PITTURA: I MAESTRI: Holbein il giovane: Distacco e decoro28 Marzo 2017 di Roberto Salvini Accadde una volta al vecchio Goethe, colloquian Âdo col devoto Eckermann, di pronunziare d’un fiato, per illustrare il concetto di “genio produttivo”, il nome di Holbein con quelli di Fidia, di Raffaello e di Dürer: artisti tutti la cui opera, come quella, in altro campo, del grande Mozart, avrebbe rac Âchiuso i germi di sviluppi futuri e avrebbe prolun Âgato la sua efficacia nei secoli. Oggi si suole invece, per comune consenso di critici, chiudere con la sua morte â— prima ancora d’aver toccato la metà tonda del secolo â— un’epoca intera di storia dell’arte tede Âsca, quella che dal Romanticismo in poi va sotto il titolo affettuoso e nostalgico di altdeutsche Malerei: denominazione che non può pienamente tradursi “antica pittura tedesca”, ma quasi suona, per l’ac Âcento con cui è pronunziata o per il contesto nel quale è inserita, “pittura tedesca del buon tempo antico”. Essa designa quanto, quasi esclusivamente su tavola, si andò dipingendo durante due secoli e mezzo nei paesi di lingua e di cultura tedesca. Ab Âbraccia anzitutto l’intero Trecento – un secolo di pittura in oscillazione perpetua fra le preziosità di ascendenza anglo-francese della scuola di Colonia e il realismo espressionistico austro-boemo â—, il vi Âvacissimo contributo germanico al ‘gotico cosmopolitano’ dei primi decenni del secolo XV nell’arco geograficamente vastissimo e stilisticamente assai vario che si tende dal Reno al Danubio, dalle Alpi alla piana vestfalica e alle marittime città dell’Ansa, e quindi comprende quel naturalismo quattrocente Âsco – rappresentato fra gli altri da pittori come Lukas Moser, Hans Multscher, Stephan Lochner, Konrad Witz, Martin Schongauer e Michael Pacher -, che se non può, per assenza di componenti umani-stiche e per deficienza di spiriti razionali, aspirare al blasone rinascimentale, è pure assai male definito dal termine corrente di ‘tardogotico’: denominazio Âne che in effetti troppo lo lega al passato e troppo disconosce quella discorde concordia d’intenti che in realtà accosta, e sia pure in funzione di contrap Âpunto, la scoperta dell’autonomia del mondo come campo chiuso di forze in tensione, propria appuri:” al Quattrocento tedesco, alla grande impresa italia Âna della ricostruzione razionale dell’universo incen Âtrato sull’uomo e all’intuizione fiamminga dell’uniti della natura nella luce. L’ultimo capitolo dell’altdeutsche Malerei riguarda l’Alto Rinascimento, la sua penetrazione dall’Italia e la dialettica di forze che ne consegue, e prende nome soprattutto dai cin Âque grandi del Cinquecento tedesco: Dürer, Grünewald, Cranach, Altdorfer e, a parte la costella Âzione dei minori, appunto Holbein il Giovane. Que Âsti impersona l’adesione più piena, e diciamo pure meno problematica, ai principi del Rinascimento italiano, e nel tempo stesso la più perfetta fusione fra spirito analitico del Nord e la sintesi razionale del Sud. Per questo egli chiude un’epoca, e non soltanto breve anche se intenso periodo del Rinascimento tedesco. Dagli albori del Trecento fino a Hans Hol Âbein la pittura tedesca aveva costituito una lingua figurativa   autonoma   anche   se   non   impermeabile, anzi  a  tratti  assai   aperta,   a  penetrazioni   esterne: dall’area  francese nel  Trecento –  e  mediatamente anche dall’Italia â—, dai Paesi Bassi nel secolo XV (e dall’Italia con Pacher), dall’Italia soprattutto nel primo Cinquecento. Ma la tradizione non si era mai interrotta, una continuità di ‘lingua’ appunto, se non di stile, si era snodata senza bruschi salti da Teodorico da Praga fino a Grünewald, dalle più antiche tavole   della   scuola   di   Colonia   o   dalle   ‘storie’   di Klosterneuburg fino a Dürer e a Holbein. Scompar Âso Holbein,  chiuso  dovunque il periodo  del  pieno Rinascimento,  la  Germania partecipa  al gusto  eu Âropeo del Manierismo con pochi pittori che, come lo svizzero Tobias  Stimmer o il vestfalico  Ludegertom Ring e i suoi figli, non avevano spalle capaci di portare il peso di una grande tradizione. E la fiori Âtura   estrema   del   Manierismo   alla   corte   rudolfina prenderà l’avvio dall’attività di un fiammingo esper Âto d’arte italiana, Bartholomeus Spranger, e i tede Âschi che vi prenderanno parte, come Giovanni d’Aquisgrana (Hans von Aachen), Joseph Heintz o Hans Rottenhammer – essi stessi reduci da Roma -, non si ricollegheranno se non in modo estremamente ge Ânerico alle tradizioni artistiche della loro terra. Né Holbein è il loro maestro, né egli avrà discendenza degna del suo nome. La sua efficacia non si prolun Âgherà , come pensava Goethe, nei secoli avvenire, ma la sua arte, sempre ammirata come quella di un classico, riacquisterà semmai valore di esempio per i realisti del secolo XIX. Insieme con Dürer, e col minore Burgkmair, Holbein è il più italianizzante dei pittori tedeschi dell’epoca. Eppure il suo atteggiamento di fronte agli esemplari del grande Rinascimento italiano è profondamente diverso da quello di Dürer. Per quest’ultimo l’arte italiana costituisce, al pari di ogni altra esperienza, un oggetto di meditazione e un pro Âblema: ammiratissimo di ciò che vede, vuoi tuttavia guardarci ben dentro e vive un suo dramma a tratti angoscioso nella mai soddisfatta ricerca delle leggi e dei supposti ‘segreti’ di quell’arte. Temperamento assai meno pensoso, Holbein si appaga di quel che si offre al suo occhio, ritrae dalla pittura italiana un’impressione di stabilità e di grandezza, di equi Âlibrio e di magnificenza, e, passandola al filtro della sua educazione tedesca, ne accentua gli aspetti di monumentalità e di fasto: con tutta naturalezza e con una felicità creativa che nulla lasciano traspa Ârire del nobile tormento creativo e dell’ansia di ri Âcerca che caratterizzano ciascuna delle opere del grande maestro di Norimberga. Questa diversità di atteggiamenti mentali di fronte allo stesso fenomeno ha forse le prime radici nella diversa struttura sociale delle città nelle quali nacquero e crebbero i due ar Âtisti. Ambedue città libere dell’impero, Norimberga, patria di Dürer, e Augusta (Augsburg), patria di Hol Âbein, avevano diverso carattere. Norimberga era un’industre città di artigiani e di mercanti, la cui vita politica ed economica era fortemente condizionata dalle corporazioni professionali, tanto che ancora nel Cinquecento avanzato un poeta come Hans Sachs era iscritto alla gilda dei calzolai e doveva attingere nella società degli artigiani il materiale umano per la formazione delle sue compagnie di maestri cantori. Augusta era una città di industriali, di mercanti e di banchieri, e vede nelle multiformi imprese dei Fugger nascere fra il Quattrocento e il Cinquecento le prime forme di capitalismo industriale e finanzia Ârio. Il tono della vita volge al fasto, e l’imperatore Massimiliano soggiorna e prende volentieri parte alle vicende mondane della città , sì da procurarsi il poco rispettoso nomignolo di “borgomastro di Augusta”. La cultura umanistica, largamente assorbita attraver Âso la consuetudine col dottissimo amico Pirckheimer. non impedisce a Dürer di conservare un vivo attac Âcamento alle tradizioni artigiane della sua città e del suo ceto e, benché sia convinto che l’artista “è inter Ânamente pieno di immagini e che se gli fosse concesso di vivere in eterno egli spremerebbe sempre qualcosa di nuovo dalle idee interne delle quali scrive Piato Âne”, pur non disdegna di tradurre in figure quelle immagini con la fatica della mano, e maneggia egli stesso il bulino dell’incisore e perfino il coltellino dello xilografo. Holbein invece maneggia soltanto matita, penna e pennello, e affida agli specialisti l’esecuzione delle sue stampe, né mai si coglie in lui traccia alcuna di quella lotta tenace con la materia che traspare da quasi ogni lavoro del maestro di Norimberga. Amico di Erasmo da Rotterdam, Holbein guarda alla realtà , che pure sa riprodurre con un’esattezza che confina con l’illusionismo e col trompe-l’oeil, con chiaro distacco, mentre in Dürer sempre si avverte l’impegno, talvolta drammatico, di impossessarsi del Âla realtà stessa, imprimendovi il sigillo della propria alta moralità . È questa capacità di distacco, questa freddezza di osservazione che fa di Holbein il ritrat Âtista principe della sua età . Né mai potrebbe dirsi di lui quel che si dice di Dürer: che i suoi ritratti sono tutti, un poco, degli autoritratti. Hans Holbein il Giovane ricevette dal padre, Hans Holbein il Vecchio, la prima educazione arti Âstica. Il vecchio Holbein non era pittore da poco. Aveva elaborato con pazienza da artigiano e con in Âtelligenza da umanista le premesse che la tradizione pittorica della Germania meridionale e della pittura fiamminga gli offrivano per raggiungere una pittura vigorosa e penetrante e uno stile da ritrattista nella raffigurazione di soggetti sacri: la sua attenzione si concentrava sull’uomo tendendo a una resa efficace del portamento e del gesto, a una accentuata chia Ârezza icastica e alla penetrazione individuale della fisionomia entro forme plasticamente solide e anima Âte dal vigore della linea. Accoglieva anche qualche motivo architettonico e compositivo, indirettamente appreso, dall’Italia. Ma accanto al padre il giova Ânissimo Holbein vedeva al lavoro lo zio Sigmund – peraltro a noi malnoto – e soprattutto il più ammirato pittore di Augusta, Hans Burgkmair. È da credere che soprattutto da quest’ultimo, già più volte disceso in Italia e segnatamente a Venezia, egli ap Âprendesse la fluidità della pennellata e il caldo splen Âdore delle tinte. Pure, il Burgkmair non raggiunse mai quella sicura semplicità di composizione che già i primi saggi del giovane Holbein presentano, né giunse mai a sommergere pienamente nella pastosità cromatica e chiaroscurale del volume il nervoso tes Âsuto lineare che a lui discendeva dalla tradizione patria. Sicché acutamente si ripropone il problema di un precoce soggiorno del giovane Holbein in Italia. Com’è noto, Holbein dovette ancora adolescente la Âsciare la casa paterna e la città natale, se nel 1515, all’età di diciassette anni, dipingeva a Basilea quel sorprendente â— anche se mal conservato e mal giu Âdicabile â— piano di tavola con le argute storie del folletto Nemo e gli ‘inganni ottici’ di una lettera e di una carta da giuoco per Hans Baer, che nel set Âtembre dello stesso anno, gonfaloniere della città , doveva cadere nella battaglia di Marignano. A Ba Âsilea doveva raggiungerlo poco dopo il fratello Ambrogio, anch’egli distinto pittore; ma Hans si era intanto già bene ambientato nella nuova resi Âdenza, se già fornisce nell’autunno del 1516 disegni per l’illustrazione xilografica di libri all’editore Froben e data nello stesso anno il doppio ritratto del borgomastro Jakob Meyer e della moglie. Nel 1517 e nel 1519 è documentato a Lucerna, dove fra l’altro affresca la facciata della casa del podestà Ja Âkob von Hertenstein. Poiché per il 1518 tacciono le carte d’archivio, buona parte della critica suppone che in quell’anno Holbein abbia fatto un viaggio in Italia, che lo avrebbe portato a Como, a Milano e forse a Ve Ârona, dove un tempo una casa presso la porta dei Borsari presentava una decorazione pittorica del Giolfino analoga a quella del palazzetto del podestà di Lucerna. Ma altri nega la necessità di tale viaggio, ritenendo che tutti gli elementi italiani si possano spiegare con la conoscenza di stampe del Mantegna e di incisioni e xilografie lombarde. Par tuttavia stra Âno che proprio il pittore che più di ogni altro della sua terra dimostra di avere inteso i principi del Rina Âscimento italiano debba averne attinta la conoscenza soltanto a fonti parziali e indirette: tanto più che non solo molte architetture bramantesche che com Âpaiono nei suoi dipinti sembrano presupporne una conoscenza diretta, ma alcuni particolari motivi de Ârivano da opere che difficilmente saran state divulga Âte per mezzo di stampe: così nel Compianto su Cristo del polittico della Passione di Lucerna â— scomparse, nell’originale ma conservato in una copia fedele – la mano del Giuseppe d’Arimatea riproduce quella della leonardiana Vergine delle rocce, mentre altro Âve si scorgono precisi ricordi di sculture della catte Âdrale di Como. Ma soprattutto nel polittico della Passione di Basilea par di cogliere molteplici contatti stilistici col Luini, con Gaudenzio Ferrari e col So Âdoma. Se a questo si aggiunge che già nella faccia a lui spettante – che l’altra sembra di mano del fra Âtello Ambrogio – dell’insegna del maestro di scuola. datata 1516, le tre figure attorno al tavolo non solo presentano un aggruppamento straordinariamente dotato di unità e di sensibilità ritmica, ma addirit Âtura richiamano, nella mirabile fusione di movimen Âto e composizione, alle trinità degli apostoli nella Cena di Leonardo, c’è da supporre che il giovanis Âsimo Holbein abbia intrapreso il suo giro in Alta Italia sui sedici anni, subito prima di stabilirsi a Basilea. E per non lasciarlo affrontare da solo le fa Âtiche e i rischi di quel viaggio, si potrebbe supporre che si sia messo in cammino in compagnia del Burgkmair, per il quale la critica ha già formulato l’ipotesi di una nuova discesa in Italia in questo giro di tempo. Tanto più che â— e questo non mi pare sia stato ancora osservato â— opere sue del 1518 e ’19 dimostrano ormai contatti con la Lombardia (archi Âtetture bramantesche nella pala della Croce e in quella di San Giovanni, ambedue a Monaco) oltre che con la pittura veneta. Comunque sia, è certo che Holbein ricercò nel Âl’arte italiana monumentalità e decoro quasi a com Âpenso dell’oggettività e del distacco con i quali si poneva di fronte alla realtà . Ciò non significa che egli non guardasse anche all’arte dei conterranei: co Âsì il foglio su tavola, forse frammentario, di Adamo ed Eva accoglie la rara iconografia ‘affettuosa’ del peccato, inaugurata da Dürer in una pagina, certo del 1510, della Piccola Passione xilografica, ripren Âdendola tuttavia dalla stampa del 1511 di Balduny Grien; ma in luogo di ripetere il sanguigno vigore delle immagini Düreriane o la morbida sensualità di quelle del Baldung, egli contempla impassibile l’esi Âstenziale dolore dei primi uomini nell’atto di assu Âmersi la responsabilità della vita. Ancora si ricorda di una delle più intense creazioni di Dürer nel Cristo del dittico di Basilea, che certo discende dal Vir dolorum del frontespizio della Grande Passione, ma lo ricrea nell’unità plastica della veduta frontale, spo Âgliandolo della drammatica tensione dell’esemplare per presentarlo in una sofferenza tranquillamente ac Âcettata e nobilmente ingrandita dal solenne scenario architettonico. Guarda forse alla predella del politti Âco di Isenheim di Grünewald nel concepire il celebre Cristo nel sepolcro di Basilea, ma all’insistenza sui segni del disfacimento della carne, propria al grande esem Âplare, sostituisce la descrizione oggettiva e scientifica, degna di un Leonardo, del cadavere, riscattandola all’arte attraverso la perfetta inquadratura che rea Âlizza il più assoluto accordo fra la profilata continuità dell’incisivo contorno e la pienezza del volume: nasce da questo strenuo, esauriente accordo il senso di gla-cialità della morte. Anche nelle storie sacre di con Âtenuto più commovente o più drammatico, ove in parte si eccettuino le due portelle Oberried di Friburgo, dove la suggestione della pittura di Baldung introduce effetti di ‘romantica’ illuminazione ecce Âzionali, e direi non consoni al temperamento dell’ar Âtista, Holbein persegue un suo ideale di dramma se Âvero e spoglio. Nei quadri di tema sacro non narra Âtivo si afferma poi un senso di alta dignità fondata su una concezione oggettiva e laica dell’uomo. Così nella Madonna del borgomastro Meyer a Darmstadt il tipo tradizionale della Madonna di Misericordia rinasce nella solennità delle forme tondeggianti e in tranquillo equilibrio, e all’adorazione religiosa si so Âstituisce l’adempimento severo e impassibile di un rito. La pittura di Holbein vive infatti di una visione dell’uomo come essere appartenente alla società : la dignità dell’individuo non è cercata nell’universale umano e tanto meno nella scintilla divina che è nel Âl’uomo, bensì nell’accordo fra la persona e la sua posizione e funzione sociale. È questo il segreto del facile consenso che suscitano i suoi famosi ritratti a cominciare almeno da quello familiare del 1528, dove il forte naturalismo nella resa delle sembianze e nella chiarità pittorica della materia assume un più alto va Âlore di tranquilla e paga dignità dalla quasi raffaelle Âsca armonia della composizione. Gli stessi ritratti del Âl’amico Erasmo (1523), quello di Parigi con la magi Âstrale e quasi miracolosa soluzione di una veduta di perfetto profilo che pur non sopprime il senso del volume e dello spazio, e quello di Longford Castle col giuoco altrettanto accorto fra gli opposti trequarti della figura e dell’ambiente, non forzano la spiritua Âlità del soggetto, ma colgono il personaggio, con un accento lievissimo di riservata simpatia, nella sua essenza di meditatore tranquillo, di pensatore tolle Ârante e bonario. Si è già detto dell’impegno morale che Dürer metteva nel ritrarre i suoi personaggi dopo averli rispecchiati in se stesso, e si potrebbe ora os Âservare come il pur dùreriano Baldung ricerchi nel Âl’aspetto dell’individuo il segno della segreta, e tal Âvolta demoniaca, potenza della natura, o come Cranach rifletta nei personaggi che ritrae quell’irrequie Âtezza sottile che nella sua eccitata visione serpeggia in ogni aspetto della natura. Holbein è invece, e specialmente nel lungo periodo inglese, il ritrattista oggettivo. Non tanto perché la sua tecnica, arricchita ormai dall’esperienza fiamminga, gli permette una resa nitidissima e per così dir fotografica dei parti Âcolari come dell’insieme, quanto perché si pone di fronte al modello in un atteggiamento distaccato e rispettoso. Holbein non cerca né di penetrare l’uomo che ha di fronte né di proiettare su di lui i propri sentimenti: si impegna piuttosto a cogliere l’accordo fra l’aspetto del personaggio e la sua posizione sociale. Così, tanto per far qualche esempio, l’astronomo Nikolaus Kratzer vive, circondato dai suoi strumenti, dell’austerità tranquilla dello studioso, mentre Char Âles de Solier reca con sé l’imperioso orgoglio del signore feudale, Anna di Cleve assorbe il decoro del Âl’adorno costume nello sguardo dolce e modesto della nobile castellana, e sir Richard Southwell vive del Âl’assorta e mite dignità del parlamentare e del diplo Âmatico. Forse perché non era avvezzo a scrutare den Âtro gli altri, Holbein ci ha lasciato, a differenza di Dürer, così rari autoritratti, e in quello degli Uffizi, che a pochi mesi dalla improvvisa morte per conta Âgio lo mostra quarantacinquenne nel pieno delle for Âze, si rappresentò con un volto che sta fra quello soddisfatto e posato del gentiluomo e quello vivace e scrutatore dell’artigiano. Nella varietà degli indi Âvidui e dei tipi è comune a tutti uno spirito di sicu Ârezza e di tranquillità che nasce dall’accordo fra il carattere della persona e una posizione e funzione sociale di buon grado e senza problemi accettate. Né ciò va inteso — è appena il caso di avvertire -solo nell’ambito dei valori illustrativi, che anzi tra Âpassa senza residui nello stile. Dovunque la fermezza plastica e la vigorosa ma non tesa energia del segno vanno unite a una costruzione riposata e calma, a una tranquilla e profonda consonanza di colori. Si espri Âme così con alta coerenza una visione dell’uomo, sentito come tranquillo signore del mondo, sotto il segno di una dignità nobile e adorna. A questa definizione dell’arte di Holbein sembre Ârebbe contraddire la circostanza che, nella sua ric Âchissima produzione grafica, valga come capolavoro una celebre Danza macabra o Totentanz, nella quale di solito si rilevano, accanto a chiarezza e maestria, lo spirito appassionato e la ‘demonicità ’ dell’espres Âsione. Nulla di più aberrante, in realtà , di tale defi Ânizione. Che intanto non si tratta di un vero Toten Âtanz, ma, come suonano i titoli originali, d’una serie di “imagines mortis” o “simulachres et histoirees faces de la mort”, ossia una serie di quadretti di genere, dove la morte compare a interrompere le abituali occupazioni dell’imperatore e del papa, del vescovo e del consigliere civico, del ricco, del mercante, del contadino … E lo scheletro si scorge, personaggio tra i personaggi, in composizioni tranquille e di gran Âde chiarezza spaziale, prive di qualsiasi spirito visio Ânario e di impronta invece pacatamente realistica. E la stessa intenzione satirica che traspare per esem Âpio dal gesto disperato del ricco, che vede la morte rapirgli le monete, o dalla scenetta salace della morte stessa che sorprende nella sua cella la monaca fra l’alcova sulla quale siede l’amante e l’altarolo delle preghiere, non va al di là di quella arguzia bonaria che aveva ispirato al pittore diciottenne i disegni a margine sulle pagine di un’edizione dell’erasmiano Elogio della follia.
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