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PITTURA: I MAESTRI: Morandi sesto grado

16 Novembre 2017

di Dino Buzzati
[dal “Corriere della Sera”, domenica 19 luglio 1970]

Cesare Brandi è uno scrittore di classe che con ­temporaneamente esercita il mestiere di studioso e cri ­tico d’arte. Non è detto, in ­fatti, che le due cose coin ­cidano.

Vige in Italia la comica persuasione che chi si in ­tende, poniamo, di numi ­smatica, di astrofisica, di limnologia o, come nel no ­stro caso, di estetica e cri ­tica d’arte, per ciò stesso sia in grado di scriverne, rivol ­gendosi non già soltanto al ­la ristretta cerchia dei col ­leghi e degli allievi (adeguatamente iniziati), ma al vasto pubblico, per esempio, di un giornale quotidiano. Il che non è vero.

Lo scrivere sarà forse il più stupido dei mestieri ma è pur sempre un mestiere che deve essere imparato, e facile sicuramente non è. Perciò molti luminari di questa o quella scienza e di ­sciplina, ammirevoli quando parlano dalla cattedra, e af ­fascinanti in privato collo ­quio, come mettono nero su bianco diventano un’afflizio ­ne. Ed anziché affidare le lo ­ro deficitarie e fumosissime prose a degli specialisti che le traducano in italiano, le pubblicano pari pari in volumi e in articoli, coi lamentosi risultati che tutti sanno. E’ una piaga da noi mol ­to diffusa.

Brandi nel suo campo è un luminare ma, a latere, sa scrivere molto bene, an ­zi ha la personalità e l’au ­torità di uno scrittore au ­tonomo che come tale esi ­sterebbe anche se facesse l’agricoltore o il capitano di mare. E’ ovvio che dall’ars scribendi le sue prestazioni di critico acquistano luce e prestigio singolari.

Se ne hanno nuove prove nel volume Morandi lungo il cammino (editore Rizzo ­li, con 24 riproduzioni di disegni) che raccoglie dodi ­ci scritti, tutti posteriori al ­la monografia di Brandi sul grande pittore, che  è del 1942. Non si tratta quindi di un’opera formalmente or ­ganica. Ma l’unità, concet ­tuale e stilistica, è strettis ­sima.

Stavolta, tranne che negli incantevoli « Appunti per un ritratto di Morandi », Bran ­di non è l’ispirato saggista, il diarista di viaggi, l’evo ­catore di paesi e atmosfere poetiche; è soprattutto il cri ­tico.

Come tale â— e qui parla non un critico collega ma semplicemente un giornali ­sta e scrittore â— mi sem ­bra ch’egli eccella in elegan ­za, rigore, vorrei dire orgo ­glio mentale. Di regola, an ­che se di illustre firma e di brillante tessitura, i saggi sull’arte moderna risultano oltremodo opinabili. E mol ­to spesso si risolvono in capziosi e astrusi giochi ver ­bali che lasciano il tempo che trovano e il lettore in letargo.

Invece Brandi, quando si impegna, affronta il tema â— ad esempio: perché un’ope ­ra è bella? Per quale stra ­da l’artista è giunto a tan ­to risultato? â— quasi si trattasse di un problema matematico; con l’intento di dimostrare la sua tesi co ­me due e due fanno quat ­tro, in una serrata catena logica.

Equazioni del genere di ­ventano dei « sesti gradi » cerebrali in una materia co ­sì fluida, impalpabile e in ­commensurabile come l’es ­senza dell’arte. Anche quan ­do il soggetto è un perso ­naggio che nessuno può met ­tere in discussione come Giorgio Morandi.

Di queste scalate estrema ­mente difficili egli qui ce ne offre particolarmente due, nel primo e nell’ultimo ca ­pitolo, che sono inediti; e senza l’ausilio dei « mezzi artificiali », i quali talora lo tentano per il gusto di sfog ­giare la qualità e l’addestra ­mento della propria materia grigia (mi ricordo un suo acrobatico saggio su Pino Pascali, scultore agli anti ­podi di tali virtuosismi bi ­zantini, giocato tutto sulle figure retoriche).

Nel primo, Brandi tenta, e ci riesce a ricostruire, lo ­gicamente, in base a quale processo, partendo da quali premesse, grazie a quali in ­tuizioni, Morandi riuscisse a «trasferire il codice del ­l’incisione in codice di pit ­tura » cioè a realizzare sul ­la tela il proprio mondo poetico, e ciò per mezzo di quello ch’egli chiama « co ­lore di posizione », sua mas ­sima trovata stilistica.

Nel secondo, forse ancora più vertiginoso, applicando lo strumento dell’analisi lin ­guistica ai disegni a matita del maestro, dimostra come l’incertezza o tremolio dei contorni e delle linee, che ricorda gli scarabocchi dei bambini, non sia già un ca ­so, né una trascuratezza, né un difetto, bensì necessaria funzione della nuova strut ­turazione spaziale-luminosa dell’immagine verso cui l’ar ­tista genialmente tendeva. A tale scopo egli percorre un itinerario, per dirla al ­pinisticamente, così delica ­to, esposto e povero di ap ­pigli, che non è agevole se ­guirlo. Ma una volta arriva ­ti in vetta lo si ringrazia di cuore come si fa con la guida che, magari con qual ­che strappo di corda, ci ha fatto scalare un’ardua gu ­glia per la via più ambizio ­sa. E mi è venuta in mente la straordinaria soddisfazio ­ne intellettuale che, da ra ­gazzo, mi procurò La filo ­sofia della composizione di Poe, concettualmente assai più semplice ma condotta con altrettanta splendida progressione dialettica.

In un solo punto, che non riguarda la critica ma l’ar ­te profetica, non sono d’ac ­cordo con Brandi; quando a pagina 94 sostiene che la pittura propriamente detta non esiste più e che i pit ­tori i quali oggi continua ­no a dipingere coi pennelli non sono che « numeri in ritardo », come quelli del lotto. Io sono invece con ­vinto che fra non molto si tornerà precisamente alla pittura dipinta; e che sui giochetti oggi di moda si faranno delle belle risate. Ammesso che io sia ancora al mondo, mi piacerebbe, caro Brandi, darci appunta ­mento fra una decina d’an ­ni: non occorre di più. Ma questo con Morandi non c’entra.


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