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PITTURA: I MAESTRI: Memling: La dolce superficie del reale

27 Settembre 2012

di Maria Corti
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1969]

Vi sono artisti che danno l’impressione di essere arrivati sulla terra proprio nel luogo e nel momento ad essi congeniali; difatti il mondo fa subito loro fe ­sta, sente che non gli riserveranno né turbamenti né offese. Ecco la città fiamminga di Bruges nella secon ­da metà del secolo XV e Memling: una perfetta al ­leanza, una pacata complicità, il pittore tacitamente promosso a fornitore ufficiale di immagini e visioni, tanto che non ci riesce di guardare i suoi quadri, sparsi nelle pinacoteche del mondo, senza pensare ai verdi e quieti canali di Bruges, ai ricchi mercanti o banchieri che gli commissionavano le tavole e alle tranquille beghine che vi pregavano davanti. Una so ­cietà agiata e soddisfatta, che voleva essere quello che era: un crogiolo di commerci, dove il cuore di mercanti fiamminghi, italiani (i Portinari, i Tani dei quadri di Memling), anzi di tutta Europa, acquistava negli affari elasticità e ritmo, dove le incredibili be ­ghine, dedite al culto della Madonna, le pie donne sbocciate dalla civiltà mercantesca, vivevano una vita senza età e senza esaltazione mistica, fra bianchi mu ­ri e tranquillanti opere di bene. Qui, dopo le tappe più o meno formative di Colonia e di Bruxelles, ap ­prodò Memling nel 1465 e restò: la borghesia di Bru ­ges venne a trovare in lui l’interprete della sua visio ­ne dei grandi avvenimenti della religione e della vita. Nacquero così, uno dopo l’altro, più numerosi che presso qualsiasi pittore del Quattrocento, i tanti di ­pinti, queste gallerie di ricchi che celebrano i santi e di santi celebrati dai ricchi: e la cosa mirabile è che il pennello di Memling abbia dato a questi ricchi ef ­fimeri e a questi santi borghesi l’eternità dei veri uo ­mini e dei veri santi.

Il grande ruolo, nella pittura di Memling come nell’universo statico delle beghine, spetta al gruppo della Vergine col Bambino. Per l’interminabile incon ­tro coi due, circondati armonicamente da angeli e santi, tanta limpida grazia è stata creata da Memling nel corso di molti anni, con assoluta fedeltà a un ideale modello; sicché i quadri su tale tema appaiono le innumerevoli varianti di un’unica invariante. Sog ­getto stupendo per un esame semiologico: un ideale-di bellezza o modello formale scaturito una volta, e che ripullula, si riinventa di tavola in tavola: analoga struttura compositiva, frontale e verticale, analoga simmetria e misura ritmica, nonostante il mutare de ­gli sfondi e dei dettagli ornamentali. Nel centro siedi’ lei, che pare sola, come se un vuoto la separasse dal bambino in grembo; palpebre gravi abbassate, naso lungo e affilato, le labbra un poco turgide, in un im ­mobilismo contemplativo che diremmo medievale, non fosse per quel tanto di ‘imagerie pieuse’ che por ­ta queste Vergini fuori dal medioevo; sotto l’arco dei cigli lo sguardo, mai concentrato su un pensiero, è so ­lo pensosamente placido, un poco disarmante. Lo spi ­rito divino aleggia qui vago come una metafora; sul ­la pelle liscia delle Madonne di Memling non ci soni pori da cui entri un’idea dominante, di tormento o di gioia. In questo pittore religioso senza idea religiosa la fragilità dell’immaginazione è però controbilan ­ciata dalla raffinatezza stilistica, che si fa a suo modo poesia. Il Dittico di Maarten van Nieuwenhove parla da sé: che felicità e sapienza profuse nella cauta mi ­sura dei gesti, nelle mani della Vergine, le cui dita squisite creano in corrispondenza con quelle del bim ­bo un ritmo, uno spazio musicale intorno alla mela rossa, l’appiola, che a sua volta riprende il motivo co ­loristico del manto; e la suggestiva catena di riprese continua a legarci l’occhio: ecco le mani giunte di Maarten davanti a un libro d’ore che poggia su un cuscino rosso e, nello sfondo, uno specchio convesso, motivo ereditato dagli Arnolfini di Jan van Eyck. in cui tutte le mani e tutti i rossi del primo piano si col ­legano in minuscolo, felice equilibrio. Ogni cosa in questo dittico partecipa di uno strano movimento im ­mobile, il moto della verticalità e l’immobilismo della simmetria che si intrecciano affabilmente; ma una sorta di respiro vitale prorompe dal ventitreenne Maarten, che pare ancora in ansia di essere adulto, quasi spaesato nel gesto della preghiera e nell’aria in ­cantata del dittico.

Se mai pittore fu afferrato dalla gioia del mestiere, questi dovette essere Memling; e ancora più delle Madonne dovettero dargliela le deliziose figurine femminili, sacre e profane, sparse nei suoi dipinti di epoche diverse e accostabili benissimo, in quanto la pittura di Memling in circa trent’anni ebbe così poco interno sviluppo (salvo nei ritratti) da poter quasi apparire simultanea. Chiamiamone alla ribalta qual-cuna: la santa Barbara in lettura (nel Matrimonio mistico di santa Caterina dell’Ospedale di San Gio ­vanni di Bruges), la Maddalena che piange (nella Deposizione di palazzo Boria), la principessa Sigilindis e Blandula nel Reliquiario di sant’Orsola (L’arrivo a Colonia). Longilinee, sciolgono nei movimenti la dolcezza delle loro lievi figure; vagamente mondane nei bei broccati, sembrano volate dalle sale dei palaz ­zi quattrocenteschi di Bruges ai piedi della Croce o della Vergine, ancora un po’ stupite nel nuovo ruolo, loro avvezze al mondo non dei grandi ma dei piccoli sentimenti. Insomma, piange proprio per la morte di Cristo la Maddalena di palazzo Boria, con quella mossa così vezzosa di fanciulla imbronciata? E santa Barbara, avviluppata nel damasco verde, col piglio capriccioso, non è per caso intenta a leggere un ro ­manzo cavalleresco? Sulla via del sospetto ci pone Memling stesso, per l’assoluto agio con cui muove le sue figurine femminili sul lastricato del lungo Reno di Colonia, quando finalmente la sequenza narrativa della Leggenda di sant’Orsola lo libera dallo schema del quadro sacro. Damaschi, broccati blu e oro, ver ­de e oro, rosso e oro, marron e oro, quest’oro che so ­stituisce la luce, velluti, nastri di seta, veli stupenda ­mente ariosi, monili gemmati appartengono a queste donne più intimamente della santità; materiate di ta ­li arabeschi intessuti ci vengono incontro bellissime dalla distanza dei secoli. La santità appare un loro prezioso accessorio. Vi è un caso in cui persine l’atto fatale dell’angelo nunziante si fa accessorio: nell’An ­nunciazione di New York (Collezione Lehman), dove balza protagonista nella piena chiarità la veste bian ­ca che copre una fragilissima Vergine con le lusinghe del suo panneggio.

Tuttavia in un dipinto Memling, messo da parte tutto il raffinato e gioioso guardaroba delle sue crea ­ture, osa il nudo: la Betsabea che esce dal bagno, uno dei rari nudi femminili fiamminghi, in cui il pittore si affida solo al corpo della donna, sbocciato da un lenzuolo bianco in mirabile movimento; il braccio destro alzato, la gamba sinistra protesa fuori della vasca, le membra che si dispiegano al limite fra la pudicizia e i sensi, in un’atmosfera di ariosità da canzone a bal ­lo quattrocentesca. Ma è la stessa donna che, rivesti ­ta di damasco e invitata a pregare, congiungerà le mani, si incanterà su un Libro d’ore. Non è un caso che la sua ‘femme de chambre’ abbia il volto di una Madonna di Rogier van der Weyden: mirabile incon ­tro di immagini sacre e profane. Daccapo ci doman ­diamo: pittore religioso, Memling? Tale lo videro i romantici e i vittoriani per la lievità pensosa, il deli ­catissimo incanto del gioco lineare, il patetico che nu-tre la sua fede; ma se spirito religioso è intensità e introspezione, l’epiteto spetta di diritto al maestro Rogier van der Weyden, non all’allievo, il cui lin ­guaggio musicale si fa ascoltare su ben altro registro. E i concittadini? Forse essi non si posero troppe do ­mande, conquistati da una pittura in cui il divino ap ­pariva così definitivamente imparentato con l’umano, dove le sventure (strage degli innocenti, martirio di san Sebastiano) erano trattate con la stessa grazia un po’ smemorata con cui si descrive la felicità.

I concittadini lo elessero subito a loro ritrattista; scelta che non si può non definire impeccabile, e da vari punti di vista. Partiamo da quello dei commit ­tenti: Memling non ha mai la violenza dell’indiscre ­zione nei loro riguardi, anzi col disegno privo di orli scabri e il felice colore li protegge contro qualsiasi minaccia di intrusione di quel guazzabuglio di passio ­ni e contrasti oscuri che è l’essenza dell’anima; essi sono a metà strada, già lo vide da par suo Panofsky, tra le figure violentemente caratterizzate di Rogier van der Weyden e quelle individualissime di Jan van Eyck. Come dire che nei personaggi di Memling c’è una bell’anima a tutto tondo, una giustezza di misura che non contiene in sé nulla di straordinario, di sin ­golare, ma è umana. Non sono forse i vari Moreel, Floreins, Portinari, e rispettive mogli, esseri che pos ­siedono tutto quello che rende la vita gradevole? Lo si legge nei loro occhi, che hanno qualcosa di pensoso senza promettere molto. Ma cosa chiederanno, allora, tutte quelle armoniche e diritte mani congiunte? Nuova gradevolezza? Forse anche il divino si piega alla misura squisitamente terrena di queste preghie ­re? C’è sempre in Memling una tregua d’armi fra lui e la realtà, c’è come un tacito accordo fra lui e i suoi committenti: egli li rappresenta con assoluta na ­turalezza e sincerità come essi vogliono essere, così mette in luce una certa immagine di una società benestante e pia; e poiché il guardare più che l’inter ­pretare gli da felicità, accarezza l’ideale di descrivere i suoi clienti in modo sempre più perfetto sicché il fia ­to dei borghesi di Bruges non basti alla lode. Matura così, per tappe successive, la sua arte di ritrattista; dal mezzo busto con mani giunte e fondo scuro, so ­brio, come nel ritratto di Tommaso Portinari, egli passa a sperimentare il ritratto di tre quarti alla ma ­niera di Petrus Christus e Bouts, ma con sviluppi au ­tenticamente originali: eccoci all’Uomo con la meda ­glia.

La novità sta in un’immersione totale dell’uomo nel paesaggio; niente inquadrature di finestre, niente colonnine o archi, ma il personaggio solo di contro agli alberi, al fiume, ai colli verdeazzurri. Mentre l’ingrandirsi della testa, rispetto alla struttura prece ­dente dei ritratti, sembra a prima vista una ricerca di introspezione, il paesaggio con le nuvole che volano verso i capelli dell’uomo è il nuovo elemento disindi ­vidualizzante. La terra c’è, dietro a lui, e ammicca con la sua placidezza opulenta. Anche il paesaggio, come tutto in Memling, assume il carattere di una costante; dal momento in cui la natura passa nell’oc ­chio del pittore, si trasforma in uno stupendo luogo comune: fiumi o strade ondulate, un castello o una fattoria nello sfondo, magari un ponticello, cigni, ca ­valli bianchi, animali invitati a forza a corrispondere all’ideale di natura dell’artista, a collaborare alla sua invenzione di un paesaggio sentimentale. In verità, ciò che qualche volta ci sfugge non è il senso che Mem ­ling dava al paesaggio, ma quello che diamo noi a certi suoi paesaggi; perché, guarda un po’, esercitano una magìa. Per esempio, questo dell’Uomo con la medaglia. Un paesaggio riposante, d’accordo; un sen ­so che in natura non esistono sconvolgimenti e fata ­lità, d’accordo; una terra dove si pensa subito che nascono le rose, che essa è fatta per la passeggiata fe ­stiva del cittadino di Bruges e magari, all’ombra del tondo confortevole fogliame verde, per un sonnellino pomeridiano. Ma vi è dell’altro: questo paesaggio tranquillo e senza segno di inquietudine respira den ­tro la tela, con la sua dolce ariosità è lo spazio in cui si adempie la vita di tutte le figure ideate da Memling. C’è sempre una luce che affonda all’orizzonte, un’ora di tramonto ad accogliere la vaga riflessione del santo o del banchiere, anche dell’uomo con la medaglia. In questo ritratto la stilizzazione del primo piano e dello sfondo raggiungono una sintesi mirabi ­le: allora non conta più che l’ora vespertina sia un luogo comune del paesaggio sentimentale in sé e di quello di Memling nel caso specifico; conta che tra lo sguardo assorto dell’uomo, l’antica medaglia romana dalla lontanissima esistenza e l’esigua luce del tra ­monto si crea un’unità spirituale, che ha piena attua ­zione sul piano stilistico. E che dire dei riflessi viola ­cei, fragili, agonizzanti che accomunano la vecchia moneta alle foglie degli alberi toccate dal tardo sole?Il modo più gradito per Memling di avvicinarsi alla realtà è descriverla; egli non aspira a sollevare veli né lo attirano abissi, è un mirabile narratore im ­parentato coi miniaturisti: si pensi alle Sette gioie di Maria e ai dipinti del Reliquiario di sant’Orsola. È un fatto che Memling non porta l’episodio sacro o leggendario in aiuto alla realtà, ma di nuovo, come per le sue belle sante, la realtà in aiuto al sacro e ai leggendario; per così dire, il profano è da lui eletto a protezione del sacro, il reale è chiamato in soccorso del fabuloso. Un reale che è fatto di oggetti concreti, uno scrigno, un’armatura, un’imbarcazione, una ca ­setta dal tetto spiovente, oggetti che a volte ci colpi ­scono per la forza della loro esistenza individuale, una realtà che è fatta di animali (i deliziosi cani, ca ­valli bianchi, biondi, neri, azzurri), di costumi di vita e colore locale, ma da cui come nelle miniature o nei Misteri medievali è assente la dimensione del tempo: tutto si spiega su un piano sincronico, dove alle misu ­re del tempo si sostituiscono quelle della simmetria stilistica. Nelle Sette gioie si va nientemeno dall’An ­nunciazione alla discesa dello Spirito Santo: tanti mi ­nuscoli quadretti, in sé delimitati, vivono insieme del ­la propria vita autonoma, episodica, e di quella del ­l’intero quadro, che ne struttura i rapporti su un bre ­ve spazio di terra. E questo breve spazio di terra con ­tiene tuttala Palestina: il lago di Tiberiade, il Mar Morto, piccoli colli che come arredi di palcoscenico delimitano le scene, il Tabor, Gerusalemme e i soliti castelli di Memling, le solite navi e monti, tanti mon ­ti all’orizzonte. Certo i membri della Gilda dei Con ­ciatori, per cui i coniugi Bultins commissionarono il quadro nel 1480, lo avranno guardato a lungo irretiti dalla simultaneità delle trame episodiche, da questa lussureggiante selva narrativa, che è l’immagine di come Memling sentiva la storia sacra. Una maniera medievale di sentirla, in cui il limite fra reale e fabu ­loso scompare e soprattutto scompare la prospettiva del tempo, sostituita da un’amichevole dimensione di eterna contemporaneità, e dello spazio. Ma proprie di Memling pittore è quel cogliere la storia, e quindi anche la storia sacra, in una pausa di riposo, in cui ogni sgomento si placa, come quando in natura si placa d’improvviso un forte vento e tutto resta stra ­namente immobile.

Se le storie del Reliquiario di sant’Orsola non hanno il rigore stilistico delle Sette gioie, esse si ren ­dono indispensabili a capire il temperamento di Memling. Remota, stupefacente favola quella di san ­t’Orsola e dietro cui sta un testo famoso, una specie di ‘best seller’ dell’epoca, la Leggenda aurea di Jacopo da Varagine, domenicano ligure del tredicesimo secolo, opera di cui circolavano a Bruges nell’ultimo quarto del quindicesimo molti esemplari in latino e in volgare, sia manoscritti sia a stampa. Memling co ­nobbe la Leggenda aurea, alcuni particolari del Reli ­quiario e di altre tavole sacre lo provano; era fatale l’incontro fra l’innocenza fabulosa del libro e il gusto narrativo di Memling. Possiamo persine immaginare il pittore davanti alla pagina così sospesa fuori del tempo: “C’era in Bretagna un re molto cristiano, chiamato Noto o Mauro, che mise al mondo una figlia chiamata Orsola. E questa era così buona e saggia e bella che la fama di lei si stendeva in tutto il mondo”. La favola si dipana nella sua purissima as ­surdità: di Orsola si innamora il figlio del re d’In ­ghilterra, pagano, di nome Eterio, e la chiede in spo ­sa. La fanciulla pone la più bizzarra delle condizioni di nozze: lo sposerà se egli le darà undicimila vergini con cui Orsola vuole fare un pellegrinaggio a Roma della durata di tre anni; in questi tre anni Eterio do ­vrà battezzarsi e studiare i testi sacri. Il giovane im ­prevedibilmente accetta. Le undicimila vergini giun ­gono da tutte le parti del reame; da notarsi che quanto più la vicenda è fantastica, tanto più il buon Jacopo si affanna a descrivere parentele fra le vergi ­ni, i vescovi, i principi, che secondo lui nel quinto se ­colo dominavano il Nord; analogo da questa prospet ­tiva l’atteggiamento del pittore, che inserirà e am ­bienterà la storia nel Quattrocento ricorrendo a par ­ticolari realistici come la riproduzione delle autentiche chiese di Colonia. Proprio dallo sbarco in questa città inizia infatti il racconto pittorico. Vi è però una differenza fondamentale tra le due narrazioni, e sta nel loro epilogo: nella Leggenda aurea il finale del pio travaglio, la sorte di questo spiegamento di fedi femminili sono tragici; la storia è veramente una sto ­ria di sangue: gli Unni “levando alte grida, si getta ­rono sulle pie vergini e le massacrarono tutte, come dei lupi si lanciano contro un gregge di agnelli ” ; quanto a Orsola, il principe, “furioso di vedersi disdegnato, la attraversò da parte a parte con una frec ­cia”. Di contro, la narrazione di Memling, il quale non possiede in alcun modo il senso del tragico (le varie Passioni e Deposizioni parlano da sé al proposi ­to); avviene così che il massacro non appare per nul ­la un evento drammatico, ma una di quelle incon ­gruità della vita che ci obbligano a vedere interrotta una bella storia avventurosa. Ecco da una parte gli Unni e il loro principe, che sembrano giocare al tiras ­segno, dall’altra una deliziosa bionda Orsola dalle spalle strette, quasi da adolescente, il giustacuore di vaio, il mantello listato d’ermellino, una fanciulla in posa gentile che Memling si rifiuta assolutamente di rappresentare ferita o uccisa. Per la stessa ragione per cui nel dipinto dello sbarco a Colonia, forse il più bello della serie, intessuto di letizia, egli ha relegato l’annuncio di sventura, dato a Orsola dall’angelo, in un piccolo riquadro all’estrema destra del dipinto. L’attenzione di Memling è altrove, per esempio alle imbarcazioni così esattamente riprodotte di prua e di poppa, alle manovre di sbarco, alla porta fortificata di Colonia, ma soprattutto alle undicimila vergini, che sono diventate un gruppetto di. belle figliole in gi ­ta di piacere per il mondo, una gita di cui Memling è il regista. Le fa salire e scendere liete dalle imbarca ­zioni, camminare per strade in salita; nella partenza da Basilea ce ne sono persine di ritardatane, che ar ­rivano frettolose in barchetta. Una leggenda tragica si trasforma, così, in un canto elevato alla giovinezza femminile.

Così la pittura di Memling, propizia ai temi reli ­giosi, li negozia dolcemente sintonizzandoli a un senso quotidiano del vivere, a una ‘pietas’ affabile e ragione ­vole. Può in tal modo far confluire quello che l’in ­trospezione separa. Allentando i vincoli del dramma ­tico e del mistico, egli libera elementi concilianti e distensivi; la grazia poco poco malinconica e la genti ­lezza dei suoi dipinti hanno la sorgente in comune coi suoi difetti: l’incapacità di guardare nel profondo. Forse una sola volta ci è riuscito: nella Passione del Trittico di Lubecca, la cui risonanza tragica può es ­sere simboleggiata dallo sgomento di quel sole che pesa sul cielo nuvoloso. Che cosa è successo a Mem ­ling? Il trittico è del 1491, precede di tre anni la morte del pittore. Forse egli si è sentito finalmente a fronte del suo destino? Si è trovato sospeso in un pu ­ro intervallo fra divino e umano, lui che per tutta la vita li aveva imparentati, e forse persino confusi?

 

 

 

 


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