PITTURA: I MAESTRI: Piero della Francesca: La luce del presente27 Marzo 2011 di Oreste Del Buono “Perché tu deponga ogni preoccupazione nei miei riguardi, ti farò conoscere qual è la natura del clima, la situazione del territorio, l’amenità della villa ; e ciò rallegrerà te di saperlo, me di narrarlo …”, così Plinio il Giovane rassicurava il sodale Domizio Apollinare circa il suo soggiorno nell’alta Valle Tiberina. L’in Âverno è freddo e asciutto, ma tollera, rigoglioso, l’al Âloro. L’estate è di una meravigliosa mitezza, l’aria è sempre mossa da qualche corrente, comunque son sempre più frequenti le brezze che i venti. In questa accogliente piana cinta da monti coronati di boschi abbondanti di selvaggina, tra questi colli fertili di mes Âsi appena tardive, tra questi pingui vigneti senza fine, in riva a questo fiume che almeno per due stagioni è in grado di trasportare verso la città i prodotti della terra, in questo anfiteatro immenso, la vita resiste rigogliosa al pari dell’alloro. Qui si possono incontrare i nonni e i bisnonni di giovani già maturi, qui si pos Âsono ascoltare vecchie storie e discorsi da antenati, qui è come se gli anni non trascorressero, come se l’età non logorasse gli uomini, in questa luce il futuro non in Âquieta, e il passato è domestico. “Proveresti un gran piacere a riguardare questa regione dall’alto dei colli : ti parrebbe, infatti, di scorgere non un territorio, ma un quadro dipinto con incredibile maestria: da così copiosa varietà , da così felice disposizione, gli occhi, ovunque si posino, traggono diletto …”. Difficile essere più espliciti e convincenti. Il quadro esiste già , il pit Âtore arriverà mille e trecento anni dopo, in compenso la sua maestria sarà davvero incredibile. Piero dei Franceschi, detto più comunemente del Âla Francesca, nasce a Borgo San Sepolcro, nell’alta Valle Tiberina, ai confini tra Toscana e Umbria, ver Âso il 1420, primogenito di un calzolaio e conciapelli. A quanto si ricava dalle vecchie carte, la sua vita non è affollata di avvenimenti eccezionali. Viaggia per la Âvoro, ovviamente, ma, appena ne è in grado, torna in patria, e le memorie ufficiali o ufficiose son quasi tutte locali, la ricevuta di qualche pagamento di commissioni, la nomina a qualche carica pubblica, una cita Âzione per morosità tributaria, la disposizione autogra Âfa per il notaio incaricato di redigere il testamento, e infine l’iscrizione nel libro dei morti; ricordi civili e pudichi, rare tracce di un passaggio terreno ben al Âtrimenti attestato dalle opere. E, tuttavia, la prima notizia che si reperisce su Piero non viene dalla pa Âtria, ed è fondamentale per apprezzarne subito la car Âriera. La contengono certi documenti dello Spedale di Santa Maria Nuova in Firenze relativi ai pagamenti a Domenico Veneziano per le pitture nel coro di Sant’Egidio. “Pietro di Benedetto dal Borgo a San Sepol Âcro, sta chollui…”, informa l’annotazione in margine, e la data è il 1439. Per un ragazzo con vocazione al Âl’arte, Firenze è appunto la città in cui andare a pro Âgredire, la città in cui imparare pittura e scienza al Âl’ombra dell’ardita struttura spaziale del Brunelleschi. erta sopra i cicli e tanto ampia da coprire tutti i po Âpoli toscani. “Piacemi il pittore sia dotto in quanto e’ possa in tutte l’arti liberali ma imprima desidero sappi giometria … I nostri dirozzamenti, da i quali si exprime tutta la perfetta absoluta arte di dipigniere. saranno intesi facile dal geometra, ma a chi sia igniorante in geometria né intenderà quelle né alcun’altra ragione di dipigniere: pertanto affermo sia necessario al pittore imprendere geometria…”, sono le nuove norme teorizzate dall’Alberti nel trattato Della pit Âtura, che è proprio degli anni dell’apprendistato fio Ârentino di Piero. E Piero diventa scienziato per essere miglior pittore. È l’adozione definitiva della prospettiva la grande avventura intellettuale, prima che tecnica, che Piero comincia a vivere a Firenze. Se consultiamo un testo appena uscito, Eye and Brain, the Psychology of Seeing, del direttore del laboratorio di psicologia dell’uni Âversità di Cambridge, Gregory, possiamo leggere : ” La prospettiva rappresenta per l’arte un’acquisizione as Âsai recente. I popoli primitivi e le civiltà successive sino al Rinascimento italiano ignorano i principi prospettici… È veramente sorprendente il fatto che la prospettiva geometrica, basata su principi elementari, sia stata attuata tanto tardi dagli uomini, tanto più tardi del fuoco o della ruota, soprattutto quando si pensi che il senso della prospettiva, essendo parte del Âla capacità di vedere, è sempre esistito…”. Giudicare con il senno di poi è semplice, l’approdo alla prospet Âtiva è meno improvviso e drastico, più mediato e me Âditato, né risulta ancora chiaro se sia lecito parlare di scoperta o di riscoperta rinascimentale. È lecito piut Âtosto parlare di teorizzazione rinascimentale: per tutta l’antichità classica e il medioevo non pare valida alcu Âna distinzione tra ottica e prospettiva, i trattati enun Âciano i fenomeni della visione sotto forma di leggi, l’antichità classica con maggiore attenzione alle conseguenze geometriche, il medioevo ai meccanismi fi Âsici, i problemi della rappresentazione artistica resta Âno comunque estranei a qualsiasi ricerca. Solo con il Rinascimento, appunto, si distingue tra ottica e pro Âspettiva, e i trattati, quello di Piero dopo quello del Âl’Alberti, si ricollegano alle leggi della visione come a un presupposto necessario, ma al tempo stesso scon Âtato: da lì, da Euclide, discende il loro insegnamento; il loro insegnamento, comunque, mira a divulgare le regole e i procedimenti della rappresentazione artisti Âca. De prospectiva pingendi è il titolo del trattato che Piero offre al duca Federico d’Urbino. Nella prima delle tre parti che lo compongono vengono messe in prospettiva figure piane, nella seconda è la volta dei solidi, nella terza in special modo delle teste umane. Il processo è lo stesso definito dall’Alberti ‘costruzione legittima’. Piero, più che vere e proprie novità , ag Âgiunge dolcissimo e, a tratti, persine enfatico rigore. A esempio, eccolo, a proposito delle cosiddette aber Ârazioni marginali, dichiararsi perfettamente consape Âvole dell’innegabile dissenso tra la costruzione pro Âspettica e l’effettiva impressione visiva, e da questa consapevolezza passare senza esitazioni a proclamare la superiorità della rappresentazione artistica. Nella costruzione prospettica di un colonnato visto frontal Âmente, le dimensioni dei singoli elementi uguali ten Âdono ad aumentare verso i margini, ma Piero non suggerisce un qualsiasi rimedio, tutt’altro. “Io inten Âdo di dimostrare così essere e doversi fare …”. La scel Âta di Piero scaturisce dalla ricchezza, non dalla po Âvertà del temperamento, è un atto di fede, non l’adeguamento a una moda. Quando è apprendista a Firenze, naturalmente, Piero ha sotto gli occhi la Trinità di Masaccio in San Âta Maria Novella, la prepotente, drammatica e spettacolosa applicazione pittorica delle proposte del Brunelleschi, di quei rapporti architettonici e spaziali che intanto va asserendo l’Alberti. Ma il maestro con il quale Piero lavora è, e non a caso probabilmente, Do Âmenico Veneziano, aperto alle possibilità e alle pro Âmesse della prospettiva, comunque più appassionato ancora alla bellezza del colore come estrema libertà e aristocrazia della pittura. Masaccio, l’Alberti, Do Âmenico Veneziano : certo, l’educazione artistica di Pie Âro non si conduce solo su questi nomi, Firenze è tutta un museo e un laboratorio, da Giotto al Beato Ange Âlico, la citazione di Masaccio, dell’Alberti, di Dome Ânico Veneziano fornisce appena una traccia, con il tanto di arbitrario che è in ogni semplificazione, di un procedere verso l’assoluta originalità ; quel momento in cui cadono i prestiti, i ricalchi, le suggestioni. Uno impara esclusivamente quello che sa, lo studio gli ser Âve a capire quello, e non altro. Il Battesimo, per con Âcorde ammissione dei critici una delle prime opere di Piero, è la testimonianza di come il pittore borghigia Âno abbia imparato. La tavola è immobile di luce, an Âche il gesto al quale è dedicata pare senza moto, già deciso una volta per tutte, in procinto di non accade Âre mai, fermato per sempre nella tregua irreparabile dell’esecuzione. Il Battista con la mano destra levata secondo la richiesta del rito, la mano sinistra sospesa a metà , quel piede puntato a recuperare lo slancio, e, invece, assorbito dal resto della tavola in una posizio Âne definitiva, indispensabile al generale equilibrio, non è dal pittore più amato dell’albero con il tronco così chiaro e il fogliame così fitto che ugualmente fian Âcheggia il Cristo sottomesso e imponente. O, per mag Âgiore esattezza, l’albero non è meno amato del Batti Âsta, il che suona diverso, non tanto una mera inver Âsione dei termini del raffronto quanto una modifica Âzione da negativa a positiva della sostanza. La dichia Ârata centralità del Cristo scompare nella luce meridia Âna, e il sacro della tavola deriva non dal soggetto, ma dal prodigio dell’esecuzione: l’immedesimazione tra umanità e natura, questo scambio di esistenze cospi Âranti in perfezione pittorica. È più che possibile, ov Âviamente, la ricerca dei riferimenti culturali ammis Âsibili o inammissibili, imprecisi o precisi, ma, davanti alla compiutezza della tavola, l’erudizione cede volen Âtieri all’ammirazione. Piero, attraverso i suoi maestri e la sua prospettiva, ha ricostruito la nozione che pos Âsiede da sempre : il paesaggio che circonda il rustico battezzante, il selvatico battezzato, gli appetitosi an Âgeli androgini, il plastico catecumeno di rincalzo e gli addobbati dottori orientali è quello dell’alta Valle Tiberina, capace di fare estasiare secoli e secoli prima Plinio il Giovane, il paesaggio familiare in attesa di un pittore. Lo stesso? Diciamo che gli somiglia molto, che comunica lo stesso senso meraviglioso di armonia. Non è il riconoscimento, non è la riscoperta del paesaggio familiare a contare; allora si tratterebbe di un puro dato occasionale, a contare è la consapevolezza, la fede di Piero nelle regole per ricreare quell’armo Ânia. Sono le regole che costruiscono il mondo nelle sue opere, vi compaia il paesaggio familiare o un fon Âdo d’oro o un’architettura albertiana, le regole di una coralità dello spettacolo superiore agli affanni e alle affermazioni dei personaggi. C’è una bella pagina sulla pittura toscana in Noces di Camus, a commento di un viaggio nel nostro paese. Il pittore toscano non dipinge un sorriso labile o un pudore fugace, non dipinge rimpianto o attesa, ma ri Âlievo di ossa e calore di sangue. Da queste facce coa Âgulate in linee eterne, scaccia per sempre la maledi Âzione dell’anima. “A prezzo della speranza. Perché il corpo ignora la speranza. Esso non conosce che il pul Âsare del sangue. L’eternità che gli è propria è fatta di indifferenza. Come quella Flagellazione di Piero della Francesca in cui, in una corte lavata di fresco, il Cri Âsto giustiziato e il carnefice dalle grosse membra la Âsciano sorprendere nei loro atteggiamenti lo stesso distacco. Questo supplizio, infatti, non ha seguito. E la sua lezione si ferma alla cornice della tela. Perché commuoversi per chi non aspetta il domani?…”. Que Âsta impassibilità e questa grandezza dell’uomo senza speranza è proprio quanto avveduti teologi hanno chiamato inferno. “E l’inferno, come tutti sanno, è anche sofferenza della carne. A questa carne si fer Âmano i toscani, e non al suo destino…”. Sono i gior Âni in cui Camus prova il tono del suo Étranger, ed è piuttosto toccante che uno dei più conclamati scrittori del nostro tempo voglia vedere un romanzo esistenzia Âlista, il suo primo romanzo esistenzialista, nella stu Âpenda tavola di Urbino. Un brano suggestivo, s’è det Âto, ma che almeno a proposito di Piero, dopo aver in Âtravisto gran parte della verità , va verso l’equivoco. Come all’equivoco finisce per tendere, anche se l’av Âvio polemico è legittimo, l’impulso che Berenson com Âmenta nell’ultimo diario, Sunset and Twilight: ” Qual Âche giorno fa mi è venuta la felice idea di scrivere sul favore popolare del quale gode in questo momento Piero della Francesca e di spiegare questa sua popo Âlarità . Intendevo scartare vari snobismi intellettuali che sono alla base della compatta ammirazione per lui, molto dovuta, secondo me, alla necessità di giustificare un analogo culto per Cézanne…”. È l’impulso che spinge Berenson a comporre il suo Piero della  Francesca o dell’arte non eloquente, un elegante, af Âfascinante discorso che si perde un poco nel vuoto, nel tentativo di arrivare alla questione considerata fonda Âmentale, che, oltre alle qualità tecniche, sia soprattutto la mancanza di sentimento di Piero, la mancarnza di espressione dei suoi personaggi a impressionare. “Le sue figure si contentano di esistere. Esistono e basta. Non si dà nno nessuna pena di spiegare, di giustificare la loro presenza, di svegliare la simpatia, l’interesse dello spettatore. Cento anni fa Jacob Burckhardt, par Âlando di certe pale di altare del tardo Bellini, le chia Âmava ‘Existenzbilder’, quadri di esistenza. Io oggi non oso quasi servirmi di questo termine per la paura che venga confuso con l’ ‘esistenzialismo’ ovvero con una filosofia che non capisco. Eppure così sono le grandi arti figurative…”. Anche Berenson afferra gran parte della verità , ma poi cerca di arrivare a una conclusio Âne che ne è distante. La Madonna col Bambino nella Pala di Brera, di cui Berenson subisce l’incanto, è dipinta né più né meno che la Flagellazione di Urbi Âno, non per mancanza di sentimento di Piero, ma pro Âprio per la sua straordinaria capacità di sentire, l’in Âtegerrima fede nelle regole della esecuzione pittorica come regole morali. Tra romanzo esistenzialista e qua Âdro di esistenza, occorre cercare un punto intermedio II soggetto da cui di volta in volta Piero è scelto, una Flagellazione o una Madonna, la celebrazione d’un Tiranno o una Resurrezione, è sempre superato da! fervido tramutarsi della scienza in arte, un’arte che eterni la bellezza, la compiutezza, l’armonia dei creato. Cinquecent’anni dopo Piero, Arezzo è ancora in gran parte salva dalla volgarità moderna, resti d’an Âtica fierezza si ostinano almeno a suggerire un richia Âmo al passato. L’ostinazione ha i suoi rischi, quello soprattutto dell’angustia progressiva condiviso da ogni frammento illustre di terra toscana. Ma ha pure, l’osti Ânazione, le sue rivalse, e stupenda è la rivalsa delle Storie della vera Croce affrescate da Piero nel coro di San Francesco; ammessi alla loro presenza, avvertia Âmo svanire in fretta le nostre malinconie di pensionati di una civiltà che, a tratti, capita di temere più remota di quella romana o greca. Piero comincia a lavorare ad Arezzo, capitale della sua patria, verso il 1453. Do Âpo l’apprendistato fiorentino, ha ricevuto i primi in Âcarichi a Borgo San Sepolcro, ma ha soprattutto viag Âgiato, ha dipinto a Urbino, alla corte di Federico Montefeltro, a Ferrara, a quella di Lionello d’Este, a Rimini, a quella di Sigismondo Pandolfo Malatesta, principi benevoli o nefandi, ugualmente rinomati per la passione in questioni d’arte. La competenza dei committenti attira l’attenzione e anche la curiosità de Âgli aretini sul conterraneo. Arezzo, in arte, è tradizio Ânale, comunque i discendenti del ricco speziale Baccio di Magio si son rivolti per la decorazione della cap Âpella di San Francesco non al rappresentante del go Âtico locale Farri Spinelli, ma a un mediocre fiorenti Âno, Bicci di Lorenzo, vecchio praticone che ha preso ad affrescare il Giudizio finale nella fronte della cap Âpella e i quattro Evangelisti nelle vele della volta, i Dottori della Chiesa nell’intradosso dell’arco trionfale, senza nerbo, con lentezza, quasi non volendo affaticarsi troppo prima della morte. E la morte, infatti, è intervenuta; dei Dottori, Bicci di Lorenzo ne ha di Âpinti solo due, e poi ha lasciato l’impresa nel 1452. A Piero spetta la celebrazione della leggenda della Cro Âce, un ciclo probabilmente suggerito da qualche francescano, informato alla Legenda aurea di Jacopo da Varagine, ma anche alla propaganda contro i turchi ovviamente connessa alla sorte di Costantinopoli e del Âl’Impero Romano d’Oriente. Tra fascini leggendari e rancori presenti, Piero, tuttavia, sceglie, secondo una cronologia rarefatta, quelle poche storie nelle quali in Âtravede maggiori possibilità visive. Adamo morente ordina al figlio Seth di chiedere all’angelo guardiano quell’olio di salvazione che gli è stato promesso alla cacciata dal Paradiso terrestre, ma dall’angelo guardiano Seth ottiene tre semi da porre in bocca al padre ormai morto; da quei semi germoglierà l’albero destinato a fornire il legno della Croce. La regina di Saba, recandosi in visita a Salomone in Gerusalemme, è come folgorata d’improvviso dalla ri Âvelazione che il ponticello del fiume Siloe è costruito con il legno della Croce, e, dunque, si inginocchia ad adorarlo prima di passare nella reggia, a partecipare la rivelazione al sovrano saggio. Salomone, preoccupa Âto del destino di quel legno già sacro, lo fa rimuovere e sotterrare profondamente perché ne scompaia ogni traccia. Ma tutto deve accadere, l’angelo con una pal Âma tra le dita annuncia alla Vergine l’inevitabile mor Âte del figlio che sarà inchiodato alla Croce. L’imperatore Costantino, alla vigilia di affrontare Massenzio a ponte Milvio, sogna che un angelo gli imponga di combattere in nome della Croce, e il giorno dopo Co Âstantino incede incontro al nemico, impugnando la piccola Croce d’avorio, alla cui vista Massenzio e i suoi non tentano neppure di resistere, fuggono, risa Âlendo in disordine il Tevere. Sant’Elena ricerca la Croce; Giuda, l’ebreo che sa dove il legno sacro sia stato celato dopo la morte del Cristo, è sottoposto a tortura, il giudice gli tira i capelli per estorcergli il segreto. Giuda finisce per confessare, il legno della Croce vie Âne esumato e riconosciuto per mezzo di un miracolo, il risanamento d’un giovane morto, prodigio davanti al quale sant’Elena e il suo seguito cadono in ginoc Âchio. Cosroe, re persiano, ha ornato il suo trono con la Croce predata a Gerusalemme; ma l’imperatore d’Oriente, Eraclio, gli muove contro, il figlio di Cosroe soccombe nella lotta, e il re persiano aspetta di esser decapitato, dopo aver ricusato di convertirsi. Eraclio riporta la Croce a Gerusalemme, vorrebbe celebrare il suo trionfo sui persiani, ma le porte chiuse della città lo respingono perché si convinca all’umiltà , e ap Âpunto umile, spogliato di qualsiasi insegna del suo im Âperio, chino sotto il greve peso del legno sacro, l’im Âperatore ottiene di entrare. Un riassunto di soggetti, anche secondo la minima cronologia che gli affreschi non rispettano, può apparire scucito e arbitrario, ma il tempo è risolto in spazio, il presente di Piero con Âgloba i secoli, per assonanze cromatiche, la coerenza delle immagini è tale che dallo scempio della narrazione deliberatamente perpetrato scaturisce per chi guarda un inebriante rapimento. Nell’irradiare lieve dei colori sull’arduo ordito, dettato dal religioso rigo Âre di Piero, è la apparente sconfessione di ogni conte Ânutismo e dinamismo: una rustica e arcaica umani Âtà come recuperata dalle statue classiche coesiste con un’umanità evoluta ed elegante come prelevata dalle corti rinascimentali, i grandi corpi poderosi di giganti e gigantesse non disdegnano di proporsi addirittura per goffi, e da questa goffaggine traggono maggiore solennità , la solennità di esistere nell’ubbidienza alle leggi geometriche che li hanno creati più vivi dei vivi, eternamente vivi, esattamente compresi, esattamente previsti nella sovranità dello spazio. L’esistenza, l’as Âsoluto presente, è più importante degli scopi e dei fraintendimenti umani, l’esistenza animale, vegetale, minerale superiore ai fatti atroci o gloriosi, tragici o umili, devoti o superbi, l’esistenza di questo culmine d’arte raggiunto attraverso la scienza, di questa verifi Âca così evidente della più astratta delle teorie. Davanti al risultato di questi affreschi, si sono eser Âcitati i poeti, da D’Annunzio nelle Città del silenzio a Pasolini nella Religione del mio tempo. “Come in Ânanzi a un giardin profondo io stetti, / o Pier della Francesca…”, dice il primo. “Quelle braccia d’inde Âmoniati, quelle scure / schiene, quel caos di verdi sol Âdati / e cavalli violetti, e quella pura / luce che tutto vela / di toni di pulviscolo: ed è bufera, / è strage…”, dice l’ultimo, in ordine cronologico s’intende. Il sem Âpre commosso e spesso commovente poeta d’oggi Paso Âlini non resiste alla tentazione di attribuire la sua visceralità ulcerata al maestro borghigiano, e si turba alla bufera e strage, alla drammaticità di un’opera da cui la drammaticità è bandita. Più esatta senz’altro, la sen Âsazione del giardino profondo del poeta di ieri D’An Ânunzio, che pure scriveva molti anni prima che Longhi pubblicasse il suo impegnatissimo studio. Ma, dato che siamo arrivati a questo nome, conviene dire che la maggior prova poetica su Piero della Francesca è co Âstituita proprio da quanto è venuto scrivendo Longhi, un testo di effettiva poesia nelle interpretazioni come nelle supposizioni, ben più valido anche autonoma Âmente, mondo in sé, dei quattro sonetti aretini delle Città del silenzio o del capitolo aretino della Religio Âne del mio tempo: “Non si rientra infatti nel coro di San Francesco di Arezzo senza che si rinnovi in noi quell’antica contentezza che fluì, la prima volta, dalla rosa ineffabile dei colori pieni, chiariti, come felicitati dalla luce. Sembrano, in Piero, i colori nascere per la prima volta come elementi di una invenzione del mondo. Potrebbe anzi dirsi che, in quella rinascita del mondo visivo che fu veramente la pittura toscana del primo Quattrocento, se Masaccio ci diede il senso poe Âtico di una forma attiva in plastica crescenza, Piero ci rese quello del colore di natura che per la prima volta si tinga all’arrivo del primo raggio di un sole appena creato. Per questo, forse, i suoi colori sono elementari come nell’iride o nelle vocali di un sonetto fa Âmoso. Ma quando, a una seconda decifrazione, anche la forma viene a spiegarsi chiara e solenne, s’intende meglio che quei colori sono ‘quanti’, sono superfici mi Âsurate ed estese di una natura completa che si va squa Âdernando dal profondo sotto il lume naturale. Come questa calcolata giunzione avvenga per forza di una ‘sintesi prospettica’ che dapprima volge in terza dimen Âsione una scelta di forme semplici e poi le riaggalla sul piano bidimensionale come ‘prospetto cromatico’, è. per l’appunto, il segreto della poetica di Piero…”. Un segreto che Piero, comunque, non si preoccupa affatto di proteggere, di tenere celato, ma che, anzi, tenta di spiegare minuziosamente, diligentemente, puntigliosamente nei suoi trattati, il De quinque corporibus regularibus dopo il De prospectiva pingendi. offerti alla frequentazione di quanti abbiano migliori occhi di lui. Gli ultimi anni del grande pittore della luce sono bui, e tra le vecchie carte non troviamo nulla di più patetico della testimonianza di un tal Marco di Longaro, fabbricatore di lanterne per gire intorno. “Ditto Marco, quando era picolo, menava per mano mastro Piero dila Francesca, pittore eccellente ch’era accecato, tanto lui mi disse…”, annota con un briciolo di diffidenza Berto degli Alberti, e sono passati ormai sessantasei anni dalla morte di Piero avvenuta in Bor Âgo San Sepolcro nel 1492. A leggere questa sia pur secca annotazione, è facile intenerirsi sui contrasti del Âla vita. Ma il patetico è più che altro nelle parole, nel Âla qualità immancabilmente scadente e viscerale delle parole. L’immagine che ne nasce, invece, acquista su Âbito purezza: ecco in una chiostra di colli toscani, gui Âdato per mano da un bambino, un vecchio con un cor Âpo sempre valido, anche se con gli occhi spenti. Un soggetto che avrebbe potuto dipingere, e dimenticare dipingendolo, lui, Piero: la piccola guida e l’uomo immobili nella luce meridiana, l’irresistibile luce del presente che non potrà mai corrompersi né tramon Âtare, i personaggi come il paesaggio familiare accet Âtati e assorbiti, sdrammatizzati e celebrati nell’armonia, solenni nei lieti colori gemmanti tra i nodi delle implacabili conseguenze geometriche. Letto 4547 volte. | ![]() | ||||||||||
Commento by Carlo Capone — 27 Marzo 2011 @ 13:00
Bart, queste riedizioni di articoli sui grandi maestri sono un documento eccezionale.
Mancano, come più volte ti ho espresso,  almeno le immagini  dei dipinti più importanti.
Sarebbero di grande aiuto per il lettore, costretto, se vuole apprezzare lo scritto fino in fondo e seguire i ragionamenti dell’autore, a dividersi tra schermate diverse.
Sempre nell’ipotesi che sia riuscito ad attingere dal  web  le opere  in questione.
Saluti
Carlo
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 27 Marzo 2011 @ 13:20
Hai ragione, Carlo, ma faccio quello che posso. L’articolo originale non riporta le immagini, e dovrei cercarmele, cosa che mi è impossibile per tante ragioni. Mi scuso con te e con i lettori.