PITTURA: I MAESTRI: I vedutisti veneti26 Aprile 2016 di Lorenza Trucchi C’è da credere che non vi sarà per questa stupenda rassegna dedicata ai Ve dutisti Veneziani del Set tecento, appena aperta a Palazzo Ducale, il lungo e animatissimo strascico di polemiche già susci tato dalla mostra dei Guardi, ohe ebbe luogo due anni fa, a Pa lazzo Grassi, sempre nell’ambito delle biennali d’arte antica. Co me si ricorderà quella dei fratel li Gian Antonio e Francesco Guardi, fu una querelle che di lagò anche dopo l’esposizione, con il Convegno di Studi Guardeschi che vide ritinti a Vene zia molti degli studiosi più quali ficati, a dissertare su questo ve ro puzzle critico: e gli interven ti ne sono ora resi pubblici in un denso volume (Atti Guardeschi, Alfieri, 1966-67) che contie ne, appunto, tutte le relazioni e le discussioni sull’argomento, or mai posto ed esposto sul tappeto critico, in ogni sua possibile e impossibile interpretazione e, tut tavia, pei* la pertinace presa di posizione delle diverse parti, an cora non risolto e, forse, irriso lubile. Ma « il problema che uni sce e, insieme, separa i due fra telli Gian Antonio e Francesco » non entra che molto marginal mente in questa mostra dei Ve dutisti, dove, del resto, lo stesso Francesco pur con la sua inces sante vena di invenzioni, sem bra quasi dover fare i conti (e che conti!) non solo con il gran de Canaletto ma con Bernardo Bellotto. Così se c’è da supporre che questa ammirevole mostra non fomenterà nessuna grave polemica e, semmai, le inevita bili divergenze tra specialisti si limiteranno alla paternità di al cune poche opere, (i Canaletto giovanili, uno o due Maneschi, dove ancora potrebbero verificar si, malgrado le già ponderate at tribuzioni, delle opinioni discordi), è, invece, prevedibile che il con fronto diretto dei tre vedutisti stimolerà e faciliterà la definiti va « riscoperta » del Bellotto. Un artista che non solo regge la vi cinanza con il Canaletto â— che sempre più si rivela il maggio re vedutista del secolo, il vero sole dell’alto cielo quieto della Venezia del Settecento -â— ma persino sovrasta con la luce fred da del suo astro lunare, il bril lio più intenso e tuttavia inter mittente della vivida stella di Francesco. Accanto a queste tre maggiori personalità e nell’alone ineffabi le della loro arte, diversa ma non divergente, Pietro Zampetti, prestigioso direttore e regista del la rassegna, ha riunito, con il vaglio di due Comitati di esperti, le opere di Joseph Heinz il Gio vane e di Gaspare Van Wittel (che costituiscono un po’ gli an tefatti dèi Vedutismo veneziano), di Luca Carlevariis, di Marco Ricci, di Michele Maneschi e al cune rare testimonianze minori di Antonio Visentini, di France sco Zuccarelli, di Antonio Stom: 164 tra dipinti, disegni e incisio ni, collocati nella splendida cor nice dell’appartamento ducale, in un efficace e raffinato allestimen to. curato dall’architetto Umber to Franzoi. Dopo un fiacco Seicento, senza le pompe trionfanti e il « gran rumore » del barocco che da Ro ma si era propagato per l’intera Europa, ma anche senza la vita le cultura di altri centri italiani, primo fra tutti Bologna e poi Napoli e Genova, Venezia ripren de, fin dai primi anni del Sette cento, il suo scettro artistico, non tanto prolungando i fasti barocchi con il Tiepolo e il Piazzetta, quanto dando vita al fenomeno del Vedutismo. E il Vedutismo veneziano, superando la sua qua lifica di « genere », diviene pre sto una disposizione spirituale, un nuovo modo, cioè, di dispor si con analitica concretezza, di fronte al reale, inteso non più come mezzo di evasione o di sti molo fantastico bensì come espe rienza conoscitiva. Eppure que sto atteggiamento, che oggi ci pa re tanto aperto e consapevole, in una parola illuministico, fu sul nascere una banale espressione pittorica, una nuova moda, da contrapporsi al diffuso gusto del paesaggio arcadico-pastorale. Non aulico, non colto, non eroi co, né, quindi, gradito all’Acca demia, né caro ai ricchi patri zi, né adatto alle loro fastose di more, la « veduta » fu quasi un prodotto (mi si perdoni l’arido termine merceologico) di espor tazione, richiesto di preferen za dagli stranieri, dai viaggiatori che si volevano portar via il loro solare ricordo della Laguna, fissa to per sempre con esatta perfe zione realistica sulla tela smal tata da un colore perfetto. Né questo ci deve scandalizzare, ché come in altri tempi l’opulento, esi gente e spesso ottuso committen te fiammingo od olandese aveva fomentato una pittura tra le più suggestive e formalmente impec cabili, così a Venezia il miracolo si ripete e una maniera pitto rica « minore », diviene nella sua inedita disposizione, più pene trante, acuta e, quindi, critica, di fronte al reale, l’emblema stes so di una situazione storica e di civiltà. Così per opera di pochi geni anche le vedute per turisti si trasformarono in altrettante te stimonianze di una epoca e non tanto per quel che mirabilmente raccontavano quanto per quello che sottilmente sottintendevano. Cosicché in queste pulitissime immagini, dense di luce e di om bre, di lusso e di voluttà, popola te di figure leggiadre, animate da raffinati spettacoli, in questi panorami suggestivi, di una na tura ancora intatta e di una ar chitettura di incomparabile feli cità di volumi e di linee, è pos sibile intravedere tanto il rovel lo razionale e speculativo e l’aspi razione a una maggiore e più completa libertà di piaceri e di idee (« libertins et libertaires », ha definito Starobinski gli uomi ni del Settecento), quanto un’an sia pre-romantica ; ma, soprattut to, è possibile intendere il primo brivido del precario, del dubbio, la prima, consapevole sensazio ne che il reale, non sia che una fragile successione di concrete il lusioni, magari da bloccare e da fissare per sempre in una strug gente e perentoria immagine di certezza e di verità. Il Vedutismo veneziano non nasce puro: non vive di sole citazioni straniere né si alimen ta della grande eredità locale. E’ vero che dietro la « veduta » del Settecento c’è tutto l’immenso te soro dell’arte veneta; c’è, come ricorda Zampetti nella sua luci da prefazione al catalogo, « la pit tura di racconto ambientato », che parte da Gentile Bellini e più da Carpaccio, quest’ultimo, à sua volta, come ha già chiarito Longhi, sensibile nelle sue mi niate atmosfere, all’arte di Pie ro della Francesca, il primo a fare il gran miracolo di portare la luce nella pittura. E c’è Giorgione e il Lotto e Tiziano e Bassano, tutti attenti al problema del paesaggio con tale commossa partecipazione e con tale aper tura « da doversi dire », osserva Zampetti, « che esso fu uno de gli ideali della pittura veneziana del Cinquecento ». Ed è appunto questo tesoro, questa àurea ere dità, il virgulto che rinnova la pianta forte, gagliarda, ma anche un po’ troppo annosa e spigolo sa del Vedutismo nordico. Del resto che il Vedutismo sia un fenomeno nordico è cosa no ta e non vale la pena d’insister- vi. Ed era stata appunto fino al lora una prerogativa dei nordici quella capacità amorevole e in sieme fredda, ispirata e artigia nale, di rifare il reale per il rea le, di dare alla veduta una sua precisa autonomia, una sua vali dità permanente. Sotto il pennel lo paziente, obbediente, avido, dei pittori tedeschi e olandesi che numerosi soggiornavano a Roma, molto delle auliche vastità di un Poussin e delle tentazioni già ro mantiche di un Lorrain, va di sperso, si immiserisce: le polve ri d’oro dei tramonti, l’alito cal do dei venti estivi, i succosi im pasti atmosferici, scompaiono o si rapprendono in un gusto più esatto delle prospettive, in un bi sogno di elencare minuziosamen te i dettagli, di formare la scena per un racconto del quotidiano. E’, a suo modo, un impoverimen to, ma questo impoverimento si trasforma in una nuova fonte di ricchezza quando è congiunto a un temperamento appassionato, anche se non esuberante, acuto, anche se non fantasioso, come è appunto quello di Van Wittel: il pittore â— e lo ha esaurientemen te dimostrato Giuliano Briganti in un suo definitivo studio (Gaspar Van Wittel, Ugo Bozzi, edi tore, Roma 1966) â—j che fa ap punto da tramite tra l’ormai stan ca e un po’ arida veduta nordi ca e il nuovo Vedutismo vene ziano. E che il Vanvitelli meriti una valutazione più generosa di quel che fino a oggi non abbia avuto, lo provano proprio le sue opere, poste ad apertura di que sta mostra. Si veda, per tutte, il delizioso Convento di S. Paolo ad Albano, così preciso ma anche co sì commosso, con quel felicis simo brano di verde giardino che non sfigura accanto ad altre aiuole’ di quel sublime e un po’ tenebroso » giardiniere » che sa essere talvolta il Bellotto. Certo non possiamo chiedere al pittore olandese, che del resto era sostanzialmente ancora un uomo del Seicento, l’allarmato spirito critico dei grandi Veduti sti veneziani, ma Van Wittel esce lo stesso dalla schiera un po’ anonima degli adepti della « Schil- dersbent » per inserirsi di dirit to nella storia della cultura ita liana fra i due secoli. E un altro artista che forse sarebbe stato il caso di premettere come antefat to a questa mostra è Viviano Co dazzi, il cui realismo netto, spes so caratterizzato da ombre lun ghe e un po’ drammatiche, non mi pare del tutto estraneo alla formazione del Bellotto. Allorché Van Wittel, tra il 1694 e il 1G95, arriva a Venezia, Ca naletto è appena nato. E, anche in seguito, quando, nel 1717, Gio vanni Antonio si recò per la pri ma volta a Roma, non dovette conoscere direttamente il Vanvi- telli, sebbene sia certo che ne vide le opere. Più sicuro è, inve ce, l’interesse di Luca Carlevarijs per il Vanvitelli anche se la sua prima produzione è ancora lega ta al gusto romano della « vedu ta ideata » e del rovinismo, men tre i dipinti, dopo il 1707, così narrativi pur nel loro fasto sceno grafico e celebrativo, dimostrano, assieme a quella vanwittelliana, una certa influenza del Heinz il Giovane. Non farei, invece, il nome di Pannini (leggo in cata logo: «a Roma accanto al Pan nini che gli è all’incirca coeta neo… » ) che, semmai, gli fu de bitore e che il Carlevarijs non dovette neppure vedere in occa sione del suo viaggio romano, avvenuto prima del 1699, quan do Pannini, che era nato nel 1691-92, non poteva certo « inte ressarsi di nuovi valori del Vedutismo vanwittelliano » come an cora afferma il catalogo! La figura misteriosa e il tem peramento drammatico (quante affinità con il Magnasco!) di Mar co Ricci, già ampiamente analiz zati dalla critica In occasione del la mostra che ebbe luogo, nel 1963, a Bassano, tornano qui di particolare attualità per i rappor ti che il pittore friulano ebbe con il giovane Giovanni Antonio Canal. Il Ricci ci introduce in fatti nell’argomento, ancora così spinoso, della giovinezza di Ca naletto, divisa tra una tendenza scenografica, appresa dal padre, e una tentazione di evasione qua si pre-romantica: alcune di que ste sue primissime opere restano, in un certo senso, un rebus at tributivo sul quale gli specialisti si sono spesso scontrati e, pro babilmente, torneranno a scon trarsi in occasione di questa mo stra. Sta di fatto che alla sua « solare certezza », alla assorta limpidità della sua « camera otti ca », Canaletto non arriva di col po ma per gradi, come dimostra il passaggio da certi « capricci » giovanili, attribuitigli dal Morassi, al già maturo e rivoluzionario Rio dei Mendicanti. Qui il forte ordito scenografico, per il quale Brandi ha fatto opportunamen te il nome del Bibbiena, si mani festa finalmente in tutta la sua costruttiva evidenza e sorregge quest’opera ancora fluida, così in cantata nella sua livida e pure delicata atmosfera: un’atmosfera che ci dà, come poche altre, il senso languente di «una Venezia che si sbriciola e sgretola ». La sciamo dunque agli esperti, che del resto lo hanno già fatto mira bilmente, l’analisi di quale sia sta to il motivo scatenante e determi nante che produsse nel Canaletto il passaggio da modi ancora lega ti a Marco Ricci, alla resa sempre più esatta e tagliente delle pro prie vedute: la scoperta della « camera ottica » di cui parlano Mariette e Zanetti, la vicinanza con l’opera del Vanvitelli e, quin di, del Carlevarijs, la folgorante rivelazione di Vermeer, già pro posta da Brandi, sono, in effet ti, tutte ipotesi e, probabilmente, circostanze concomitanti che por tano Canaletto, poco dopo il 1723, alla conquista di quel suo stile tanto originale che pur « presup ponendo l’ambiente veneto di fatto non vi si inserisce né lo continua » (Brandi). D’allora il suo occhio « è lente, spessore di puro cristallo » e la veduta si fa stereoscopica. « Non è il volu me, non è la massa », scrive Brandi, « e neppure l’illusioni smo di uno spazio a tre dimen sioni, che ricerca il Canaletto: ma, al di là dell’illusionismo sce nografico, è piuttosto una ridu zione delle due dimensioni alla terza che egli persegue, se così possiamo esprimerci in parte astrattizzando, in parte mitologizzando l’oscuro movente formale che guida l’artista ». La perfetta equivalenza tra am bra e luce raggiunta dal Cana letto, si altera drammaticamente con Bellotto. Fin dagli inizi il giovane Bernardo mostra una personalità assai marcata e, per molti lati, opposta a quella dello zio Giovanni Antonio. Quella che era « la dorata tristezza » di Ca naletto viene ora evidenziata da una luce fredda e un po’ arti ficiale. Canaletto era stato un pit tore solare, Bellotto sarà un pit tore lunare. L’ombra più del so le è la grande alleata di Bellotto, un’ombra quasi inattesa che d’im provviso avanza sulla tela, come quando d’estate il sole, ancora al to, tramonta a un tratto e raffredda in un brivido la terra e conferisce una calma evidenza alle cose spente e, di contrasto, un bagliore innaturale a quelle ancora illuminate. Sebbene lo spirito sia ancora Giorgionesco e l’occhio veneto, tutto l’interesse formale di Bellotto va verso gli stranieri, verso i paesaggisti olan desi del Seicento, sicché di nuovo torna per lui improrogabile il no me di Vermeer e basti, in tal senso, osservare quei colori bru licanti, quelle famose macchioli ne vermeeriane che qui ritro viamo, ad esempio, nel primo piano del muro sbrecciato del l’Antico Ponte sul Po. « Niente è più fantastico della precisione », anche Robbe-Grillet ce lo ha ri cordato recentemente, e Bellotto così preciso, persino così pedan te, aggiunge al fantastico il miste ro sconcertante dell’enigma. Ed è questo enigma, che aleggia co me una seducente stregoneria nel le sale ove sono raccolte le sue famose opere provenienti da Dresda e da Varsavia, uno degli elementi di maggior fascino di questa mostra. Al polo opposto e a chiusura della rassegna, subito dopo l’epi sodio certo non determinante di Maneschi, sta Francesco Guar di. Bellotto con il suo rigore pro spettico ci ha fatto sentire il fit tizio del rococò, ci ha fatto rim proverare a Watteau i suoi giar dini e a Boucher i suoi boudoirs, ci ha fatto udire, dietro l’aria an cí³ra diffusa del minuetto, già le prime note della Carmagnola, ci ha consegnato cioè la chiave per aprire la doppia serratura del Settecento, di quel secolo che Francesco Guardi ancora ci ri consegna in tutta la sua fragile e tuttavia così accattivante gra zia. Francesco esalta, lievita la realtà dell’estro; è forse un im pulso pre-romantico, germanico che doveva pur venirgli da par te della madre, quello che lo spin ge a caricare e alla fine a tradi re il reale: ora è uno zucchero so gioco di annotazioni, di preci sazioni decorative, un revival da cineseria rococò, ora quasi un bi sogno di evadere da se stesso e dalle sue eterne « vignette per forestieri » eseguite « per la pa gnotta giornaliera ». Roberto Longhi ce lo ha detto mirabilmente in poche righe: « Francesco Guardi proveniva da una cultura più bizzarra, anima ta dal vecchio spiritello collottiano, inaspritosi nel Magnasco e sempre appiattato nell’angolo di ogni studio secentesco In veste di Arlecchino e di Coviello, di Pulcinella o di Zanni ». E difatti quel fare « troppo minuettato » disgusta talvolta per primo lo stesso Francesco e allora una nota dolente si insinua qua e là in queste sue sublimi ariette da Barcarola e tutto lo scintillio del le feste ducali, dei broccati, dei marmi, degli scenografici interni sembra percorso da una dubbio sa inedia: è una ombra spessa, netta che taglia la scena, è il so lare color d’anice della laguna che ha un improvviso tono di fiele, è il ballo patrizio che pren de un ritmo un po’ caricaturale. Così Francesco Guardi, un ar tista che forse mai ebbe consa pevolezza del proprio genio â— che del resto ben tardi gli venne riconosciuto â— ci lascia, tra al tissimi giochi di perizia e mo menti di patetico abbandono, l’immagine ultima, più struggente di Venezia all’estremo culmine della sua sublime parabola.
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