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PITTURA: I MAESTRI: Perugino: Sublimazione senza dramma

10 Aprile 2018

di   Carlo Castellaneta
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1969]

Una galleria di Madonne, di santi, di armigeri soa ­vi, di implorazioni e drappeggi:
quale peggior requi ­sito in tempi di contestazione? Tale può apparire al primo incontro, a una superficiale lettura, l’opera del Perugino. Del resto, un’arte siffatta, che sem ­bra nascere condannata alla perfezione e al formali ­smo, rischia â— ai giorni nostri più inclini al ‘carat ­tere’ che allo stile â— di aver poca presa sul piano emozionale.

Vi sono coevi del Perugino di cui ognuno saprebbe citare le opere più celebri o l’aneddotica saliente. Di Pietro Vannucci, entrambe sono familiari ai soli spe ­cialisti. Una ragione in più, dunque, per riproporre il discorso su un Perugino diverso, sul quale l’ombra del ­l’allievo Raffaello non cada così perentoria come qual ­che dipinto sembra suggerire.

Molto si è scritto, sulla scorta di un passo del Vasari (“Fu Pietro persona di assai poca religione, e non se gli poté mai far credere l’immortalità dell’anima”), e dibattuto intorno al suo preteso o negato agnostici ­smo. Bisogna dire, anzitutto, che sebbene il soggetto debba essere, in pittura, puro pretesto pittorico, è dif ­ficile sottrarsi del tutto ai significati della rappresen ­tazione. Ma, se lo spettacolo resta condizionato dal suo contenuto religioso (quelli borghesi nasceranno di lì a pochi anni nei Paesi Bassi), è pur vero che l’occhio deve imparare a coglierne le virtù formali, ad avven ­turarsi in ricognizioni nuove, le quali saranno di volta in volta il paesaggio, l’architettura, l’anatomia, e in ­fine quella dimensione spaziale che il Berenson rilevò per primo nell’arte peruginesca.

Se poi fosse, il Perugino, artista miscredente, è affare che non ci riguarda. A noi piace immaginarlo, come Galileo, costretto all’ipocrisia per campare la vita, il che è fenomeno che si perpetua oggidì. E che gli piacesse campare bene, lo testimonia la biografia del Vasari: “Aveva ogni sua speranza ne’ beni della fortuna, e per danari avrebbe fatto ogni male contrat ­to. Guadagnò molte ricchezze, e in Fiorenza murò e comprò case; ed in Perugia ed a Castello della Pieve acquistò molti beni stabili”.

Un pittore di santi che non crede ai santi, ma sa che essi sono l’unico tema della sua epoca. Un artista che non ha quasi coscienza di essere tale, e perciò non ri ­vendica per se stesso alcuna libertà. Mai un’invenzio ­ne fantastica, mai un colpo d’ali. Non un genio, certo. Ma la compostezza fatta regola di mestiere. Una mu ­sica d’archi lieve e un po’ scolastica, attenta all’effetto dell’insieme, affinché nessuno strumento vi primeggi.

È dentro questi limiti che va cercata la grandezza del Perugino. L’autoritratto del Cambio è, sotto questo aspetto, rivelatore: il volto di un cittadino che potrem ­mo definire ‘uomo-medio’ del Rinascimento. Lionello Venturi lo descrive “un po’ rozzo, un po’ goffo, un lavoratore bonario”. Semmai un capomastro, rissoso ma uso a riverire i potenti, con lo scetticismo sul lab ­bro di un umbro del Quattrocento, ma senza nulla di umanistico, anzi con un rifiuto dell’intellettualismo che animava altri colleghi suoi, da Botticelli a Leonardo.

Dunque un uomo qualsiasi, sposato e padre di fa ­miglia, e pur capace di prodigi, capace di sublimarsi dinanzi al muro bianco di una cappella da affrescare, dinanzi a una tavola posta sul cavalletto.

Il primo straordinario esempio ce lo offre nel 1473. a venticinque anni, con le Storie di san Bernardino. Personaggi e architetture qui son ben altro che puro mestiere. La Guarigione della ragazza o il Miracolo dell’Aquila inventano nuovi rapporti di spazio tra la figura umana e la realtà fisica circostante. I pilastri istoriati sono canne d’organo di un invisibile concerto. La musica esce attraverso il portale sulla campagna. Una luce attualissima, da parco lampade, bagna i personaggi come su un set cinematografico. Gli attori sono presi dalla realtà: contadini, lavandaie, mozzi di stalla travestiti da frati, da beate, da paggi. Trasfi ­gurati dal pennello in un minuetto immobile, sovru ­mano. Il Perugino regista insegna ai suoi umili eroi la grazia inimitabile degli dèi, il modo in cui si tiene la mano su un fianco, l’atteggiamento delle mani in pre ­ghiera, la distanza da tenere tra nobile e plebeo. Per ­sine le finestre, come nel Miracolo dell’Aquila, man ­dano echi moderni, e sono le finestre che troveremo socchiuse sui pomeriggi della pittura metafisica di De Chirico, e ancora riprese dal Novecento italia ­no, da Funi a Carrà, cariche di mistero e di magica attesa.

Ecco un esempio in cui il nostro occhio di mo ­derni, esercitato a cogliere di un dipinto aspetti mi ­nori ma più ‘espressivi’, trova da sé nuovi valori. È un’operazione che ripeteremo spesso, con il Perugino, soprattutto in presenza delle opere sue più celebrate: un modo di sfuggire all’ovvio cercando nel partico ­lare la scintilla che fa scoccare l’emozione. È il caso della Crocifissione con santi del Trittico Galitzin: una volta scontata la bellezza della luce sacra che piove sulla scena, paesaggio e drappeggio rivelano piccole meraviglie. La pupilla allora diventa un infrarosso che fruga la boscaglia alle spalle di san Gerolamo, si smar ­risce nelle pieghe della tunica rossa di san Giovanni, nel limpido specchio d’acqua che sta alle spalle del Crocifisso, sorprende inattesi segni di vita in una città che pareva morta, pura decorazione. È come se di fronte alla perfezione perseguita, e raggiunta, dall’ar ­tista, il nostro sguardo di spettatori tenda a ricercare le tracce, invece, dell’imperfetto, dell’abbozzo, e per ­ciò dell’umano.

Alla fine, la rappresentazione sacra è solo un pre ­testo per contrabbandare, con i sembianti della Ver ­gine o della Maddalena, una certa concezione della pittura e della classicità, la stessa che ispirerà Raffaello. Invano vi cerchiamo testimonianze documentarie: la storia medesima ne esce quasi beffata, irrisa da que ­sta sovrannaturale eleganza. Le fattezze dei sudditi dei Baglioni, i nasi grifagni e le bazze che pur sono reperibili nei paggi fiorentini del Botticelli, qui sono sottoposte al ricalco della grecità. La lavandaia, per la gloria di Cristo, si fa regina, e il mozzo di stalla cherubino.

Guardiamo il San Sebastiano di Stoccolma: una statua ellenistica calata entro uno stupendo scenario leonardesco. Il suo strazio non ci tocca, come non ci tocca nell’altro San Sebastiano, del Louvre, o in quel ­lo della Madonna fra due santi agli Uffìzi. Le frec ­ce che lo trafiggono non sono mai state scagliate. Il Perugino dipinge malvolentieri il sangue. Ne trove ­remo infatti pochi grumi in tutto l’arco della sua pro ­duzione. E così le lacrime, gocce di rugiada deposte sull’orbita delle beate. I comprimari delle Crocifissioni assistono a ciglio asciutto. La grandezza non con ­cede abbandoni.

In un solo caso, nell’affresco che è anche il suo capolavoro (la Consegna delle chiavi della Sistina), un’aria drammatica soffia sulla scena. Il ciclo que ­sta volta mostra cirri più scuri, l’ombra proiettata dal sole sembra foriera di tempesta, e gli apostoli sono uomini di carne mescolati a facce di mercanti, coin ­volti in una sorta di misteriosa congiura. Dalla borsa che tiene alla cinta, Giuda (quarto da sinistra) potreb ­be estrarre un pugnale. Ma soprattutto sono le figu ­rine in secondo piano (sulla destra, in atto di racco ­gliere e lanciare pietre) a introdurre l’elemento del dramma.

Il Perugino sembra qui essersi lasciato andare a una tentazione non solo realistica ma narrativa. E se in ­sistiamo su questa ‘scompostezza’ è perché essa reste ­rà un episodio. Tuttavia, al di là della olimpica sere ­nità subito ritrovata, le immagini della Sistina pro ­pongono una dimensione inattesa del Perugino, quasi una spia degli eventi che in quegli anni insanguinano la signoria di Perugia, le feroci lotte di fazione tra i Baglioni e gli Oddi, un clima di tradimenti e vendet ­te, di delazioni e rappresaglie. Le picche e le strisce impugnate dagli armigeri, i loro elmetti luccicanti, le balestre e gli scudi non sono più elementi da parata bensì ordigni di violenza quasi contrapposti simboli ­camente al pacifico gesto di Cristo.

La maestria nel ritrarre gli atteggiamenti, anche dove appaiano innaturali, è uno dei punti di forza nell’arte di Pietro Vannucci. La plasticità delle figure, la scioltezza delle membra, l’incarnato e i chiaroscuri sono tali da farci dimenticare il loro reale significato. Dinanzi a dipinti come la Visione di san Bernardino o la Madonna del sacco o la Deposizione di palazzo Pitti siamo di fronte a pure armonie di colore, rigo ­rosi concerti di prospettive, polifonie tonali dominate da quella irreale luce che sta come una lampada ac ­cesa alle spalle del quadro. I fusti sottili degli alberi si stemperano contro questo fondale arcano, prepa ­rano vedute immobili, soavi anche quando la roccia prende il sopravvento sul verde della campagna. Vi fa capolino un Trasimeno leggiadro, il paesaggio tur ­rito si arrende volentieri ai boschi di lecci, un’arcadia ante-litteram di laghetti e ponticelli là dove il pae ­saggio reale mostra ancora oggi un’aspra bellezza di colline sassose e ponti levatoi. È la strada che va da Città della Pieve a Urbino, cioè dal Perugino a Raffaello, cavalcando acrocori, espugnando fortezze, po ­nendo e levando assedi. Una strada seminata di saccheggi e di omicidi, di colpo pacificata dal pennello dell’artista. Come se, su un campo di battaglia cospar ­so di caduti, echeggiante del lamento dei feriti, qual ­cuno all’improvviso imbracciasse un violino.

Un gradino sotto, siamo nel manierismo, nel vir ­tuosismo fine a se stesso, nella formula. E chiunque è in grado di indicare da sé gli esempi nei quali la Pietà rimane aneddoto, la Grazia non riesce a decollare, la Devozione mima se medesima.

Altro discorso, invece, per la ritrattistica. Anche qui, forti della testimonianza del Vasari (“era tal ­mente l’arte sua ridotta a maniera, che e’ faceva a tutte le figure un’aria medesima “), i detrattori del Pe ­rugino vi hanno visto una fiacca ripetizione di motivi formali. Certamente non è il caso del bellissimo Fran ­cesco delle Opere, né della Maddalena, né del San Giovanni Guadalberto dell’Assunzione. Qui lo scavo psicologico sembra anticipare di un secolo l’età della grande ritrattistica.

Valga per tutte il ciclo di figure affrescate tra il 1496 e il 1507 nel Collegio del Cambio di Perugia. Profeti, sibille, savi, ed eroi che vanno contemplati in primo piano per goderne tutta la modernità del segno. E il superbo Salomone dipinto con una libertà inven ­tiva quasi cinquecentesca.

Al visitatore del Cambio tutto ciò può forse sfug ­gire, ammirato dagli arredi d’epoca che mobiliano la sala, distratto dalle decorazioni del soffitto, impossi ­bilitato a una lettura più dettagliata, che solo un li ­bro può offrirgli. Ed è proprio l’evidenza della ripro ­duzione a consentirci di godere in ogni particolare l’espressione di un volto, di apprezzare cioè interamen ­te il Perugino che rompe gli schemi del ‘finito’ me ­dievale, dell’artista che si libera dell’accademia e in ­dica nuove soluzioni.

Non è compito di uno scrittore pesare quanto deb ­ba il Perugino alle architetture di Piero o agli sfu ­mati di Leonardo. Né quanto e in che misura gli sia maggiore l’allievo Raffaello. Ogni artista regala alla storia dell’arte un pezzo piccolo o grande di poesia. E la poesia del Perugino è tutta qui: un mestiere che cer ­ca di sopraffare la forza dell’ispirazione, anzi temendo l’ispirazione come una componente mistificatrice.

È stato scritto che Pietro Vannucci, sposo a “una bellissima giovane” che portava “leggiadre acconcia ­ture”, fosse a tal segno preso dalla grazia di lei da modellare su quella bellezza le sue figure femminili. Ma il Perugino â— lo abbiamo detto â— non era un intellettuale. Un poeta umanista come il Poliziano gli sta agli antipodi. Il Perugino era un pittore di bottega, come tanti del suo tempo, il quale aveva per credo il lavoro ben fatto, l’esecuzione perfetta, la con ­segna entro i termini stabiliti.

Per raffigurare il bello, egli non ha bisogno di modelli carnali. Quando, agli inizi del Cinquecento, met ­te mano allo Sposalizio della Madonna (con un im ­pianto che verrà ripreso pari pari da Raffaello), Pietro ha passato la cinquantina. Professionalmente è un uomo ‘arrivato’. Come artista ha già detto quel ch’ ­aveva, da dire. Ma in quest’opera è come se volesse affidarci una summa di tutto il suo lavoro, un com ­pendio del suo credo estetico: ogni particolare è a punto e l’insieme è un motore perfetto che può sop ­portare qualunque numero di giri. Invano lo sfidiamo a rivelare una pecca. Questa perfezione ci respinge e ci affascina. È un tutto-tondo nel quale non possia ­mo entrare, nel quale non troviamo spiragli per infi ­larci e mescolarci alla scena. La nostra partecipazione è condannata a restare ‘al di qua’, l’emozione rischia di tradursi in dispetto.

La verità è che la ‘cifra’ del Perugino è, come m diceva all’inizio, nella compostezza, nell’immobilità, nella morbida eleganza che obbedisce a un dettato in ­teriore, e dunque tanto più difficile da far proprie. Un museo delle cere dove le statue muovono le lab ­bra e pronunciano parole che il nostro udito terreni -non afferra.

Certo, anche una ripetizione di soggetti e di mani ­chini. E allora, quando la vena è meno felice, resta il guizzo del colore, l’incanto di questa tavolozza dove il rosso fa da padrone. Ma un rosso sdrammatizzato an ­ch’esso, il rosso che vediamo nelle smaglianti fotogra ­fie delle indossatrici, il rosso portato con l’ocra, il blu e l’argento, il rosso folgorato dall’obiettivo a pochi centimetri dalle lampade.

È questo rosso a durare nella memoria, dopo una visita al Perugino. Un colore pieno di echi e di risonanze, sul quale facciamo passare una serie di volti. variamente atteggiati, di cui non serberemo alcun ri ­cordo. L’impressione (e sarebbe facile provarlo apren ­do e chiudendo gli occhi di fronte a un suo dipinto è fortemente cromatica in virtù, crediamo, di questo rosso che continua a restare acceso sotto le palpebre, a comporsi e a scomporsi nelle pieghe del panneggio, ad arroventarsi nei copricapi, simile a una resistenza elettrica.

Rossa è sempre la tunica della Vergine perché il suo incarnato ne abbia risalto; rossi sono i mantelli dei santi perché son l’unico premio alle loro rinunce: ros ­sa la calzamaglia del paggio affinché la composizione sia calda come un tappeto; un’orgia di rosso nei tondi, in modo che diventino soli splendenti. Mai fuoco, mai sangue: un broccato da portare i giorni di festa, come forse lo portava la famiglia Vannucci quando usciva la domenica per la messa.

Una lezione di formalismo? Anche, e non inutile oggi che l’arte, per uscire dal vicolo neo-realista, si è avventurata per sentieri senza ritorno. Una lezione soprattutto di moralità del mestiere, un manuale di deontologia ad uso dei pittori che verranno dopo di lui e che periodicamente, a seconda dal variar delle mode, torneranno a studiarlo.

Sotto questo profilo, il Perugino può ancora dirci molto, anche se i tempi in cui viviamo sono i meno propizi a celebrare la grazia come fine, ad ascoltare in silenzio la musica d’organo che aleggia sotto le volte a crociera del Collegio del Cambio, ma che possiamo udire ancora più solenne sotto le logge create dalla mano del pittore: un’aria monteverdiana che intriga la lettura, dapprima sommessa, poi in cre ­scendo fino ad esplodere nella prospettiva magica dell’Annunciazione.

Ciò che noi definiamo classicità fu moda, tenden ­za, ma anche ricerca del sublime. Ad esso ambivano gli artisti del Rinascimento, musici o poeti o pittori che fossero. A superare, infine, la materia stessa con la quale lavoravano; a renderla eterea e immortale. Il Perugino è stato un momento, forse tra i più rag ­giunti, di questa ricerca.

E davanti alle sue tavole anche noi ristiamo, in punta di piedi, colpiti dalla grazia, rapiti in una spi ­rale di flauti verso i lidi dell’ascesi.

 

 


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Bart