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PITTURA: I MAESTRI: Guercino. Fu un uomo timido chiuso nel suo mondo

28 Aprile 2016

di Francesco Vincitorio
[da “La Fiera Letteraria”, numero 25, giovedì 22 giugno 1967]

Come è noto, dire, Cento è dire Guercino. Tutto in questo luogo è infatti memoria di questo patriarca della nostra pittura. Ed è un orgoglio campanilistico che as ­sume i toni semplici e cor ­diali di questa terra. Baricen ­tro ferace e industrioso, tra Bologna, Ferrara e Modena, con slancio ha voluto ricorda ­re il tricentenario della mor ­te del suo maggiore figlio. E fra le varie manifestazioni, ini ­ziate alla fine dello scorso di ­cembre â— una prolusione del compianto Bottari e un con ­certo di musiche centesi del ‘600 â— ha organizzato questa mostra, composta da una ven ­tina di dipinti e circa qua ­ranta disegni. Vale a dire un omaggio diretto alla sua opera che, a mio avviso, si è risolto in una eccellente introduzione alla grande mostra del Guer ­cino in allestimento per l’an ­no prossimo a Bologna, a cura delle Biennali d’arte antica di quella città. E ciò, soprattutto, per il carattere esemplificativo di questa piccola rassegna che, sia pure per sommi capi, riesce a delinearne tutta l’attività.

I restauri compiuti per que ­sta occasione ovviamente faci ­litano questa nuova lettura to ­tale ma vorrei sottolineare co ­me, dal S. Carlo Borromeo in preghiera, in cui la pulitura ha scoperto la precoce data 1614, allo Sposalizio di S. Ca ­terina del ’50, tutto il Guerci ­no sia, in pratica, presente. E non certo secondo la tradizio ­nale, rigida suddivisione in « tre maniere », bensì nel va ­rio modularsi del suo percor ­so. Percorso, a un certo mo ­mento, chiaramente involutivo per la flessione classicista se ­guita al soggiorno romano e, per essere più precisi, dopo gli affreschi del Duomo di Pia ­cenza, ma in definitiva toccata da un sottofondo d’Accade- mia quasi fin dagli inizi. E qui mi piace citare Arcangeli quando afferma che « non c’è maestro bolognese, anche il più decisamente accademico, che sia totalmente privo di cordia ­lità sensitiva o di spunti veri ­dici, come per contro non c’è pittore a Bologna d’estro o di verità che manchi di provare la sua fiamma o le sue osser ­vazioni alla ponderazione della forma e del comporre accade ­mico ». Parole, secondo me, che aderiscono come pelle an ­che alla personalità del Guer ­cino e, inoltre, risultano pre ­ziose per capire quella sua fa ­se giovanile, in bilico tra in ­flussi ferraresi e bolognesi, e su cui non si hanno peraltro idee ancora perfettamente con ­cordi.

Natura densa di umori di Padùsa, che perciò non rima ­neva insensibile al « razzan ­te » Dosso, o meglio, alla de ­clinazione venezianeggiante che ne avevano dato lo Scarsellino e il Bonone, ma senza dubbio con una costante aspi ­razione ai bei valori formali. Di conseguenza le giovanili ro ­mantiche inquietudini finiva ­no per ripiegarsi sui veli vapo ­rosi e mastellettiani degli an ­geli e sugli orizzonti arrossa ­ti dei paesaggi, lasciando che i visi parlassero, già da allora, un linguaggio che tentava di arrotondarsi e di codificare le passioni. Anche se, grazie alla nativa concretezza naturalisti ­ca del borghigiano, forse mem ­bro, come tutti gli uomini di Cento, della « Partecipazione Agraria », egli non dimentiche; rà di sentire le sue Sante e le sue Madonne come popolane fiorenti e di dare ai Santi delle sue pale l’aspetto scavato

degli abitanti del suo borgo. Ciò chiarisce, fra l’altro, la sua devozione per Ludovico Carracci e lo spirito controrifor ­mistico, severo e confidenzia ­le insieme, che sommuove le drammatiche tele del maestro bolognese. E, a sua volta, spie ­ga la subitanea stima di Lu ­dovico per il giovane centese e il suo famoso giudizio: « è mostro di natura, e miracolo da far stupire’ chi vede le sue opere ».

Oggi, più semplicemente, di ­ciamo: un autentico creatore che, lasciate presto le storie di gusto quotidiano, tenta di trasfigurare questa duplicità della sua ispirazione attraver ­so quella pittura temporalesca e di macchia che costituì la sua gloria. E su cui sono corsi fiu ­mi d’inchiostro specie per dif ­ferenziarla dal luminismo ca ­ravaggesco e individuarvi in ­vece, in particolare per il con ­temporaneo uso del sottinsù, alcune premesse di quel ba ­rocco che doveva improntare di sé tutto il secolo. E’ inu ­tile perciò soffermarcisi trop ­po ricordando il « tuono terri ­bile del colorito » di cui parla il Calvi o il « gran contrasto di luce e di ombra l’un l’altro arditamente gagliarde; ma mi ­ste a una gran dolcezza » del Lanzi. Oppure i panneggi « in ­trisi e lampeggianti » del Ma ­rangoni o il chiaroscuro di sen ­so meteorologico e neoveneto degli altri. Basterà dire che da qui parte quell’etichetta di « mago » che fece di Cento una specie di santuario della pittu ­ra italiana e che tanta fama do ­vette influire piuttosto negati ­vamente su quelle che erano le sue « vere » ragioni. Tanto più in un uomo timido e chiu ­so nel suo piccolo mondo dal quale così a malincuore si al ­lontanava. E soprattutto in un uomo (con il fratello Paolo An ­tonio oculatissimo amministra ­tore) troppo sensibile al gusto dei committenti. I quali, in quegli anni, chiedevano le idea ­lizzate bellezze reniane e per ­ciò, ancor prima del suo defini ­tivo trasferimento a Bologna per sostituirvi il Reni, tenta ­vano e corrompevano la sua autenticità. Autenticità di un pittore di razza che in altre condizioni (e certo con altra forza etica e capacità di dura ­ta d’ispirazione) non avrebbe meritato il soprannome di « Sfumante » che gli appioppò l’Albani.

Un progressivo tradimento di se stesso, dunque, pieno peral ­tro di ripensamenti, che nei disegni appare molto meno evidente, forse perché, allora più di oggi, essi erano una espressione più personale e sincera. In questa mostra ne sono stati esposti una quaran ­tina, tutti di proprietà dell’in ­glese Denis Mahon che del Guercino è uno dei maggiori studiosi. E data la loro crono ­logia, il discorso che se ne può trarre vale, pressappoco, come se avessimo davanti agli occhi « i dieci interi volumi di carte disegnate di sua ma ­no » di cui parlano gli storici. Specie alcuni sono di straor ­dinaria bellezza e conferma ­no la sua eccezionale attitudi ­ne grafica. Una capacità di pre ­sa diretta di cose e di sangue, con un segno ora aggroviglia ­to e insistito fino quasi a fo ­rare i visi, ora abbreviato e guizzante a cogliere fulminea ­mente la dinamicità di un ge ­sto e la naturalezza o l’espres ­sività di un atteggiamento. Senza contare che, attraverso quelle incessanti variazioni su uno stesso tema, così tipiche nei disegni del Guercino, è la sua natura più segreta che af ­fiora.

Intimo rovello per ottenere la perfezione e innanzi tutto prova di un attaccamento al proprio lavoro. Come ha scrit ­to il Bottari: « un lavoro che egli gira e rigira dall’interno in tutti i particolari, in tutte le possibili movenze, in una sperimentazione continua, spesso ossessiva o addirittura visionaria ». Una ricerca alla quale, anche nella sua tarda età, non sapeva e non voleva rinunciare, come dimostra quella lettera che egli scrisse nel ’66, cioè lo stesso anno del ­la morte, a don Antonio Ruffo in Sicilia: « Senza però inten ­dermi obbligato al detto (di ­segno) perché voglio poter cangiare conforme il bisogno per miglioramento dell’opera ».

E piace immaginare questo colloquio a distanza tra il pit ­tore ormai vecchio e il com ­mittente che, insieme al Papa Ludovisi, forse più ne aveva capita l’intima vocazione. Tan ­to da chiedergli un pendant per l’Aristotele già acquistato direttamente dal Rembrandt e istituire così una prefigurazio ­ne di quel raffronto su cui in seguito molto si sarebbe sbiz ­zarrita la critica. Due pittori senza dubbio sostanzialmente diversi, come d’altronde diver ­sa era la vita di un borgo campagnolo immerso nella den ­sa atmosfera della bassa emi ­liana rispetto ai fitti, piccoli traffici del quartiere ebraico di Amsterdam, nel quale Rembrandt prenderà ispirazione per la sua epopea umana. Ma forse con una comune contra ­stata drammaticità. Nell’olan ­dese più interiorizzata e fon ­da, nel nostro più istintiva e. come si diceva all’inizio, con quel sottofondo accademico che ne condizionerà, ora più, ora meno, tutta l’attività crea ­tiva.

 


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