PITTURA: I MAESTRI: Greco: Autoritratto involontario17 Novembre 2016 di Gianna Manzini Mio caro Clovio1, ho chiuso le imposte; ho tirato le tende. Filtra po Âchissima luce dallo spiraglio della porta. Una lama ne trapela dalla finestra: insufficiente per vedere, pro Âpizia per conciliare l’intimità di un discorso fra me e me, fra te e me, senza che mi distragga la nascosta prepotenza delle cose. Perché anche se smagliante, anzi più che mai se smagliante, la materia mi comuni Âca il proprio sgomento di essere senza infinito, né eter Ânità ; e mi supplica, in un disperato palpitare di atomi, affinché la sottragga alla polvere, al nulla di domani; e le assicuri una miracolosa salvezza nel tempo. Vita, vita anche nella morte, sempre. Con furore, e insieme con caritatevole tenerezza, la mia pittura insegue que Âsto miraggio d’una durata senza fine. Ma talvolta, esausto, chiedo alle apparenze una tregua. Adesso, appoggiata contro il cavalletto, una tela mostra il retro. L’opera compiuta dice la parola ‘fine’, colmandomi di tripudio e di sgomento. Fu in un momento simile, tanti anni fa, a Roma, che mi sfuggì con te una confessione involontaria: for Âse l’unica della mia vita; perché ho sempre detto e scritto unicamente ciò che volevo dire, che mi sem Âbrava necessario dire; e mai ho lasciato che qualcu Âno, in me, dentro di me, parlasse in vece mia, spo Âgliandomi. Eri venuto a trovarmi nel mio studio. Modellini di cera pendevano dal soffitto; un drappo di seta gial Âlo, sostenuto fra una sedia e un trespolo, allargava morbide pieghe ondose, e all’apparenza casuali. Del dipinto sul cavalletto si sarebbe visto il retro, se la stanza fosse stata chiara; ma stavo al buio; press’a poco come oggi, prima di prendere la penna in mano. Apristi la porta; ti vidi all’improvviso nel riquadro luminoso. Volevi che uscissi con te. “C’è un bel sole” dicesti. “La città ha un’aria di festa. Vieni”. Ti avvi Âcinasti adagio, badando a non inciampare fra sgabelli, cassapanche, telai. Una brocca, urtata appena col pie Âde, ebbe un tintinnio sordo che la rivelò piena a metà . L’acqua d’una catinella, per il poco chiarore, sembra Âva riverberare segretamente luce propria. Appoggiasti una mano sul tavolino, accanto a un vaso pieno di pennelli, fra alcune bottiglie. In quell’attimo, l’uscio alle tue spalle si richiudeva da sé, senza rumore, come una porta di chiesa. Non mi distinguevi più. Non ti distinguevo più. E la mia voce sorprese me pure, allorché ti risposi: “Non vo Âglio uscire, perché la luce del giorno disturba la mia luce interiore”. Non è che io ripeta la frase, perché, avendola tu riferita in una lettera al Farnese, da tante parti mi è poi ritornata, e talvolta carica di significati estranei alla mia intenzione; io la ricordo, perché in quel mo Âmento, senz’accorgermene, mi confessai. In ciò che mi sfuggì, riconosco la vampa d’un pudore violato, insie Âme al bene d’un abbandono estraneo alla mia natura, vietatomi dal mio orgoglio; e quel non essere io, ed esserlo più che mai, come accade nei più ciechi mo Âmenti d’amore, mi ha lasciato un divorante rimpianto, misto all’amaro d’un senso di colpa. Colpa. Anche la reticenza, specie in un uomo temerario come me, è colpa. Più che un raggio fra cortine di nebbie, la frase era stata una freccia: e additava me a me stesso. Avrei dovuto inoltrarmi nel mio rovaio, arditamente: come fossi il mio modello. Invece mi arrestai. Distolsi lo sguardo. Non così per scrutare, di volta in volta, gli altri, sorprendere l’individuale segreto, ed esperio in piena luce. Nessuna esitazione, allora: e pretendevo le unghie, i capelli, le bozze frontali, gli zigomi, perfino la saliva accusatrice che poteva bagnare il labbro. Adesso, la morte m’incalza: non con le infermità , pur molte, né con i tanti acciacchi. E la debolezza non la conosco. Fra decine di specchi, che moltiplicano questo mio sguardo impietoso, essa mi serra: che mi affronti, esige, che denunci i miei demoni, denuncian Âdomi. Il riflesso adescato in un gioco di rimandi, con Âcluda la corsa pazza che già tinse di frenesia il mio coraggio d’artista; e l’immensità che si dibatte fra le mie tempie e nel mio torace, angustiandomi, trovi nel Âla morte uno sbocco. Così io, goccia dalle mille, insi Âdiose, fallaci rifrangenze, percepirò l’oceano. Non vo Âglio che la morte mi sia straniera; giorno per giorno la mescolo con i colori della vita; ne faccio affiorare la lucentezza malsana su ossa appena coperte d’epi Âdermide; me ne servo come d’uno splendido trucco per rendere misteriosa e profonda ogni tenera bellez Âza. Preso da una sorta di stordente felicità , la invito, la corteggio, l’acclimato in me: e più mi è vicina, più sento la grazia di Dio. Nessuna debolezza deve trafu Âgarmela. Perché sorridi? Vuoi dirmi che il suicidio è Tunica maniera per riuscire a fissarla? Ne esiste un’al Âtra. La totale confessione. Questo suicidio consacrato. Questo autoritratto firmato. Decine di specchi, ti ho detto, mi serrano: affinché ancora mi avveda che nulla di ciò che siamo, di ciò che nascondiamo, sfugge a questa impavida accusatri-ce: la carne. E poi? “Resurrezione”, dice il giudizio finale. Io la vedo, la resurrezione della carne. La scor Âgo quando ne presentisco lo sfacelo. E avvampo. La fine è una nascita infinita. Il niente non esiste. Soltan Âto in virtù di questa certezza la mia pittura ha aperto spiragli nel ciclo. Oltre i quali, il vero spazio; la vera luce. Mi dicesti: ” Nei tuoi ritratti, mi turba un senso di perenne crocefissione”. Eri perplesso. Notasti, come di sfuggita: ” Pochi o punti bambini, nei tuoi dipinti, per Âché Gesù, anche fanciullo, è una figura drammatica”. Ti proibisti di aggiungere che la mia arte si tramuta in un’arma per stornare da me e proiettare negli altri tutto ciò che io nascondo forse di condannabile, certo di oscuro, di violento. Veramente, io faccio a nascon Âdino col modello mentre lo scortico. Nel fondo degli occhi che ritraggo, la sua e la mia morte giocano in Âsieme. Lo sappia o no, egli è felice e disperato di tro Âvarsi così perdutamente in mia balìa. Ora lo so: in quei ritratti ti turbava il dramma messo allo scoperto, senza carità né pudore. E respingevi l’idea di un’ag Âgressione da parte mia. Ma soprattutto ti lasciava in Âterdetto il sospetto di un simile scambio fra me e ‘l’al Âtro’, risolto in clandestina convivenza. Subodoravi un trucco; un mio modo di scagionarmi o di sfuggirmi; un esorcismo. Infatti, l’autoritratto non l’ho dipinto. Subito dopo la tua visita, avrei dovuto prendere tavolozza e pennelli; perché in quel momento la grazia mi sfiorò: fu un cedimento della volontà , una stanchezza appena ebbra, ad abbassare il mio orgoglio e fare di me un povero mortale, finalmente capace di vera con Âfidenza. Mai più mi ritrovai altrettanto limpido e sco Âperto. Oggi, come una folata di questo vento che scom Âpiglia Toledo, sollevandola, un gran desiderio di par Âlarti solleva me pure. Non può impacciarmi il fatto che non sei più fra i vivi. Se così fosse, darei torto alla mia pittura. Infatti, che cos’è l’arte, per me, se non uno strumento per cercare vita dietro la vita? E ho imparato che è vivo il silenzio esigente, pressante, che precede ogni nascita, com’è vivo l’ai di là , alle spalle della morte. E tu sei con me, e mi assisti anche nel mi Âniare che io faccio dalmatiche e cotte. Fosti proprio tu a guidare il mio pennello, allorché, volendo glorifi Âcare le tue celebri miniature della Vergine, tentai di riprodurle nel libro posto fra le tue mani: come si vede nel ritratto che ti feci, tanti anni fa. Oh, Clovio, affidarsi a colori e pennelli per cono Âscere una verità sovrumana: ecco il mio dramma, la mia grande follia. Comparendo oggi nel vano della porta, potresti ripetermi: “II sole primaverile è piacevolissimo e da gioia: vieni; usciamo insieme”; e, a differenza di quel Âla volta, vorrei proprio uscire con te (ben poche sa Âranno, ormai, le mie primavere future); ma la breve scala che dal cortiletto porta fin qui mi pesa; e le strade di Toledo, mirabilmente scoscese, mi affanna Âno. Restami, invece, accanto; e prestami orecchio. Questa strana oscurità che è la vecchiaia contiene pa Ârecchia luce. Ecco il quadro che ho appena finito di dipingere: ancora una veduta di Toledo. Qualcuno, non so più chi, disse, indovinando: ” Tu la scegliesti, questa città che vola, perché vi scorgesti un alto cavalletto per col Âlocarvi i tuoi quadri”. Furono queste strade troppo strette a farmi anelare il vero spazio. Subito, infatti, vi raffigurai un tracciato verso le nuvole. Nessun altro luogo avrebbe meglio potuto rivelare me a me stesso. Della nuova tela, faccio una dichia Ârazione d’amore e un rendimento di grazia. La luce qui mi comanda: io devo ubbidire alla sua violenza se voglio interpretare di questa città slanci e deliri. Sì che non so se adopero la folgore, o se è la folgore che mi assoggetta, per farmi vedere in ciò che è costante l’effimero, e cioè un’istantanea, significativa, nuova bellezza. Vedi, si scopre in tal modo una bianchezza scheletrica. Case, torri, campanili, così profilati e spolpati, sono i fantasmi di se medesimi. Sono il loro originario disegno e insieme la loro vacillante carcassa. Come nella vertigine di una caduta, mi ritrovo nel momento in cui, giovanissimo, dipinsi il monte Sinai. La vec Âchiaia riporta alle origini; e io ho cominciato il lungo, religioso viaggio di ritorno, sapendo che non avrà ter Âmine. Quasi tutti i miei quadri sono qui, lungo le pareti di questa casa, riprodotti in piccolo formato. Certo, talvolta, per questi volti, mi son preso a modello, va Âlendomi del mio vecchio specchio veneziano; ma non uno è il mio ritratto. Controllavo atteggiamenti, col Âlocazioni, equilibri. Affrontarmi… mai. Paura. Paura che si precisa maggiormente col passare del tempo; poiché, agli inizi, la mia giovanile audacia era guidata dal demone della pittura; non da questo feroce tu per tu che viola l’altrui inviolabile intimità . Soltanto anni dopo, a Toledo, raffigurando prìn Âcipi, re, o derelitti che fossero, presi a dipingere il loro segreto. Alacre, avido, profittavo della loro sbalordi Âtiva docilità . E, bada, non è che essi, abbandonandosi a me, mirassero essenzialmente a vincere la morte, in virtù di quella magìa che è l’arte. Tale miraggio può allettare i potenti; ma in tutti, potenti e miseri, era in gioco molto di più. Che cosa? Nientemeno che l’ani Âma. Essi rendevano l’anima. E io prolungavo quel mo Âmento atroce e prezioso. Hai mai visto monaci o reli Âgiose al capezzale di moribondi? Chini su volti disfatti, pregando, supplicando, ansimando, sollecitano, esigo Âno, esorcizzano: vogliono l’anima, la rapiscono, ange Âlici avvoltoi; se la salvino o no, lo ignoro: so che la vogliono. Con diverso affanno, io la ottenevo. Ciò che in questa odierna, lunga riflessione più mi punge è che quegli uomini lasciavano che io facessi magari gron Âdare dalle loro labbra una lussuria fino a quel momen Âto inammissibile, che mettessi a nudo vizi e malattie, che ne annunciassi la morte, assottigliando la masche Âra che la nascondeva dietro i loro lineamenti. Di fronte a giudici, o inquisitori, o medici, si erano certo dibat Âtuti, negando, giurando, occultando: di fronte a me, li vedevo divinamente arresi. E non è che li incantasse la propria apparenza raffigurata su una tela. A volte, certe lividezze di cero non appartenevano al volto con cui mi si presentavano, bensì al loro invisibile volto vero. “Apriocchi di cadaveri”, dissero di me. Ma, per Âdio, io, anticipatore di agonie, portatore di viatico, la Âdro di anime, “becchino di persone vive”, mai volli risparmiarmi; e tante volte ero dissotterrato quante furono le grandi imprese in cui mi lanciavo, dipingen Âdo ritratti. Fu crudeltà ? Allucinazione? Pazzia? Tutto quello che vuoi. A me, l’essenziale verità terrena si rivelava quando della carne vedevo il declino annunziarsi in una perdita di materiale coesione; quando cioè, nella carne stessa, trapelava quello smarrimento, quel non tener più, che accenna a un fisico delirio; quando in ogni ruga, anche minima, avvertivo uno scivolare inarrestabile, perfino dolce, verso una terrena spari Âzione; quando, a me solo, ogni particella, disorientata, confidava il sublime e ripugnante presentimento della fine. Che pietà amorosa, che tenerezza, che affanno, tu sapessi; che bisogno d’intervenire, di fermare. Fosse ambizione del morire, glorificazione della stanchezza, della malattia, della corruzione, non sa Âprei. Ma la domanda che più mi assilla rimane que Âsta: di che cosa era dunque fatta la docilità comune a tutti i miei modelli? Ansia di spiritualità , speranza di salvezza, o piuttosto un desiderio di consistere ed esistere nel proprio male rivelato, un sadico piacere nel lasciare che altri lo esasperasse, quel male, e dun Âque un gusto tenebroso di calarsi nell’inferno? O fi: l’estremo gesto di chi affida un mandato per una con Âfessione, altrimenti impossibile? D’un Cristo mi rim Âproverarono l’atroce pallore. “Era il pallore” risposi “di chi sa il giorno e l’ora in cui deve morire”. Se oggi non mi appaga il ritratto che io ti feci (lodatissimo, lo so; considerato uno dei miei migliori. lo so), la maturità o meno dell’artista non c’entra. An Âche se l’avessi eseguito, non allora, a Roma; bensì più tardi, quando Toledo m’aveva insegnato che l’ano sola non basta per dipingere, che i colori non bastano e nemmeno la luce, io, quel tuo ritratto, l’avrei man Âcato, perché non sarei riuscito a superare il margine di riserbo che, di fronte ad ogni altro personaggio, mi sentivo in obbligo di abolire: dovesse pure, la mia dia Âbolica intraprendenza, costarmi più dolore che tripu Âdio. Trattandosi di te, dovevo, dopo, poter continuare a starti vicino al modo di sempre, con quel tanto di fuggevolezza che pudore e forse misericordia esigono. Sì che ne venne fuori un elaborato omaggio, un atte Âstato d’ammirazione e d’affettuosa riconoscenza: non un ritratto nel senso vero di espropriazione e talvolta d’oltraggio. Ma quanto imparai da te, durante quelle ore di posa, nel mio studio. Anche recentemente, simile apprensione mi colse allorché, seduto al cavalletto, ebbi di fronte frate Hortensio Paravicino, un grande amico, molto letterato e poeta. Ebbene, ho cercato nel suo viso soltanto la sua poesia: e l’ho trovata; il suo destino di poeta: e l’ho decifrato: una parte, dunque, luminosa, essenziale, ma soltanto una parte di lui. Gli ambiti, fragranti riposti Âgli, quelli che, sempre, al cospetto di chiunque, mi rendono intrepido usurpatore, ho voluto ignorarli. Sì che, involontariamente, oltre a questa zona immaco Âlata dell’esser suo, mi avvedo di aver ritratto l’indici Âbile inquietudine che mi prendeva in sua presenza. I suoi occhi sono di donna. La sua bocca è morbida. Le sue narici accusano un patimento che non ho ri Âscontrato in nessun altro volto. La tisi ha stirato la sua pelle sopra gli zigomi, illudendolo di ricchezza di vita, mentre gliela sottraeva. Clovio, io ho dipinto in lui anche una mia riposta ambiguità . Non i miei pec Âcati, non i miei vizi; bensì uno struggimento che, a me. vecchio, annunziava una completezza mancata alla mia dibattuta esistenza: come un colore che non figura sulla mia tavolozza; e che, in quel momento, mi si identificò con la poesia: questa fame d’un’altra vita, d’un di più, perverso o celeste non importa, cui mi convenne dare il nome di poesia. Ma io divago: è del mancato autoritratto che devo parlarti. Dissero: “Non vi può essere maggior trage Âdia di quella di colui che perpetuò esseri, sguardi, spi Âriti; e non ha immortalato se stesso”. Quale enfatica esagerazione ! Sarà stato per sottrarmi a un simile sup Âposto strazio che mi hanno attribuito vari e sballatissimi autoritratti? Volevano vederlo, il pittore: curio Âsità tanto più forte, in quanto che il mio vivere riti Ârato a Toledo mi nascondeva ai più. E così mi hanno inventato, valendosi delle mie stesse tele; e infliggen Âdomi il vero strazio d’una falsa immagine di me; e in alcuni casi d’una calunnia perpetuata nei secoli. Il più accreditato è quello che più mi irrita. Orec Âchie a ventola, puntute, di minorato, cranio del pari a punta, tempie rientrate quasi per la pressione d’un pollice maligno. E, come se non bastasse… guarda gli occhi: sguardo smarrito di chi dura fatica a capaci Âtarsi; e ciò attestano anche le sopracciglia rialzate, non per effetto di stupore, ma per una costante vacui Âtà attonita. Sono forse io il pittore dallo sguardo che circuisce, blandisce, avvolge, sfuma? o non piuttosto il temerario che, calandosi nelle pupille altrui, pesca un filo di preziosa dolente verità , e lo tende fino allo spasimo? Occhio orientale, questo del vecchio col qua Âle si vuole identificarmi? Macché orientale. Così si offende dell’Oriente l’ardore, l’attrattiva per tutto ciò che è lontano e misterioso. Ogni pittore ha gli occhi che si merita. Mostrami come dipingi, e ti dirò che occhi hai. Vorrei gridarlo ai quattro venti: io, con questo vegliardo stanco, senza passione né passioni, non ho nulla che fare. Per non dire del labbro molle, quasi viscido che versa parole approssimative. Mi raccontava infatti, quel mercante di tessuti, mentre posava, una squalli Âda storia di febbre terzana, di carcere, di presunte in Âgiustizie, illudendosi che io potessi dipingere il suo racconto; mentre era il suo trasudare falsa dignità che io inseguivo, insieme con l’erettezza che la gorgera im Âpone e che ogni tratto del volto smentisce. Vedi, m’in Âteressava febbrilmente (per questo gli stavo addosso, a tal punto da giustificare quasi l’ipotesi di chi asserì che tale distanza raccorciata è quella voluta dal pit Âtore che ritrae se stesso) l’idea di contenere, di con Âtrollare tanta decadenza e perfino decomposizione, con un assoluto geometrico, con l’evidenza d’una struttura rigorosa. Scorgevo un bisticcio, una contraddizione, fra disegno essenziale, originario, ma addirittura som Âmerso, e l’incombere d’una materia tutta presente, greve, un po’ cadaverica. Un bisticcio assai incitante per un pittore come me. E dell’uomo con la tavolozza? Per quella figura ha posato mio figlio, anche se proprio non si tratta di lui. Fu anche indicato, come autoritratto, un viso dell’Entierro, e precisamente quello al di sopra della te Âsta di santo Stefano. Nient’affatto. Eppure, proprio nell’Entierro, adesso credo di ravvisare un mio auto Âritratto involontario. Ma sì! il monaco incappucciato di nero, quello che spiega qualcosa al compagno dal saio grigio. Oh, le mie presunzioni e manie d’erudito, in che maniera, e imprevista, mi accusano. Proprio quel porgere, irrecusabile e un po’ saccente, della mano dottorale, mi tradisce. Sono lui; e vorrei essere invece colui che ascolta; sebbene riconosca che la gra Âzia un po’ umile dell’ascoltare mi riguarda ben poco. Quegli occhi, dipingendoli, non potei fissarli; lasciai che guardassero un punto di rapimento, forse di concentrazione; e se adesso provo a mettermi sulla loro linea di sguardo, tremo; perché sento che il monaco da me effigiato vede ciò che io volli vedere. In tal modo finisco col mettermi inavvertitamente all’uniso Âno con lui. Allora, esitante, pavido (io, una volta tan Âto, pavido), lo visito; e ascolto una pulsazione che lo intona col suo miraggio. Lo sai: ognuno ha la sua me Âlodia: non si sente; ma si può conoscerla. Tentando di percepire quella del monaco incappucciato, mi av Âvedo di rintracciare accordi nella mia tempesta. Inoltre, non ti dice nulla il fatto che tale figura sovrasta il vero ritratto di mio figlio? Si trova infatti sulla medesima verticale. Io tengo mio figlio addossato a me. Guarda bene il bambino. Gli anni e le pas Âsioni, struggendolo, lo renderanno simile, è evidente, al dotto che lo protegge; e anche al poeta Paravicino, che fin da quel tempo, cioè molto prima che io lo in Âcontrassi, fu una specie di emblema; forse un enigma che prendeva la faccia della realtà ; un pensiero, sì, un pensiero che, sparso nel mondo, doveva poi preci Âpitare e definirsi in alcuni segni: con i quali anelavo identificarmi. Ti sembra strano che facessi di me un monaco e non un dignitario? A quel tempo, avevo beghe con l’Inquisizione, a causa dei miei angeli. Mi si rimpro Âverava la loro bellezza inquinata, trafugata a quella di donne fatali; s’investigò sopra una gamba scoperta nello slancio del volo; furono messe in questione le ali troppo lunghe. “Sotto quelle ali” dicevano “accade l’indicibile…”. Sì che fui portato dinanzi al tribunale come violatore di angeli. Forse, più che la mia con Âdanna, volevano le mie parole: partecipare della mia ebbrezza per mezzo delle mie parole; peccare con le mie parole: non le ebbero. Ebbero un mio gesto di sacro impegno; di alta attestazione. Gesto frequente, in me. Gesto sintomatico: quando mentisco (e nessu Âno lo sa). La mano sul petto. Come fa l’elegante, in Âtenso Cavaliere, nel quale, giusto a causa della mano che è mia, aperta, solenne, vollero riconoscermi. È una mano che mette il petto al sicuro, una mano scudo. Ma, dopo, la condanna evitata dovette pesarmi. Non si può mai essere fieri di una scappatoia, d’un sotterfugio, d’un colpo di mano. Certamente, peccai di superbia, rifiutando di difendermi come i miei giu Âdici avrebbero voluto; e peccai anche per mancanza di carità , sicuro, sottraendo loro il grande alimento, oh, non dico il pane quotidiano, che, per i laudatori della purezza, è la lubricità . E poi la giustizia, umana o divina, se appena l’avverti, tu sapessi come impone di chinare la testa. In qualsiasi luogo; ma, più che altrove, in Spagna. Può darsi dunque che, inconscia Âmente, io abbia, in quel cappuccio monastico, adom Âbrato un senso di penitenza. Amico mio, anche la luce della lanterna sta per finire; e certamente io non ho finito di confessarmi, perché non sono riuscito ‘a rendere l’anima’, come già fecero i modelli di cui mi valsi. Con audacia implaca Âbile e ostinata li disputai a loro stessi: sì che la mia condiscendenza, o grazia che fosse, nel ritrarli, non fu che un modo di divorare. Devo riconoscerlo: i tanti specchi fra i quali la vecchiaia mi serra non mi sono bastati; ma può darsi che nel tessuto stesso, ineguale, nodoso, a volte inter Ârotto, delle mie parole vi sia molto più di quanto non abbia detto. Io credo in ciò che sorpassa il dettato. È lo slancio per superarsi che conta: e le mie figure sarebbero fantocci se non sconfinassero dal quadro, dalla cornice, dalla chiesa, dal museo, per realizzarsi volubilmente, continuamente, altrove: in una interez Âza anarchica, geometrica, terribile e amorosa. Per cui. vorrei che l’estensore di questa lettera non si lasciasse tentare, come del resto sarebbe naturale, oltre che bel Âlo, da un desiderio di asciugare la mia prosa. È evi Âdente: essa, quasi a riscontro della mia pennellata troppo goduta, risente d’una tal quale sfrenatezza, a volte quasi parossistica, che soltanto il magistero della mia pittura poteva legittimare. Inoltre, a mia discol Âpa: sui carboni ardenti, non si può che correre o sal Âtare; e io, in tema di autoritratto, vale a dire di con Âfessione, sono sui carboni ardenti. Potrebbe, l’estensore, per un imperativo ai miei occhi indecifrabilmente moralistico, o per un dettato di pura eleganza, voler costringermi in una scrittura finemente rinunciataria. Non lo faccia: perché è in questo empito poco educato che tu, oh Clovio, ritro Âverai il giro del mio sangue, l’onda del respiro non ancora affievolito, insomma qualcosa che è, sì, preca Âria materia, ma anche, per assurdo che possa sembrar Âti, chiave della speranza. Oh, amico mio, non posso dirti di più. Io, il vecchio intrepido, a essere l’avvoltoio che mi dilania, non sono riuscito. domenico theotocopulos E per copia conforme GIANNA MANZINI 1 Dei rapporti tra il Greco e Giulio Clovio (il cui ritratto eseguito dal Greco è al n. 13 di pag. 93 – del volume da cui è tratta questa presentazione – bdm) il lettore troverà cenno sotto la data del 19 novembre 1570, a pag. 83, ove è anche riprodotta la lettera, apocrifa, del Clovio che Gianna Manzini riprende in questa sua suggestiva ‘lettera del Greco’, non meno apocrifa, dunque, ma di acuta pe Ânetrazione psicologica. Letto 1881 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. 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