esattamente di quali dipinti si trattasse, ma è probabile che opere giova ­nili come il Calder Bridge e Ivybridge si tro ­vassero insieme a dipinti del terzo decennio. Pare assai probabile che Bicknell fosse incoraggiato ad attuare que ­sto consistente acquisto dalla pubblicazione del primo volume di Modem Painters di Ruskin nel 1843, e questo stesso fatto potrebbe essere stato anche un elemento de ­terminante del grande acquisto fatto da Gillott di cui ab ­biamo appena parlato. Quel che è certo è che l’acquisto di Bicknell venne ricordato con piacere da Ruskin, che potrebbe essersi sentito giustificato nel reclamare per sé una parte del merito di quest’operazione; sebbene Ken ­neth Clark in Ruskin Today affermi che l’influenza di Ru ­skin si fece sentire consistentemente solo a partire dal 1860, nel caso di Turner questi acquisti sembrano prova ­re che tale datazione andrebbe anticipata.

Fu quasi certamente Bicknell a suscitare l’interesse di Turner per la caccia alla balena e a spingerlo ad esporre quattro dipinti di scene di caccia alla balena nel 1845 e 1846. Di queste solo Baleniere fu venduta e in realtà potrebbe esser stata commissionata dallo stesso Bicknell, ancorché egli si sia lagnato con Turner nel con ­statare che il cielo era stato dipinto ad acquerello. Alla fine Turner, sebbene a malincuore, accettò di modificare il dipinto, ma l’incidente raffreddò i rapporti fra protet ­tore e artista. Fortunatamente questa rottura durò poco, anche se alla fine Bicknell non prese Baleniere.

I Ruskin, padre e figlio, devono essere considerati en ­trambi protettori di Turner, perché John Ruskin aveva solo diciassette anni quando, nel 1836, scrisse in difesa di Giulietta e la balia, e fu costretto per parecchi anni a far ricorso al padre per pagare i conti relativi agli ac ­quisti di dipinti di Turner. Questi acquisti erano per la maggior parte limitati ad acquerelli, ma includevano due dipinti ad olio, La nave negriera, che Ruskin senior regalò a suo figlio come dono di Capodanno nel 1844, e Il Canal Grande a Venezia, acquistato nel 1847. John James Ruskin era per natura un acquirente oculato, ma rispose complessivamente con generosità all’entusia ­smo del figlio, anche se perse delle occasioni nell’acqui ­sto di opere di Turner. Quando l’artista morì, John Ru ­skin si trovava a Venezia e sembra che ignorasse le clau ­sole del testamento dell’artista. Bombardò immediata ­mente il padre di consigli, incalzandolo perché acqui ­stasse quanti più dipinti di Turner poteva. “Comprane un mucchio e compra a buon prezzo” è il motivo ricor ­rente in queste lettere. Un’interessante informazione su Turner ci è fornita da un resoconto di una sua cena coi Ruskin a Denmark Hill, dove era “seduto proprio di fronte a uno dei suoi capolavori”, ma non gli lanciò mai un solo sguardo.

Questa stessa caratteristica di Turner fu notata da Godfrey Windus, un costruttore di carrozze in pensione di Tottenham, che collezionò acquarelli di Turner nella più vasta misura. Quando l’artista veniva introdotto in una stanza dell’abitazione di Windus, tappezzata di suoi ac ­querelli, si metteva a fissare il soffitto. Windus finì coll’ acquistare più di duecento acquerelli di Turner, ancor più forse di Walter Fawkes, ma comprò solo cinque di ­pinti ad olio, che mise tutti all’asta nel 1853. È interes ­sante notare che il mercante di Turner, Thomas Griffith, quando era alla ricerca di commissioni per acquerelli con soggetti della Svizzera nel 1842, si mise in contatto solo con quattro protettori: Munro, Bicknell, Windus e i Ruskin. Successe così che Windus fu il primo fra questi a esaminare semplici schizzi; disse peraltro che trovava lo stile di Turner alquanto cambiato e che complessivamen ­te non gli piaceva, per cui non fece alcuna ordinazione. Si tratta sicuramente di una delle più grandi occasioni per ­dute nella storia del mecenatismo di Turner.

Quest’esame dei principali protettori di Turner dopo il 1830 è lontano dall’essere esaustivo e non menziona due fonti di mecenatismo che trascurarono di occuparsi di Turner: la famiglia reale e i compratori stranieri. È ve ­ro che Giorgio IV, su consiglio di Sir Thomas Lawrence, commissionò La battaglia di Trafalgar nel 1823, ma questa fu severamente criticata nei circoli navali e il re la diede a Greenwich. Fra coloro che criticarono il dipin ­to c’era il duca di Clarence, per cui non c’è da meravi ­gliarsi se, divenuto re col nome di Guglielmo IV, affidò la commissione di dipingere L’apertura del nuovo ponte di Londra a Clarkson Stanfield anziché a Turner. Quando Vittoria divenne regina, Turner tentò di nuovo di aggan ­ciare la clientela regale e attuò appositamente una devia ­zione del suo itinerario per dipingere la località in cui era nato il principe Alberto, il castello di Rosenau presso Co-burgo. Questo dipinto, esposto alla Royal Academy nel 1841, non aveva affatto le caratteristiche per piacere né alla regina né al suo principe consorte e la regina non lo menzionò neppure nel suo diario dopo la visita all’esposizione. Anche la critica del Times fu parti ­colarmente aspra nel suo giudizio e scrisse che il dipinto “non rappresentava nulla in natura oltre uova e spina ­ci”. Come risultato, la Royal Collection, la più bella collezione privata del mondo, non vanta neppure un dipin ­to del massimo pittore inglese.

Anche i collezionisti all’estero ignorarono Turner. Nel suo inverno romano del 1828-29, per esempio, quando espose tre dipinti   nel suo studio di piazza Mignanelli non riuscì a richiamare alcun inte ­resse sul suo lavoro fra eventuali clienti e, quando nel 1845 inviò L’inaugurazione del Walhalla, 1842 al Congresso dell’Arte europea di Monaco, non fu meglio accolto, e i suoi colori in particolare furono duramente criticati. Il grande Waagen, per esempio, che conobbe e ammirò l’opera di Turner “attraverso belle stampe”, si dimostrò critico severo quando per la prima volta si imbatté nella sua opera con l’originale; anch’egli trovò a ridire sul conto dei colori. Fatta eccezione per il collezio ­nista parigino, Camille Groult, che acquistò tre dipinti di Turner nel 1890 c., quest’ostilità nei con ­fronti dell’opera di Turner sul continente europeo è durata fino a poco tempo fa ed è solo negli ultimi vent’anni all’incirca che questo atteggiamento ha cominciato a modificarsi. La Germania, per esempio, non ha comprato neanche un dipinto ad olio di Turner fino all’acquisto di Ostenda da parte della Galleria di Monaco nel 1975. An ­cora mancano dipinti di Turner nelle collezioni pubbli ­che in Olanda, Svizzera, Spagna, Austria e in U.R.S.S. La sola eccezione a questa trascuratezza nei confronti dell’o ­pera di Turner si è avuta negli Stati Uniti, dove sono ora conservati molti dei suoi migliori dipinti. L’avvio ai col ­lezionisti americani fu dato dal colonnello James Lenox di New York, che effettivamente acquistò due dipinti mentre Turner era vivo e tentò, durante una visita in Inghilterra nel 1848, di acquistare La valorosa Teméraire tramite Thomas Griffith, e fu presumibil ­mente il primo a offrire 5000 sterline e quindi un assegno in bianco per averlo.

In quest’esame si è trascurato un altro tipo di protet ­tore: quegli editori che commissionarono a Turner inte ­re serie di acquerelli perché venissero incise, ma questi protettori appartengono a una categoria a parte e l’omis ­sione pertanto è deliberata. L’incisore John Pye, tuttavia, commissionò l’olio di Ehrenbreistein col proposito di trarne un’incisione. Questa commissione è stata scoperta solo di recente ed è una fra le numerose aggiunte apportate alla nostra conoscenza circa i lavori commis ­sionati nel terzo e quarto decennio del secolo. È possibile che ulteriori commissioni possano venire alla luce in fu ­turo, soprattutto se riusciamo ad avere maggiori noti ­zie sul rapporto fra Turner e il suo mercante Thomas Griffith. Sebbene la madre di Ruskin descrivesse Griffi ­th “disonesto, nell’accezione comune del termine”, John Sell Cotman scrisse che egli “si comportò con me come un principe” e Turner certamente sembra aver riposto fi ­ducia in lui, soprattutto forse dopo che Griffith negoziò la già menzionata vendita degli acquerelli con vedute del ­la Svizzera. Turner consultò Griffith a proposito dei suoi dipinti per l’esposizione della Royal Academy del 1844 e parve convinto di accettare il consiglio di Griffith a pro ­posito dei particolari che essi dovevano contenere: que ­sto sembra strano a meno che questi dipinti fossero stati commissionati da clienti di Griffith, ma pare che di que ­sto non ci sia prova.

Guardando indietro nella lunga carriera di Turner, emerge forse un preciso modello di mecenatismo? Corrisponde a verità affermare che fino al 1829 i patroni di Turner provenivano per lo più dall’aristocrazia e dall’al ­ta borghesia fondiaria, mentre poi assumono la precedenza mercanti e industriali? La risposta è che una tale generalizzazione, per quanto ampiamente valida, neces ­sita di una considerevole riserva. I protettori di Turner, tome i suoi dipinti, non sono facilmente classificabili. Munro of Novar, probabilmente il più consistente acqui ­rente dell’opera di Turner dopo il 1830, ha più caratteri ­stiche in comune con la vecchia generazione di protettori che con la nuova. Nondimeno ci sono ancora dei punti da chiarire; per qualcuno dei suoi acquisti, come Italia antica: Ovidio bandito da Roma, mostrava ancora tracce nel gusto dell’influenza dei dipinti con porti di ma ­te di Claude e pertanto potrebbe esser considerato un acquisto nell’ambito dell’antica tradizione. Nondimeno Munro acquistò anche Ostenda nel 1844, dove le e annessioni con la tradizione della marina olandese sono quasi completamente oscurate dalla scioltezza del tratta ­mento caratteristico dello stile tardo dell’artista.

Poiché Turner partecipò alle esposizioni della Royal Academy così regolarmente e per un così lungo periodo, mancando di farlo solo in cinque occasioni dal 1796 al 1851 incluso, vale la pena di esaminare come vendette questi dipinti esposti:

PeriodoOpere espostevenduteInven

dute

% Venduto
1. 1796-18124334779
2. 1813-182832171553
3. 1829-183953361768
4. 1840-185151213041
I metà 1796-182875512468
II metà 1829-1851104574755
Totale1791087160

Queste statistiche parlano da sole, ma si dovrebbe te ­nere in debito conto il fattore tempo: un dipinto eseguito nel 1800 aveva 50 anni sul mercato, mentre un dipinto del 1845 aveva solo sei anni nei quali essere venduto. Per esempio il grosso acquisto di Bicknell nel 1844 consisteva di dipinti esposti alla fine del secondo e all’inizio del ter ­zo decennio, e l’acquisto di Naylor nel 1851 era relativo a due dipinti esposti nel 1827 e nel 1838.

Alcuni altri elementi d’interesse emergono da queste statistiche: dieci dei diciassette dipinti venduti nel perio ­do dal 1813 al 1828 appartengono agli ultimi tre anni: 1826-28. Prima di questo ci fu un periodo difficile, dovu ­to in parte al crescente atteggiamento di critica sull’ope ­ra di Turner da parte di Sir George Beaumont e altri, in ­torno al 1815, in parte alla preoccupazione dell’artista a proposito delle commissioni per acquerelli, e in parte al :atto che, al ritorno dalla sua prima visita in Italia, fra il 1S20 e il 1825, mandò solo quattro dipinti alla Royal Academy, uno solo dei quali fu venduto.

Quindi, nel terzo periodo, negli anni fra il 1832 e il 1836, ebbe un particolare successo, tanto che solo quat ­tro dei venticinque dipinti esposti rimase in possesso di Turner alla sua morte.

Infine anche i dipinti esposti nel 1840-41 ebbero un buon successo, dato che ne furono venduti dieci su tredi ­ci, cosicché accadde che solo nell’ultima decade tanta parte della sua opera rimase in suo possesso. Il che fu forse dovuto in parte alla decadenza fisica dell’artista do ­po il 1845, che Ruskin notò, ma soprattutto al fatto che il suo stile tardo era troppo avanzato per critici e acquirenti simili. Inoltre, durante questi ultimi anni Turner stava andando contro la corrente della moda, fortemente fa ­vorevole al lavoro accurato, all’evidenza del particolare minuto e della precisione della rifinitura. Come ci si po ­trebbe aspettare che collezionisti che ammiravano siffatte virtù, apprezzassero un dipinto come Battello a vapore in una tempesta di neve, i cui larghi, pressocché sel ­vaggi colpi di pennello, e il turbinio e il vorticismo della composizione fanno sembrare convenzionale, al con ­fronto, perfino un dipinto così recentemente esposto co ­me La valorosa Teméraire? Difficilmente si ha bi ­sogno di sottolineare l’isolamento di Turner durante il quarto decennio del secolo, facendo notare che egli esponeva ancora le sue opere quando, nel 1848, fu fonda ­to il movimento preraffaellita.

Perciò non c’è molto da meravigliarsi che gli ultimi dipinti dell’artista non siano stati generalmente apprez ­zati, anche se c’era ancora un gruppetto di persone di ­sposte ad acquistarli. Dopo tutto, è fatto assai comune che artisti profondamente originali siano incompresi dai loro contemporanei, essendo scontato che ogni genera ­zione che segue ritiene di essere la prima a penetrare que ­sto velo d’incomprensione. Turner è la prova che non c’è eccezione a questo modello.

Sebbene molte opere dipinte in Gran Bretagna nella seconda metà del XIX secolo rivelino il loro debito nei confronti di Turner, la sua influenza sui suoi immediati successori non fu benefica perché egli si era spinto trop ­po lontano per consentire loro di seguirlo. Gli ultimi di ­pinti di Turner sono spesso descritti come ‘astratti’, seb ­bene egli conservasse un senso della struttura e una con ­nessione con il mondo reale che lo separa dalla pittura astratta. Nondimeno è forse ragionevole rivendicare che è la nostra familiarità attuale con la pittura astratta â— e molto è stato detto dell’affinità fra l’opera di Turner e quella degli espressionisti astratti della scuola di New York â— a renderci capaci di apprezzare fino in fondo la bellezza della tarda produzione di Turner. Al tempo stes ­so, però, dovremmo ricordare che a Turner piaceva in ­gannare perfino i suoi amici sulle sue intenzioni artisti-che, cosicché sarebbe imprudente pretendere di aver ri ­solto tutti i numerosi problemi proposti dallo studio di un genio così complesso e così pregnante.

 

 


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Bart