PITTURA: I MAESTRI: Giovanni Bellini, detto il Giambellino: Libertà di uno spirito religioso11 Maggio 2013 di Renato Ghiotto Immaginiamo di non avere mai visto niente di Giovanni Bellini. Conosciamo solo il suo nome, che è quello di un grande pittore, ma ci è stato tramandato da una fama senza aneddoti; né ritroviamo, sepolta nella memoria, la frase fatta che ci aiuti a ‘sistemar Âlo’ nel modo precario e orribilmente contratto che è proprio delle definizioni. In questa condizione di relativa innocenza, non potendo percorrere una ideale galleria delle sue opere,, ci troviamo a sfogliarne le riproduzioni, per esempio quelle contenute in questo volume. Giriamo cioè le pagine dopo pochi istanti di osservazione, irrispettosa Âmente, per un vizio di cui siamo ormai vittime con Âsenzienti e che consiste nel cercare subito l’informa Âzione, una sintesi conoscitiva. Con un proposito di questo genere è giusto che non approdiamo a niente: la pittura di Bellini ci tra Âsporta attraverso soluzioni arrendevoli, che un mo Âmento dopo scompaiono, sostituite da altre, e che tutte insieme eludono una chiave interpretativa. Se quella ideale galleria esistesse veramente, visitarla non sa Ârebbe una passeggiata, ma un viaggio, un prodigioso itinerario che sembra toccare terre già esplorate e che tuttavia ci comunica il presentimento della scoperta. Poiché qualche cosa abbiamo già visto e letto di Mantegna, di Antonello da Messina, di Piero della Francesca, di Giorgione, da questa prima escursione nel territorio di Giovanni Bellini sappiamo benissimo in quale secolo ci troviamo. Abbiamo cioè ricono Âsciuto nelle sue opere certi punti di riferimento, una situazione culturale. Di ciò che lui veramente è, ab Âbiamo invece appena un inizio di percezione: sen Âtiamo che non sarà possibile avvicinarci davvero alla sua pittura, se non andando oltre i primi livelli del Âl’osservazione, oltre i piaceri del racconto, della let Âtura, della tecnica, dell’intelligenza, che altrove ci trat Âtengono alla superficie del quadro. Qui non ci seduce niente di cui possiamo farci complici: nessun oggetto pittorico o acrobazia prospettica o furia fantastica, non c’è gioco né spettacolo. Ora sappiamo, con certezza e quasi con imbarazzo, che dovremo ripresentarci davanti a Giovanni Bel Âlini disarmati, disposti a contemplare. Abbiamo avuto l’intuizione che la sua voce poetica sia scevra di or Âgoglio intellettuale. Guardiamo, per prova, una delle opere .della sua piena maturità , la Madonna del prato della National Gallery di Londra. Superata la distrazione che oggi ci separa dai soggetti sacri, un primo passo nell’avvicinamento al quadro consiste nel vedere che, come Giovanni Bellini per certo credeva, la donna sa Chi è il bambino che tiene sulle ginocchia. Lo adora, ab Âbandonato a un sonno umano, con una serenità rag Âgiunta attraverso lo sgomento di una tremenda con Âsapevolezza. Il paesaggio, che abbiamo visto conqui Âstare sempre più spazio nelle opere precedenti, è qui ancora più vicino perché la figura femminile è seduta per terra; non sul prato si direbbe, ma su un lembo,  neutro e quasi immateriale, della scena terrena che si compone, in pace, dietro di lei. Il castello, la casa. i campi, gli animali, la donna bianca e l’uomo sdraiato, gli esili alberi sfogliati dalla stagione, e il ciclo su di essi, restano al di là dell’altra scena, quella divina. trattenuti in una sospensione che non è per poca parte nell’effetto â— d’incanto, d’imminente rivelazione? – di questo quadro. Il pittore non vuole, o non può in Âtimamente, confondere i due piani o immergerli l’uno nell’altro, per quanto sappia concepire questa suprema unità e saprebbe rappresentarla; lo trattiene ciò che forma la poesia, per noi quasi dolorosa, dell’opera: una reverenza, un timore sincero, la religiosità . Chi è dunque quest’uomo, capace di resistere a un’idea così tentatrice? Non si può conoscerlo che dal Âle sue opere, come l’albero evangelico dai frutti. Pare che, nella sua lunga vita senza storia. Giovanni Bellini non abbia fatto altro che dipingere: ed è certo che lo ha fatto sempre meglio man mano che procedeva nella pittura e nell’età . Non era uomo da astrazioni o da rovelli; per lui l’arte era tutto, meno che un problema. Doveva tuttavia possedere una virtù ordinatrice, una misteriosa misura nell’immaginare e nell’operare, se riuscì a eludere la tentazione di cui si parlava e ad arrivare lo stesso così lontano; se riuscì a non crearsi una poetica, a non fermarsi a elaborare un proposito intellettuale o, peggio, quello di un al Âtro: di suo cognato Andrea Mantegna, per esempio. Invece, dal Mantegna e dagli altri grandi che co Ânobbe, a Venezia e a Padova â— dai Vivarini a Dona Âtello, a Giorgione, a Tiziano â—, Giovanni Bellini ac Âcolse, con una sua speciale umiltà , l’illuminazione che gli potevano dare, da grande professionista che co Âstruisce se stesso anche sulle esperienze degli altri; con la sua speciale dignità non si propose mai di essere un rivale dell’uno o dell’altro nella zona di ricerca che essi si erano scelta; con una qualità più segreta, che fu imperfettamente chiamata il suo ‘classicismo’, seppe non rifiutare niente di ciò che gli arrivava al Âl’anima dal passato e dal presente, ed essere lo stesso un grande suggeritore del futuro. In un secolo e in un luogo affollati di pittori, tra i protagonisti di un’autentica rivoluzione culturale, si direbbe che Giovanni non si sia creato un posto a par Âte, ma un posto ‘in mezzo’, dove quietamente assorbì – lui spontaneo, artigiano, conservatore â— i programmi e le avventure di un pensiero in movimento, per quel tanto che potevano servire al movimento della sua pittura, alla sua personale novità . Opera Âzione che, a descriverla, sembra anch’essa program Âmatica, una deliberata scelta critica; e dovette com Âpiersi invece ‘per virtù’, dato che Giovanni era l’uomo che era. Uno spirito religioso, senza dubbio ; e non certo perché fece tante Madonne e santi, ma perché la religiosità , oltre che un modo di concepire la vita, divenne la sua situazione psicologica di fronte all’arte. Nacque a Venezia, in una casa di pittori; con un padre, Jacopo, già famoso, e un fratello, Gentile, che famoso sarebbe diventato. Dipingere non gli dovette apparire come una scelta, ma come una predestina Âzione. La bottega era un’immagine del mondo ai suoi occhi di ragazzo o era già il mondo, popolato di santi geometricamente disposti attorno a Madonne madri? Se non lo era, duplicava il mondo reale in forme (egli se ne accorgeva) non più interamente consolatorie e semplificatoci, ma con l’incanto inquieto della pro Âspettiva, con propositi in cui la vita terrena non era più assente o negletta. Fece il suo noviziato, lavorò in aiuto al padre e accanto al fratello; e poi da solo, liberandosi senza strepito dalla gabbia del gotico, come si sarebbe li Âberato più tardi dal rigore bruciante di Andrea Man Âtegna. Non avrebbe mai provato l’esaltazione speri Âmentale di esplorare un’idea, di inseguire un’astra Âzione: c’era, in questo genere di propositi, una pro Âfanità da cui si ritraeva e un peccato d’orgoglio che sapeva bene riconoscere. L’incertezza sulla sua data di nascita ha permesso di concepire un’ipotesi suggestiva: che Giovanni cioè sia nato prima che la madre si sposasse, e che il padre lo abbia più tardi legittimato. In questo caso egli sa Ârebbe il fratello maggiore, ignorato dalla madre nel testamento, posposto a Gentile nei lavori che Jacopo firmava col nome suo e dei due figli, reso cadetto dal pregiudizio e dalla sua stessa remissività . Se anche è vero, non ne esce un’immagine d’infanzia infelice, di un’umiliazione che lascia il segno nel corso di una vita; Giovanni onora il padre, rispetta il fratello e collabora alle loro opere se non può farne a meno, pronto anche ad assumersi quelle che Gentile lascia incompiute. È quella sua rasserenante capacità di es Âsere saggio che permette a Giovanni di non sentirsi offeso da cose che non lo possono offendere, o è l’ade Ârenza alla ragione della sua vita, il dipingere, che lo fa noncurante? Gentile è ambizioso, prova piacere a cose vane: diventa il pittore ufficiale della Repubblica, l’impe Âratore gli concede onorificenze, ed egli aggiunge subito alla firma il nuovissimo titolo nobiliare. Altrettanto curiosamente, almeno per i gusti di Giovanni, è fiero di partire da Venezia per Costantinopoli in missione ufficiale, incaricato di portare doni a Maometto II e di fargli il ritratto. Giovanni ha una religione anche per i sacrifici dovuti alla famiglia; subentra al fratello, e Dio sa quanto di malavoglia, a dipingere battaglie navali per la Signoria. Le prebende e i privilegi lo imbarazzano più che non lo compensino; non gli piace lavorare con altri o al posto di altri, non gli piace l’enfasi dei di Âpinti celebrativi. Ma se Gentile parte o è ammalato o nel testamento non lo prega ma lo impegna a con Âdurre a termine un’opera lasciata a mezzo, Giovanni dice subito di sì. Quelli sono i suoi momenti dram Âmatici: obbedire a ragioni in fondo esterne, aliene alla pittura, per quanto imperative secondo un suo codice di doveri, e trovarsi poi per mesi a riluttare davanti a uno schema e a un modo altrui o davanti a un sog Âgetto che lo opprime… finché i mesi diventano anni, di rimando in rimando, e lui comincia a lavorare senza metterci il cuore e alla fine ci mette anche quello, se intravede, tra l’ordito che lo imprigiona, uno spiraglio per la sua libertà . Quando va bene, ci lascia un segno dei suoi; e se no lavora con coscienza, solo accumulando ritardo, nella speranza che Gentile torni o guarisca o che intervenga una decisione non sua, e che egli non sa sollecitare, a sollevarlo dall’obbligo. Peggio gli avviene quando deve rimproverare solo se stesso per avere detto di sì, come la volta che si impegna, nei primi anni del ‘500, a dipingere un quadro a tema prefissato per lo ‘studiolo’ di Isabella Gonzaga. Qui le ragioni non sono state altrettanto virtuose ; Giovanni, che non è un mostro, è soggia Âciuto anche lui a tentazioni mondane: la commis Âsione lo lusinga, perché Isabella è una Minerva del tempo e perché lo mette a confronto coi grandi che lavorano per il Palazzo di Mantova, con Andrea Mantegna specialmente. La sua non è la vanità di Gentile; egli sa di essere Giovanni Bellini e lo sa ormai da molto tempo: ha accettato, ha pattuito il compenso, e ora reclama, anche se un po’ tardi, ciò che a Gio Âvanni Bellini è dovuto, la libertà di dipingere quello che vuole. Isabella resiste, perché anche lei ha uno schema per i quadri delle sue pareti e le duole di doverlo sconnettere. Vanno avanti così, il pittore da una parte e la principessa dall’altra, a scriversi e a patteggiare per quasi quattro anni; quando il quadro viene finalmente consegnato, il soggetto non è affatto quello che doveva essere in origine. Che cosa vuole dunque dipingere, per scelta sua, Giovanni Bellini? non la “historia o fabula antiqua” che la Gonzaga propone in via di compromesso e nep Âpure la Natività , che sarebbe disposta ad accettare, ma una Madonna col Bambino e i santi Giovanni Evangelista e Girolamo (quest’ultimo come unica con Âcessione â— cavalleresca? â— ai desideri della com Âmittente), purché ci sia posto per “qualche luntani et altra fantasia che molto staria meglio”. Qual è dunque la libertà che egli si è conquistata? lui, che di Madonne col Bambino ne ha già dipinte a decine e altre ne dipingerà ; che rifiuta un tema mitologico e pure ne affronterà uno, il Festino degli dèi, per la corte di Ferrara; che ha raccolto influenze ed esperienze altrui lungo tutta la vita, tanto che la storia critica della sua pittura è un continuo restituirgli di opere, attribuite prima a Mantegna, ad Antonello, a Giorgione, ad altri grandi e minori? È una libertà che egli ha saputo cercare all’in Âterno dei temi obbligati che condizionano l’esercizio della sua professione ; e l’ha trovata così bene che, quando gli si permette di scegliere e lo anima uno stimolo competitivo, si rivolge proprio a un soggetto tante volte trattato. E non rifiuta nemmeno l’aggiunta di altre figure, accanto al gruppo della Madre o i Bambino, perché egli sa trattarle in modo che non risultino spaesate, né in quella compagnia né all’in Âcontro di quei paesaggi “luntani”. I tecnici, nel definire le sue conquiste, parlano per esempio del colore, che in lui sommerge le linee ca Âparbie, il grafismo dei suoi contemporanei, ma questa è appunto tecnica, un alto strumento della sua poesia. Quel tanto di largo che egli si è ritagliato nella strut Âtura stessa dell’opera, è lui a descriverlo nella lettera a Isabella, con un tono di gravita e di candore che gli sta così bene: i ” luntani et altra fantasia che molto staria meglio”. Non ci deve distrarre la parola “fantasia” che egli usa; Giovanni Bellini non ha in mente niente di ar Âbitrario, nessuna divagazione, aspira soltanto a una scioltezza d’invenzione che “molto staria meglio”. Que Âst’ultima è la parola importante: che personaggi e paesaggio si compongano in modo che nel quadro circoli una stessa aria, che vi si avverta uno spirito nuovo: un accordo quieto e contemplativo tra l’uomo e la natura da una parte e le sacre figure dall’altra, tra la vita della terra e la vita ultraterrena. Quest’uomo, che è partito dal gotico, che ha preso il suo bene dovunque lo trovava, ha avuto il premio di scoprire il varco a un altissimo respiro, rimanendo fedele alla pittura. Forse perché ha rinunciato a usare il pennello allo stesso modo in cui altri usavano la parola e la penna, per dichiarare e dimostrare, eli è accaduto di liberare i paesaggi dall’archeologia e la composizione dalla rigidità . Come i suoi personaggi non escono mai in un grido per esprimere il dolore. Giovanni arriva ad aprire i suoi cari “luntani” come gli sembra che “molto staria meglio”, a poco a poco. senza forzare e senza rinunciare al passato. Nelle sue Madonne accoglie amorosamente le convenzioni sim Âboliche del Bambino dormiente, e quindi destinato alla morte, dei frutti (la pera, la mela, il melograno: ognuno col suo significato), rifiutando solo i festoni, i drappi dorati, ciò che è superfluo e ornamentale. Nel Âle continue variazioni si addentra nel centro spirituale del tema, come in una personale meditazione sul mi Âstero di quella maternità . Dietro le figure, il paesag Âgio, tagliato a metà , costretto in bande laterali o tutto spiegato e aperto, ci dice che la madre di Dio è scesa dalle icone e che la rappresentazione della natura si va svincolando dall’infatuazione per i marmi antichi e le rovine. Sono, quelli di Giovanni Bellini, paesaggi non naturalistici (ci vorrà ancora molto tempo per scoprire prima che la natura è naturale e poi che non lo è); so Âno “fantasie” paesistiche, ma composte di elementi reali e domestici, come mai fino ad allora si era usato, nelle quali si riconoscono ancora i profili turriti di cit Âtà e castelli veneti; prospettive che si allontanano in piani successivi ma che hanno superato i giochi stereo Âmetrici; con animali non araldici, con uomini che lavo Ârano o che vanno al lavoro e ne tornano ; in cui il ciclo e le nuvole ci dicono l’ora del giorno e la stagione. Questi suoi “luntani”, Giovanni li sente così neces Âsari, che per non sacrificarli ricorre a invenzioni ardi Âte: nella pala di Pesaro ‘sfonda’ la spalliera di marmo del trono in cui Cristo è seduto a lato della Madonna e .profila le due teste su un paesaggio di torri e colline. Oppure li usa per allargare il racconto (le Marie so Âpravvenienti nella Resurrezione di Berlino) ; o per co Âmunicare l’incanto di un miracolo così sottilmente metafisico, quale è la Trasfigurazione. Chissà per quale caso gli venne proposto un sog Âgetto per lui insolito, quello del quadro degli Uffìzi che si suole chiamare “Sacra allegoria”. Non è certo un’idea sua, a quei tempi tutti dipingevano su com Âmissione; c’è da credere, per di più, che a Giovanni sembrasse cosa poco seria o addirittura immorale la Âvorare solo per gusto o per esperimento. Tuttavia questa figurazione allegorica di dubbia interpretazione gli offrì un’occasione, forse sovrabbondante, di spa Âziare nel paesaggio e nella composizione. Aveva di Âpinto Madonne e ritratto Cristi crocifissi e deposti. Aveva dipinto grandi pale d’altare in cui la corona di santi si stringeva su un solo piano o si distribuiva in gruppi e in piani diversi in soluzioni di armoniosa verticalità . Qui non ci sono più santi o uomini, se non in quanto personaggi, e il loro apparire è orizzontale come un racconto. Su una terrazza sospesa, geome Âtrica, contro un paesaggio di monti e di acque, sono disposte figure assorte e recitanti: un giovane nudo e legato, con le asticciole di due frecce che sporgono orizzontali dalla spalla e dal ginocchio, cammina co Âme in sogno ; un vecchio è immobile con la spada alzata; una donna è assisa in trono; bambini giocano coi frutti di un alberello in vaso; una figura velata, all’estrema sinistra del quadro, volta le spalle ai com Âpagni di scena. Un immisurabile spazio separa tutti costoro dalla diversa serenità del paesaggio, dove uomini camminano reggendo una zappa o spingendo un asino, e due donne sostano in conversazione e l’una tocca con la mano la spalla dell’altra. Anche se il dipinto trasporta dei residui letterari (ai piedi del monte più vicino passeggia un perplesso centauro), nella lontana e parallela scena naturale non c’è nessuna arcadia: il paesaggio è scabro, le co Âstruzioni non sono castelli ma ville e case di agricol Âtori. Davanti alla gente che lavora o va per i fatti suoi, in un altro piano di esistenza, si svolge uno spet Âtacolo fine a se stesso, una rappresentazione di niente. L’opera dunque non esprime la religiosità che è così connaturata a Giovanni (troppo slegato, il pittore sembra aver perso il modo di parlarti della sua reli Âgio); essa è tuttavia interminabilmente affascinante. Quando muore, a ottantacinque o più anni, Gio Âvanni Bellini non ha mai smesso di dipingere: vecchio com’è, è ancora il più grande di tutti. Si chiama “messer Zuan Bellin”, nel dialetto che è la lingua par Âlata e scritta della Repubblica; e da qui forse una posterità facile alla confidenza osa denominarlo “il Giambellino”. Oggi, con più rispetto, gli si restituisce, con molte opere prima male attribuite, il nome di Giovanni Bellini, come egli avrebbe certo preferito, egli che si firmava “Joannes Bellinus”, in bei carat Âteri romani, talvolta su cartigli appesi a un ramoscello o su un piedistallo di marmo (e sopra ci metteva non una statua, ma una scimmia). I tempi nuovi continuano dopo di lui, ma non produrranno forse più un artista che sappia, come lui, avanzare nel nuovo senza perdere una religiosa, ge Âlosa, congiunzione col passato. Questa capacità di con Âtenere e comporre tante sollecitazioni diverse e affa Âscinanti, di moderarle senza respingerle, di trovare la libertà dell’artista nell’intatto ‘uomo interiore’, è pro Âpria di una grande anima. Non è difficile capire Gio Âvanni Bellini, è difficile essere Giovanni Bellini, ai suoi tempi e oggi: la misteriosa serenità delle sue opere è per noi un motivo d’inquietudine. Letto 5656 volte.  Nessun commentoNo comments yet. 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