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PITTURA: I MAESTRI: Picasso: Una poesia tutta nel presente

10 Luglio 2018

di Franco Russoli
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1972]

La natura è una cosa, la pittura è un’altra. La pittura è un equivalente della natura.
Picasso

Una cosa è parlare di come e quando Picasso ha impiegato e impiega modi cubisti per esprimersi, ed altra cosa è parlare del periodo, dal 1907 al 1915, in cui egli ha elaborato e applicato, prevalentemente se non esclusivamente, tale sistema linguistico. Tuttavia i due argomenti sono strettamente collegati, interdi ­pendenti. Per “dire le cose nel modo che gli sembra più naturale”, Picasso ha inventato nuovi modi di espressione, o ne ha interpretati altri di artisti e cul ­ture diverse, pronto sempre a cambiarli secondo le esigenze del motivo o dell’idea da esprimere. Sino al 1913 si tratta di cambiamenti successivi di manie ­re, ma in seguito si assiste all’alternanza e all’uso simultaneo di stili differenti, persine entro una stes ­sa opera. Tale ‘disponibilità formale’ si dispiega in tutte le sue gamme soltanto dopo gli anni di elabora ­zione del cubismo analitico. Ne deduciamo che nel ­l’applicazione di tale linguaggio Picasso aveva matu ­rato un suo concetto fondamentale: l’arte è sostanzial ­mente segno e forma e colore che non riflettono la natura come essa è, ma che comunicano l’idea che un artista ha della natura. Sono ugualmente ‘convenzio ­ni’ (‘bugie’ che l’artista impiega per convincere gli altri della propria verità) sia le strutture formali che restituiscono l’immagine degli aspetti naturali, sia quelle che ne rendono per analogia la sostanza fisica o il significato ideale. Anche le cose e la materia in sé, che a pari titolo e diritto del segno, del colore e della forma, l’artista può utilizzare come elementi del repertorio pittorico e plastico, hanno lo stesso signifi ­cato e valore di sigle formali.

Fu proprio l’esperienza cubista, nel suo progres ­sivo svolgimento verso adozioni sempre più diramate di strumenti di espressione, che condusse Picasso al recupero persine dell’apparenza fenomenica delle cose e della loro immagine convenzionale. Il cubismo, ban ­co di prova per anni della sua ansia di conoscere gli orizzonti e i confini della pittura, per farla uscire dalle secche dell’imitazione naturalistica e dell’astrazione simbolista, non fu per Picasso un traguardo di cristal ­lizzazione linguistica, ma la verifica della necessaria libertà e disponibilità formale.

Questo risulterà dall’esame della sua attività cu ­bista, dal momento in cui, tornando da Gosol nell’au ­tunno del 1906, abbandonò la formulazione arcaiz ­zante dell’immagine, ispirata alla scultura iberica, per saggiare un impasto esplosivo di contrastanti ricette formali, sino a quando, nel 1915, riappaiono nella sua opera i modi espressivi della figurazione ‘classica’.

Nella primavera del 1907 Picasso mostrò a pochi amici, lasciandoli quasi tutti sbalorditi e sgomenti, un grande quadro ideato e lavorato in mesi di osti ­nata fatica, di solitudine disperata: era Le bordel d’Avignon, che doveva molti anni dopo essere cono ­sciuto sotto il titolo di Les Demoiselles d’Avignon. In quest’opera, che aggrediva e rovesciava ogni princi ­pio codificato di ritmo e di bellezza, di struttura com ­positiva e di coerenza formale, tutti ormai riconoscono il punto di partenza per la rivoluzione cubista. Ne sono stati esaurientemente studiati gli aspetti stilistici, i riferimenti culturali, la genesi e le trasformazioni dagli studi preparatori alle due fasi di lavorazione della stesura in cui Picasso la abbandonò. Si è messo giustamente in evidenza come gli elementi del dipinto più direttamente premonitori del linguaggio cubista siano lo scardinamento del telaio prospettico rinasci ­mentale, la visione simultanea di cose disposte in di ­versi punti dello spazio e la giustapposizione di diffe ­renti immagini dello stesso oggetto, che in natura si avrebbero soltanto in sequenza successiva girandogli intorno. Si è notata anche l’esasperazione dei volumi che riducono le figure ad aspri incastri di forme essen ­ziali, e la sostituzione del colore timbrico, locale, al colore tonale, ambientale. I diversi imprestiti formali dalle più varie culture, che Picasso aveva prima messo a frutto in successivi periodi ben caratterizzati (come l’epoca blu o quella rosa), dall’arte egizia alla greca e alla romana, dalla cultura iberica agli affreschi del Medioevo catalano, dal Greco a Ingres a Gauguin, qua si mescolano in una infernale miscela cui fa da filtro e da reagente l’arte di Cézanne. Si è visto infine come l’arte negra (rivelata probabilmente a Picasso, dopo l’inizio della lavorazione del quadro, dai suoi amici Matisse, Vlaminck, Derain, che già ne erano collezionisti) fosse subito da lui interpretata in senso strutturale e di simbolo ‘razionale’, mentre fino allora era stata spunto a caratterizzazioni espressioniste op ­pure a sintesi decorative. E proprio la sintassi dell’arte negra sarà un modello linguistico per la pittura cu ­bista.

Nessun’altra grande opera di quel periodo rom ­peva così decisamente il corso del naturalismo e del simbolismo ottocenteschi ed enunciava i principi fon ­damentali di una nuova concezione della pittura. La joie de vivre di Matisse, esposta nel 1906, era una splendente sintesi di strutture cézanniane e di ‘linee-forza’ dell’Art Nouveau entro l’Eden simbolista delle ‘ombre cinesi’ di Gauguin, e le Bagnanti di Derain, dello stesso anno, fondevano Cézanne e Gauguin in un primitiveggiante tentativo di cristallizzazione del naturalismo impressionista. Quanto a Braque, i cui quadri del 1908 furono per primi chiamati ironica ­mente ‘cubisti’, per tutto il 1907 restò preso dal tentativo di far quagliare il colore fauve in solidi cézanniani. Fu appunto la vista delle Demoiselles d’Avignon, in una visita a Picasso alla fine dell’anno, la sua folgorazione sulla via del cubismo.

Ma, di quel dipinto, oltre al suo valore per la nascita del cubismo in generale e per il nuovo corso dell’arte moderna, ci interessa qua particolarmente quanto esso annuncia di un carattere che sarà proprio del ‘cubismo di Picasso’, che è anche dire quanto esso conserva di quella propensione a creare scene e rap ­presentazioni simboliche, nel senso dell’allégorie réelle (come Courbet chiamò il suo Atelier du peintre), che sin dai primi anni della sua attività testimoniano quadri di Picasso come Evocazione – La sepoltura di Casagemas (1901) o la Vita (1903). Un’intenzione mai abbandonata: e basti pensare a Guernica, alla Guerra e alla Pace, sino alle recenti tele sul tema del vecchio e l’amore.

La prima idea delle Demoiselles era una composi ­zione realistica, con una scena di bordello in cui si incontrano un marinaio intento a mangiare assieme alle ragazze, e uno studente che entra portando in mano un teschio. La redazione finale ci mostra sol ­tanto cinque nudi di donna fra tendaggi, e della frutta su un tavolo in primo piano. Sembra che tutta la tema ­tica simbolista dell’ ‘amore e morte’ sia stata rifiutata da Picasso, ma non è così. Egli ha eliminato i riferi ­menti iconografici tradizionali o naturalistici dell’alle ­goria, cercando di incarnare l’idea nella ‘vita delle forme’. Ed ecco che il personaggio del memento mori si è mutato nella solenne figura che avanza sollevando la tenda sullo spettacolo del piacere terreno, simbolo formale tratto dall’arte egizia quanto dalla scultura romanica. Nelle due figure a braccia sollevate nel cen ­tro della composizione, luminosi corpi scattanti in una inconscia quanto provocatoria energia vitale, e ma ­schere prive di ogni espressione, di ogni partecipazione morale, la sigla della primitiva scultura iberica si pre ­sta a ‘comunicare’ la primordiale innocenza del pia ­cere, anche senza la presenza descrittiva del marinaio contrapposto allo studente. Infine, alla destra del di ­pinto, l’esperienza, la stanchezza e la volontà del male, la dannazione della vita, sono ‘concetti’ affidati ai ‘segni’ desunti dall’arte negra. Una lettura banalmente semplicistica, si dirà; ma Picasso è semplice nella sua filosofia morale. E sarà proprio questa elementare ‘psicologia della forma’ che darà a ogni sua invenzione stilistica la forza folgorante di una rivelazione di va ­lori basilari, ‘semplici’, della realtà. Nei suoi quadri cubisti questo basilare concetto della forma come ele ­mento di comunicazione lo terrà immune da ogni ap ­plicazione sistematica del ‘modo espressivo’ in senso di pura costruzione geometrica o di ritmo decorativo. È quanto videro subito artisti come Metzinger, il quale nel 1910 scriveva che un dipinto di Picasso “è l’equivalente sensibile e vivo di un’idea, l’immagine totale “; e scrittori come Léon Werth, che nello stesso anno diceva: “le forme create da Picasso non sono schemi astratti … e la sua pittura, mentre è innovatrice, è anche essenzialmente tradizionale, collegata sia alle grandi tradizioni dell’istinto, sia a quelle della mente”. Si veda intanto come per tutto il 1907 Picasso si dedichi, anche scolpendo figure in legno dipinto, a saggiare le possibilità espressive del linguaggio dell’arte negra (maschere itumba, bronzi del Gabon, bassorilievi dogon, maschere congolesi e wobé, ecc.), metten ­dolo in continuo rapporto con le sintesi volumetriche romaniche, per cogliere quelle ‘forme primarie’ che più direttamente esprimano, “nei limiti delle possibi ­lità che il disegno e il colore comportano, tutto ciò che la ragione e i nostri occhi percepiscono”. Sono così ripresi motivi del suo vecchio repertorio, come la Maternità, o singoli elementi della narrazione simbo ­lica tentata nel “bordel philosophique” delle Demoiselles, come la Danzatrice con i veli e la Natura morta con teschio (il memento mori, in cui appare, come nelle allegorie seicentesche, la tavolozza del pittore). Dal punto di vista linguistico, sono soprattutto il segno e il colore che in queste opere Picasso conduce alla più esasperatamente calcolata essenzialità e asprezza per risolvere il problema di una dinamica spaziale sulla superficie piana della pittura. Ma, verso la fine del ­l’anno, Cézanne, ‘rivisitato’ nella grande retrospettiva del Salon d’Automne, lo riconduce a saggiare le pos ­sibilità di enucleare l’energia vitale e il significato delle figure del vero in una impostazione, concettuale e non naturalistica, dei volumi nello spazio. Sarà, il suo, un Cézanne che niente conserva di naturalistico, e di cui egli utilizza la scansione volumetrica e le torsioni li ­neari per isolare oggettivamente le forme primarie dall’ambiente atmosferico, proprio al contrario degli intenti del maestro di Aix. Un Cézanne, insomma, visto attraverso la ‘razionalità’ dell’arte negra (che esprime l’ ‘idea’ e non l’ ‘aspetto’ delle cose) e l’in ­tuitiva semplificazione formale del Doganiere Rousseau. Si vedranno gli effetti di questa nuova ricerca in tutta una serie di opere monumentali e scabre del 1908, nelle quali la riduzione delle immagini a bloc ­chi, sbalzati e aggregati in un colore caldo e denso graduato in poche gamme, può veramente già sugge ­rire il termine ‘cubismo’, inteso in un’accezione ap ­prossimativa ed esteriormente formale.

L’amicizia, Tre donne nel bosco, gli studi per la Cena riprendono ancora motivi apparsi nel periodo delle Demoiselles, ma da questo nuovo angolo visuale che mette in luce i valori plastici come dinamismo organico di volumi essenziali, e non più come arcaica monumentalità. E in quadri come la Donna col ven ­taglio o la Contadina le sintesi ‘negre’ cui Picasso ora guarda non saranno più quelle lineari e cromatiche delle maschere congolesi striate, quanto quelle volumetriche di statuette del Gabon e della Costa d’Avo ­rio. Nei paesaggi dipinti alla Rue-des-Bois e nelle na ­ture morte, l’impostazione cézanniana è come ripor ­tata a uno stadio di incantata apparizione del vero attraverso semplificazioni alla Rousseau.

Nel novembre del 1908 Braque espose alla galleria Kahnweiler un gruppo di opere dipinte durante l’esta ­te all’Estaque, e Louis Vauxcelles, recensendo la mostra, scrisse: “Disprezza la forma, riduce ogni cosa, luoghi, figure e case, a schemi geometrici, a cubi”.

Notava anche che Braque era stato incoraggiato dal ­l’esempio di Derain e di Picasso, e che forse lo osses ­sionavano Cézanne e l’arte statica degli egizi. A parte il giudizio qualitativo, del resto tutt’altro che feroce, aveva visto giusto, e aveva indicato le basi di quella intesa con Picasso che doveva portare agli sviluppi fondamentali dello stile cubista. Dal 1909 si può dire infatti che le opere dei due artisti si rispondano tra loro dialetticamente e armonicamente come in un duo che improvvisi, durante una jam-session, sullo stesso tema. E Picasso, dal quale Braque aveva avuto la spinta per trovare il proprio stile, ricaverà ora qualche suggestione dai quadri dell’amico. Forse, all’inizio, so ­prattutto ne colse l’invito a ‘ragionare’ più analitica ­mente la struttura formale del quadro, a svilupparne meno intuitivamente e con maggior sistematicità gli elementi linguistici di base. Certo è che nelle opere di quell’anno Picasso elabora una trama cristallina di immagini che, da una scandita articolazione spaziale di volumi compatti, giunge a un vibrante incastro di forme che si compenetrano come in una rifrazione prismatica degli aspetti della realtà.

Il sodalizio con Braque porta Picasso a formulare un linguaggio che realizzi la struttura razionale delle cose, piuttosto che la forma simbolica del loro signi ­ficato psicologico. Braque aveva dichiarato: “Devo creare un nuovo genere di bellezza, la bellezza che mi appare in termini di volume, di linea, di massa, di pe ­so, e attraverso questa bellezza interpretare la mia impressione soggettiva”. Non si conoscono dichiara ­zioni che Picasso abbia fatto in quel periodo sul pro ­prio lavoro, ma le opere testimoniano come alla sin ­tesi in funzione emotiva (le forme primarie del senti ­mento) si sostituiscano, nel 1909, riduzioni volumetriche in funzione conoscitiva (le forme primarie della costituzione dell’oggetto, gli archetipi della struttura). Il blocco ossessivo dei Tre nudi di Leningrado era stato il punto culminante di una ricerca dell’essenza simbo ­lica del monumentale o dell’essenziale primigenio nel ­l’arte arcaica, nel romanico, nelle sculture negre e nella pittura di Rousseau il Doganiere. Ora, nei pae ­saggi dipinti durante l’estate a Horta de San Juan -“tetti cubici, comignoli cubici, e alberi simili ai comi ­gnoli” (L. Werth, 1910) -, si assiste a una lettura an ­tinaturalistica di Cézanne. Ma queste forme geome ­triche non si cristallizzano in entità metafisiche, né si compongono in una scacchiera di astratto ordine deco ­rativo: si concatenano invece come negli scatti di un ingranaggio formale che restituisce per analogia il moto vitale della realtà. Picasso non fa ‘geometria’ per idealizzare la realtà, ma per rivelare le leggi della sua struttura organica. Dapprima sarà visualizzato il rapporto tra forma delle cose e forma dello spazio in cui appaiono, poi si procede alla indagine del funzio ­namento interno della struttura di ogni ‘oggetto’, e della trama che si stabilisce, nella percezione, tra i di ­versi nuclei strutturali simultanei. Come scrisse Metzinger, in questo periodo Picasso esamina, comprende, organizza, e ci offre una spiegazione materiale della vita reale delle forme, cioè delle cose filtrate nella mente.

Ma neanche nelle opere più ‘analitiche’ di Picasso sarà dato trovare un’applicazione sistematica di for ­mule. L’affermazione di Apollinaire, che “Picasso studia un oggetto come un chirurgo seziona un cada ­vere”, è suggestiva, ma non risponde a verità. Per seguire il poeta nella sua immagine medica, diremo che Picasso radiografa esseri viventi, spazi naturali, e ci rivela quali ne siano i gangli energetici, e i collega ­menti tra i diversi centri motori. La sua analisi cubista non è mummificazione di parti sezionate, ma sintesi intuitiva di elementi della realtà in atto. Per Braque, la regola corregge l’emozione, mentre per Picasso la regola non può essere altro che la forma dell’emozione. Anche se, in questo momento, si tratta dell’emozione di scandagliare e conoscere la vita formale dell’orga ­nismo naturale. Si spiega così l’abbandono di ‘com ­posizioni’ a soggetto simbolico o aneddotico nelle ope ­re di questo periodo. L’oggetto non è evocativo, né metamorfico: estratto dalla sua atmosfera naturale, è pur sempre l’oggetto ‘ansioso’ di Cézanne, simbolo di se stesso. Come la forma, così il colore ambientale si rapprende in gamme essenziali, si oggettivizza: ai ros ­si e ai verdi dell’estate cézanniana di Horta de San Juan succedono i bruni e le ocre dell’autunno e i grigi e i bianchi dell’inverno di Parigi.

Ma proprio da questa individuazione di ogni ele ­mento costitutivo della realtà, di ogni dato e attimo del suo articolarsi in percezione di vita, rinasce, per Pi ­casso come per Braque, lo spazio allusivo, psicologico, come in una descrizione ambientale di Proust. Attra ­verso un procedimento di realismo concettuale, giun ­gono al miracolo dell’analogia esistenziale. Le opere più ermetiche del cubismo analitico non sono astratte, bensì offrono l’equivalente plastico dell’esistente, del momento di vita. Per fare un esempio soltanto: nelle nature morte con strumenti musicali, lo spazio e i volumi degli oggetti, nella loro compenetrazione e sfaccettatura reciproca che contrae e dilata le forme come il mantice di una fisarmonica, divengono un unicum indistinguibile, un’onda sonora. Dalla forma simbolica o allegorica, per la strada dell’analisi strut ­turale, si giunge alla forma emotiva e psicologica. Per quanto riguarda Picasso, si veda specialmente il per ­corso dal ritratto di Sagot a quelli di Vollard e di Uhde, sino alla figura di Kahnweiler, che appare at ­traverso uno schermo di cristalli, più che non sia rico ­stituita nell’incastellatura ‘cubica’. Si passava così dal ­la rappresentazione dell’oggetto reale, “articolato nel dipinto dal ritmo delle forme” (Kahnweiler), a quella razionalizzazione dello stato d’animo che Blaise Cendrars lamentava nei pedissequi seguaci del movimen ­to, ma che dette risultati poetici nei tre grandi ‘anti ­teorici’ del gruppo: Picasso, Braque e Léger. “Certi quadri cubisti” scriveva il poeta nel 1919 “ricordano i riti della magia nera; esalano un fascino strano, mal ­sano, inquietante – fin quasi, letteralmente, a gettare un incantesimo sull’osservatore. Sono specchi magici, tavoli da stregoni”. E qualche tempo dopo, Jean Cocteau dirà che dalla morte del trompe-l’oeil è nato il trompe-l’esprit.

Dal segno e dalla forma estratti dall’impalcatura del vero, si passa alla figura, al particolare veristico per caratterizzare sia l’oggetto sia il suo alone emo ­tivo, la sua struttura non naturalistica ma concet ­tuale e psicologica. A evitare equivoci di interpretazione – che non si pensi a un ritorno ai ‘valori’ de ­scrittivi -, oltre all’isolamento criptico del frammento riconoscibile, si utilizza la materia in sé, o l’oggetto stesso. Il trompe-l’oeil, il papier collé e il collage sono le fasi tecniche di questo procedimento che sarà detto ‘sintetico’.

Il percorso sulla via della trasposizione della realtà naturale e storica nell’immagine puramente ‘plastica’, equivalente e autonoma, è giunto a un traguardo fon ­damentale. Dapprima gli elementi delle più diverse formulazioni stilistiche ‘storiche’ erano stati utilizzati in funzione simbolico-psicologica e non come cànone formale (lo abbiamo visto nelle Demoiselles d’Avignon). In seguito le costanti strutturali dell’oggetto in rapporto allo spazio erano state enucleate dall’inte ­laiatura prospettica umanistica, per cogliere l’attimo dell’ ‘apparizione’, la loro simultanea e imprevedi ­bile presenza nelle dimensioni fisiche e psicologiche, nello spazio oggettivo come nel tempo soggettivo. Tutt’altro che una gabbia razionale, un luogo chiuso, la superficie sfaccettata delle opere ‘analitiche’ del cubismo di Picasso e di Braque, negli anni dal ’10 al ’12, è invece la proiezione visuale di un continuum che si tenta di bloccare nei termini di una geometria sempre ‘relativa’. Infine si recuperano le parole del vocabo ­lario naturalistico e le ‘cose’ stesse, elementi di un repertorio illusionistico (il chiodo dipinto con la sua ombra, le lettere e i numeri stampigliati, le imitazioni del legno o dell’intonaco, sino ai frammenti di papier peint, di giornale, di stampe e di oggetti) che, inseriti in quella trama spaziale evocativa e non descrittiva, appaiono come irrecusabili prove della duplicità ine ­stricabile di valori dell’immagine, che è sempre con ­notazione e significato della realtà. Il ‘quadro-oggetto’ è un’opera in sé, “che vale per se stessa e non per i confronti che si possono fare con il vero” (Max Jacob), ma, per contraddizione vitale, è pur sempre un ‘equivalente’ estetico della realtà fisica ed esistenziale. È un riflesso della vita terrena nel “ciclo speciale” della poesia, la cui autonomia è determinata dal filtro della soggettività dell’artista. Quando Picasso e Braque sono giunti a intuire l’equivalenza di segno, forma, colore con immagine e materia e cosa, nella dimen ­sione specifica dell’arte, hanno veramente aperto tutte le strade alle nuove esperienze espressive del nostro tempo. E hanno rifiutato ogni interpretazione riduttiva del cubismo in senso di sistema razionaleggiante o ‘neoclassico’. L’analisi conoscitiva e strumentale aveva condotto solo i deboli di spirito a un ‘sistema’: per i poeti era stata la conquista della libertà, cioè anche del dubbio inesausto.

Quando Picasso visitò, nel 1935, una mostra dedicata ai “Creatori del cubismo”, disse a Kahnweiler che vi aveva trovato di buono soltanto i papiers collés di Braque e un suo quadro raffigurante una chitarra, dipinto con la sabbia. “Tutto il resto è pittura…”. Te ­stimonianza diretta, se pur ce ne fosse stato bisogno, della coscienza che l’artista aveva della vera portata del cubismo sintetico, che aveva definitivamente con ­futato le regole convenzionali dell’espressione pitto ­rica e plastica, che ne aveva spezzato le frontiere. Non per confondere l’arte nel magma della vita, ma per rendere disponibili all’elaborazione artistica tutti gli elementi della natura, della cultura, della produzione umana. In questo senso, da allora, tutto può essere pittura. Ogni forma di stile non avrà più, per Picasso. valore di sistema esclusivistico, ma sarà utilizzabile co ­me strumento e ‘segno convenzionale’ di più diretta resa espressiva di ‘quel che ha da dire’, continuamente alternabile o amalgamabile con altre sigle convenzio ­nali. L’incoerenza formale è alla base della coerenza realistica, cioè della trasposizione della realtà nel mon ­do ‘parallelo’ dell’arte. Non si deve mai, per lui, vio ­lentare la realtà per costringerla negli stampi di un sistema formalistico. Dal 1913 (e si pensi alla Donna in camicia seduta in poltrona della collezione Ganz) il cubismo non è più, per Picasso, un metodo, ma una articolazione sintattica di forme e immagini comple ­mentari. Da allora sarà uno strumento del suo arma ­mentario di poeta intuitivo e pragmatico, e servirà a bloccare nella più efficace analogia formale certi momenti di vita: la caratterizzazione di fisionomia o di costume (Uomo al caffè di Avignone, 1914), l’impres ­sione di uno spettacolo naturale (Finestra aperta a Saint-Raphaël, 1919), l’armonica monumentalità di una scena di commedia umana (Tre musicisti in ma ­schera, 1921), l’oscura violenza di metamorfosi surreali (La danza, 1925).

Dal momento ‘sintetico’ in poi, il cubismo non è più, per Picasso, la legge del frazionamento struttu ­rale del vero applicata per esprimerne il funziona ­mento organico, ma è l’impiego occasionale di un nuovo metodo di convenzioni espressive per attuare visivamente accostamenti intuitivi, per rivelare l’inte ­grale realtà delle cose, che possono essere simbolo di valori umani metastorici, quanto dell’ambiguità e dell’assurdità delle apparenze, trompe-l’esprit ironici e tragici.

Come ha detto Picasso, il cubismo è stato un periodo di lavoro in cui la forma e il colore hanno assunto il loro specifico significato dentro il limite della pit ­tura. Quando tale forma specifica è stata realizzata, pronta a vivere la propria vita, è divenuta un nuovo, autonomo strumento di comunicazione. Non è stato lo stadio di una evoluzione di forme, ma un segno, una scrittura inventati per ampliare, e non per sostituire, il vocabolario storico della Poesia, le cui ‘parole’ sono tutte, sempre, nel presente.

[da La Nazione, Lunedì 9 aprile 1973]

(Dal nostro corrispondente]

Parigi, 8 aprile.

Pablo     Picasso,     che     aveva compiuto 91   anni il 25   ottobre   scorso,   è   morto   stamani nella sua villa « Notre Dame de Vie », a Mougins, in Provenza,     dove     si     era     stabilito dal 1961 assieme alla sua ulti ­ma compagna   Jacqueline   Roques (sposata in seconde noz ­ze nel 1962). La morte, avve ­nuta alle   11,40 nel momento in cui l’artista si accingeva ad alzarsi, è stata provocata â— ha  detto   il   medico   personale   di Picasso     dottor   Rance   â—     da un collasso cardiaco conseguen ­te ad un edema polmonare.

E’ morto fra le braccia della     moglie.     Al     suo     capezzale si     trovavano     anche     il     figlio Paulo, il segretario Miguel e alcuni   amici   intimi.   Non     sono ancora state fissate le modalità per i funerali;   ma domani     si     terrà     nella     villa     d Mougins una conferenza stampa, e per la prima volta   un gruppo di giornalisti potrà entrare nella inaccessibile dimora.

 

Nello scorso dicembre, l’artista era stato colpito da una forma grave di influenza; erano   poi intervenute complica ­zioni per cui, ai primi di gen ­naio, Picasso aveva dovuto es ­sere ricoverato per alcuni giorni     all’ospedale     americano     di Neuilly,       presso       Parigi.       Era quindi     tornato   nella   villa   di Mougins, ma da allora circola ­vano   voci   allarmistiche   sulle sue condizioni di salute, e si era       parlato       più       volte       di complicazioni     cardio-circolato ­rie.     Queste     voci     erano     però sempre state smentite dai fa ­miliari e dai pochissimi amici intimi     che     l’artista     spagnolo acconsentiva ancora a ricevere. Poche settimane fa, Picasso aveva fatto sapere che avrebbe prestato   circa     duecento   delle sue opere più recenti agli orga ­nizzatori   del   festival   di   Avignone, affinché venissero espo ­ste   durante   l’estate   prossima. Ma le voci relative alle preca ­rie condizioni di salute aveva ­no trovato una conferma negli ultimi giorni quando due me ­dici   (quello personale, il dot ­tor   Rance   di Mougins, e un altro chiamato da Parigi, il dot ­tor Bernal) erano stati visti en ­trare     a     diverse     riprese     nella villa.

A Notre Dame de Vie, Pablo       Picasso       viveva       ritirato; non usciva quasi mai, e rice ­veva     pochissime     visite.     Uno degli ultimi a vederlo era sta ­to il direttore del festival di Avignone,   che   si   era   recato nella villa per scegliere i qua ­dri da esporre. Aveva raccon ­tato ai giornalisti che nelle sue ultime tele, l’artista aveva di ­pinto donne, bambini, paesag ­gi provenzali, strumenti musi ­cali e   uccelli.   «Avevo   avuto l’impressione     che     quest’uomo straordinario,       nonostante       la sua età avanzata â— aveva ag ­giunto il direttore del festival – fosse sempre alla ricerca di nuove     forme     di     espressione plastica, e che a 91 anni suonati     si     trovasse     di     nuovo     di fronte ad una importante svolta artitstica.

Picasso è stato un artista eccezionalmente prolifico, che ha lavorato fino all’ultimo con un’energia incredibile. Se non usciva quasi mai (l’ultima sua apparizione in pubblico risale al 1970, all’inaugurazione di una mostra in una galleria d’arte di Vallauris) era soprat ­tutto perché passava le giorna ­te a dipingere, rimaneva per ore e ore chiuso nel suo studio.

 

In gran segreto

A volte si recava a Nizza, sempre in gran segreto, per andare dal dentista o dal sar ­to italiano che gli confeziona ­va pantaloni di velluto a co ­lori vivaci e giacche di tweed a quadrettoni. Nel 1971 si era celebrato con grande solenni ­tà (per l’occasione erano state esposte al museo del Louvre, a Parigi, otto opere di Picas ­so, un riconoscimento che nes ­sun artista vivente aveva mai ottenuto) il suo 90 ° complean ­no. Erano stati organizzati a Mougins grandi festeggiamenti, ma il pittore non aveva voluto assistervi.

Fino al 1969 lo si vedeva, d’estate, su qualche spiaggia isolata della Costa Azzurra, in costume da bagno e con un cappello di paglia in testa. Suscitava meraviglia per la sua vivacità, per il portamento eretto, il corpo ancora musco ­loso, l’aspetto arzillo.

Durante la guerra, Pablo Pi ­casso era rimasto a Parigi, seb ­bene la città fosse occupata. I tedeschi, però, non avevano osato molestarlo, sebbene le sue idee politiche sinistrorse fosse ­ro ben note. Nel 1944, dopo la liberazione della capitale, si era iscritto al partito comuni ­sta francese. Era sempre stato un oppositore di Franco, che criticava ferocemente, e non aveva mai più voluto mettere piede in Spagna dopo la fine della guerra civile. Ma anche i rapporti con il comunismo furono burrascosi; sebbene i diri ­genti sovietici lo elogiassero pubblicamente, le sue opere non furono mai esposte nei musei russi. Picasso, del resto, non risparmiò mai le critiche ai capi del Cremlino, di cui de ­nunciava periodicamente le concezioni artistiche.

Era un avversario risoluto del «realismo socialista »; e nel 1966 rifiutò di ricevere l’ambasciatore sovietico che era venuto fino a Mougins per consegnargli il premio Lenin per la pace.

Leggendario

Nel corso della sua lunga vi ­ta, Picasso aveva ammassato un patrimonio colossale, valu ­tato ad almeno 30 miliardi di lire. Ma non attribuiva molta importanza al danaro: gli ami ­ci ricordano di aver visto più volte, nel suo studio o in altre stanze della villa, pacchi di banconote abbandonati nei po ­sti più impensati. L’artista pos ­sedeva un castello di 40 stanze a Vauvenargues, tre apparta ­menti a Parigi, tre ville sulla Costa Azzurra, una grande casa di campagna con una vasta te ­nuta a Boisdeloup, dove si era recato per l’ultima volta nel 1948. Possedeva, soprattutto, una quantità incalcolabile di quadri, probabilmente non ne conosceva nemmeno lui il nu ­mero esatto. Oltre a quelli di ­pinti da lui (e chissà quando se ne potrà fare l’inventario, dato che sono disseminati nelle sue varie case, a volte chiusi in casse e sistemati in cantine o soffitte) ci sono quelli regalatigli da amici, o scambiati con altri pittori.

Si può prevedere che una pe ­nosa «guerra di successione » si scatenerà attorno al patrimo ­nio dell’artista, tra i quattro fi ­gli. L’unico legittimo è Paulo, nato 52 anni fa dal primo ma ­trimonio di Picasso con la bal ­lerina russa Olga Kokhlova. Gli altri tre sono Maia (nata nel 1935 dalla relazione con Marie-Therese Walter), Claude e Paloma (figli di Francoise Gilot, che fu la compagna del ­l’artista dal 1944 al 1955 e che pubblicò, anni fa, l’esplosivo libro di memorie intitolato «La mia vita con Picasso »).

Gli ultimi visitatori di Pi ­casso, dall’inizio dell’anno, era ­no stati l’ex-primo ministro Couve de Murville, la signora Leiris direttrice di una celebre galleria d’arte parigina, Gu ­stavo Gilli conservatore del museo di Barcellona, l’editore Skira, il poeta Rafael Alberti. Erano stati ammessi nello stu ­dio al primo piano della villa, dove l’artista trascorreva la maggior parte delle sue gior ­nate e dove nessuno poteva entrare senza la sua autoriz ­zazione.

Fino all’ultimo, aveva con ­servato la sua leggendaria vita ­lità. Lavorava accanitamente per preparare due grandi mo ­stre: quella di Avignone, che come si è detto, avrebbe dovuto essere allestita nel Palazzo dei Papi, e un’altra che avrebbe dovuto aprirsi in maggio in una galleria di Nizza, con dipinti, disegni ed acquarelli del periodo 1968-72, in particolare la serie detta « I moschettieri ». La direttrice della galleria di Nizza, che era andata a trovarlo due settimane fa, l’aveva trovato benissimo. « Era alle ­gro e sorridente â— ha detto la signora â— parlava soltanto del suo lavoro, faceva grandi pro ­getti per le due mostre di quest’estate ».

Paolo Romani

 

 


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Bart