PITTURA: I MAESTRI: Guercino. Fu un uomo timido chiuso nel suo mondo28 Aprile 2016 di Francesco Vincitorio Come è noto, dire, Cento è dire Guercino. Tutto in questo luogo è infatti memoria di questo patriarca della nostra pittura. Ed è un orgoglio campanilistico che as sume i toni semplici e cor diali di questa terra. Baricen tro ferace e industrioso, tra Bologna, Ferrara e Modena, con slancio ha voluto ricorda re il tricentenario della mor te del suo maggiore figlio. E fra le varie manifestazioni, ini ziate alla fine dello scorso di cembre â— una prolusione del compianto Bottari e un con certo di musiche centesi del ‘600 â— ha organizzato questa mostra, composta da una ven tina di dipinti e circa qua ranta disegni. Vale a dire un omaggio diretto alla sua opera che, a mio avviso, si è risolto in una eccellente introduzione alla grande mostra del Guer cino in allestimento per l’an no prossimo a Bologna, a cura delle Biennali d’arte antica di quella città. E ciò, soprattutto, per il carattere esemplificativo di questa piccola rassegna che, sia pure per sommi capi, riesce a delinearne tutta l’attività. I restauri compiuti per que sta occasione ovviamente faci litano questa nuova lettura to tale ma vorrei sottolineare co me, dal S. Carlo Borromeo in preghiera, in cui la pulitura ha scoperto la precoce data 1614, allo Sposalizio di S. Ca terina del ’50, tutto il Guerci no sia, in pratica, presente. E non certo secondo la tradizio nale, rigida suddivisione in « tre maniere », bensì nel va rio modularsi del suo percor so. Percorso, a un certo mo mento, chiaramente involutivo per la flessione classicista se guita al soggiorno romano e, per essere più precisi, dopo gli affreschi del Duomo di Pia cenza, ma in definitiva toccata da un sottofondo d’Accade- mia quasi fin dagli inizi. E qui mi piace citare Arcangeli quando afferma che « non c’è maestro bolognese, anche il più decisamente accademico, che sia totalmente privo di cordia lità sensitiva o di spunti veri dici, come per contro non c’è pittore a Bologna d’estro o di verità che manchi di provare la sua fiamma o le sue osser vazioni alla ponderazione della forma e del comporre accade mico ». Parole, secondo me, che aderiscono come pelle an che alla personalità del Guer cino e, inoltre, risultano pre ziose per capire quella sua fa se giovanile, in bilico tra in flussi ferraresi e bolognesi, e su cui non si hanno peraltro idee ancora perfettamente con cordi. Natura densa di umori di Padùsa, che perciò non rima neva insensibile al « razzan te » Dosso, o meglio, alla de clinazione venezianeggiante che ne avevano dato lo Scarsellino e il Bonone, ma senza dubbio con una costante aspi razione ai bei valori formali. Di conseguenza le giovanili ro mantiche inquietudini finiva no per ripiegarsi sui veli vapo rosi e mastellettiani degli an geli e sugli orizzonti arrossa ti dei paesaggi, lasciando che i visi parlassero, già da allora, un linguaggio che tentava di arrotondarsi e di codificare le passioni. Anche se, grazie alla nativa concretezza naturalisti ca del borghigiano, forse mem bro, come tutti gli uomini di Cento, della « Partecipazione Agraria », egli non dimentiche; rà di sentire le sue Sante e le sue Madonne come popolane fiorenti e di dare ai Santi delle sue pale l’aspetto scavato degli abitanti del suo borgo. Ciò chiarisce, fra l’altro, la sua devozione per Ludovico Carracci e lo spirito controrifor mistico, severo e confidenzia le insieme, che sommuove le drammatiche tele del maestro bolognese. E, a sua volta, spie ga la subitanea stima di Lu dovico per il giovane centese e il suo famoso giudizio: « è mostro di natura, e miracolo da far stupire’ chi vede le sue opere ». Oggi, più semplicemente, di ciamo: un autentico creatore che, lasciate presto le storie di gusto quotidiano, tenta di trasfigurare questa duplicità della sua ispirazione attraver so quella pittura temporalesca e di macchia che costituì la sua gloria. E su cui sono corsi fiu mi d’inchiostro specie per dif ferenziarla dal luminismo ca ravaggesco e individuarvi in vece, in particolare per il con temporaneo uso del sottinsù, alcune premesse di quel ba rocco che doveva improntare di sé tutto il secolo. E’ inu tile perciò soffermarcisi trop po ricordando il « tuono terri bile del colorito » di cui parla il Calvi o il « gran contrasto di luce e di ombra l’un l’altro arditamente gagliarde; ma mi ste a una gran dolcezza » del Lanzi. Oppure i panneggi « in trisi e lampeggianti » del Ma rangoni o il chiaroscuro di sen so meteorologico e neoveneto degli altri. Basterà dire che da qui parte quell’etichetta di « mago » che fece di Cento una specie di santuario della pittu ra italiana e che tanta fama do vette influire piuttosto negati vamente su quelle che erano le sue « vere » ragioni. Tanto più in un uomo timido e chiu so nel suo piccolo mondo dal quale così a malincuore si al lontanava. E soprattutto in un uomo (con il fratello Paolo An tonio oculatissimo amministra tore) troppo sensibile al gusto dei committenti. I quali, in quegli anni, chiedevano le idea lizzate bellezze reniane e per ciò, ancor prima del suo defini tivo trasferimento a Bologna per sostituirvi il Reni, tenta vano e corrompevano la sua autenticità. Autenticità di un pittore di razza che in altre condizioni (e certo con altra forza etica e capacità di dura ta d’ispirazione) non avrebbe meritato il soprannome di « Sfumante » che gli appioppò l’Albani. Un progressivo tradimento di se stesso, dunque, pieno peral tro di ripensamenti, che nei disegni appare molto meno evidente, forse perché, allora più di oggi, essi erano una espressione più personale e sincera. In questa mostra ne sono stati esposti una quaran tina, tutti di proprietà dell’in glese Denis Mahon che del Guercino è uno dei maggiori studiosi. E data la loro crono logia, il discorso che se ne può trarre vale, pressappoco, come se avessimo davanti agli occhi « i dieci interi volumi di carte disegnate di sua ma no » di cui parlano gli storici. Specie alcuni sono di straor dinaria bellezza e conferma no la sua eccezionale attitudi ne grafica. Una capacità di pre sa diretta di cose e di sangue, con un segno ora aggroviglia to e insistito fino quasi a fo rare i visi, ora abbreviato e guizzante a cogliere fulminea mente la dinamicità di un ge sto e la naturalezza o l’espres sività di un atteggiamento. Senza contare che, attraverso quelle incessanti variazioni su uno stesso tema, così tipiche nei disegni del Guercino, è la sua natura più segreta che af fiora. Intimo rovello per ottenere la perfezione e innanzi tutto prova di un attaccamento al proprio lavoro. Come ha scrit to il Bottari: « un lavoro che egli gira e rigira dall’interno in tutti i particolari, in tutte le possibili movenze, in una sperimentazione continua, spesso ossessiva o addirittura visionaria ». Una ricerca alla quale, anche nella sua tarda età, non sapeva e non voleva rinunciare, come dimostra quella lettera che egli scrisse nel ’66, cioè lo stesso anno del la morte, a don Antonio Ruffo in Sicilia: « Senza però inten dermi obbligato al detto (di segno) perché voglio poter cangiare conforme il bisogno per miglioramento dell’opera ». E piace immaginare questo colloquio a distanza tra il pit tore ormai vecchio e il com mittente che, insieme al Papa Ludovisi, forse più ne aveva capita l’intima vocazione. Tan to da chiedergli un pendant per l’Aristotele già acquistato direttamente dal Rembrandt e istituire così una prefigurazio ne di quel raffronto su cui in seguito molto si sarebbe sbiz zarrita la critica. Due pittori senza dubbio sostanzialmente diversi, come d’altronde diver sa era la vita di un borgo campagnolo immerso nella den sa atmosfera della bassa emi liana rispetto ai fitti, piccoli traffici del quartiere ebraico di Amsterdam, nel quale Rembrandt prenderà ispirazione per la sua epopea umana. Ma forse con una comune contra stata drammaticità. Nell’olan dese più interiorizzata e fon da, nel nostro più istintiva e. come si diceva all’inizio, con quel sottofondo accademico che ne condizionerà, ora più, ora meno, tutta l’attività crea tiva.
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