STORIA: I MAESTRI: Una nuova capitale per la Libia /128 Marzo 2011 di Paolo Monelli Tripoli, marzo 1969. Il luglio del 1942 Benito Mussolini, eccitato dalla rapida avanzata delle truppe italiane e tedesche in Egitto fino ad el Alamein, si trasfe Ârì in Libia fantasticando di un suo imminente trionfale ingresso al Cairo. (Dal mini Âstero della cultura popolare furono invitati i principali giornali ad inviare in Libia « giornalisti pratici di dimostrazioni »). Prese alloggio a seicento chilometri dalla pri Âma linea, sull’altipiano cire Ânaico che coloni italiani da tre o quattro anni stavano mettendo a coltura, pacifica retrovia, in una casetta a mezza costa sommersa da centinaia di sacchetti di ter Âra, presso il villaggio agricolo di Beda Littoria. Luogo sacro per gli arabi; sorge in quei pressi il più illustre marabut Âto della Cirenaica, la tomba del santone Sidi Raafa, del VII secolo, ed una zauia (scuola religiosa) creata nel 1840 dal nonno del re attua Âle, Muhammed Ibn Ali As Âsuntisi, « il gran Senusso », fondatore della confraterni Âta musulmana che ne prese il nome: un movimento religio Âso che si è diffuso special Âmente fra i beduini, i noma Âdi del deserto, e intende ri Âcondurre l’Islà m all’originale purezza e durezza di vita. (Il marabutto, rovinato nel cor Âso della guerra italo-turca, fu poi restaurato dal nostro governo). Mussolini era appena arri Âvato sull’altra sponda che i preparativi per la ripresa del Âl’offensiva si interruppero; non giungeva più un solo ba Ârile di benzina attraverso il mare dominato dagli inglesi, né un pezzo di ricambio per i carri armati. Il potente pas Âsò una ventina di giorni in ozio inglorioso andando a caccia di pernici con il fu Âcile mitragliatore, e scenden Âdo ogni tanto sulla strada a dar la baia ai prigionieri in Âglesi diretti ai campi di con Âcentramento; finché, deluso e ammalato, tornò a Roma. Ora sul luogo della sua ef Âfimera residenza, e per chi Âlometri quadrati intorno, è nata la nuova capitale della Libia, el Beda (che gli arabi trascrivono Beida); vi hanno lavorato e vi lavorano tuttora numerose imprese edilizie, quasi tutte italiane, già sono pronti quartieri per decine di migliaia di abitanti che sono ancora in mente Dei, solenni edifici pubblici come il parla Âmento, scuole, una accademia di arti e mestieri, falansteri per deputati, senatori, mini Âstri, funzionari, centinaia di villette, casermoni che si le Âvano compatti su da un ter Âreno ancora sconvolto, ché non si sono ancora fatte le strade, e l’acquedotto sarà pronto solo alla fine del pros Âsimo anno. E accanto ad un grandioso albergo e ai caser Âmoni è sorto un brulicante mercato. E’ un frettoloso can Âtiere, un andirivieni di cen Âtinaia di autocarri, un por mano a tante faccende tutte insieme, che è l’aspetto più caratteristico di questo paese che è uno degli Stati più nuo Âvi del mondo, e testimonia nelle città dissepolte â— Sabratha, Tolemaide, Cirene, Leptis Magna â— di una ci Âviltà greca e romana che ri Âsale a venticinque secoli fa; e ha meno di un milione e mezzo di abitanti sopra una superficie che è sei volte quel Âla dell’Italia; ed è passato in cinque anni da un’indigenza rassegnata ad una prosperità vigorosa e confidente, da quel giorno del 1959 che un pozzo presso Zelten, nel deserto sirtico, in dodici ore portò alla superficie petrolio da una profondità di 1800 metri nel Âla misura di 17.500 barili al giorno (un barile è uguale a 156 litri). Nel 1955 il giornalista ame Âricano John Gunther nel suo libro Inside Africa paragona Âva la Libia ad un bambino che stia ancora imparando a camminare: «E’ forse il più povero Stato del mondo, con un incerto futuro, che vive soltanto dei regolari sussidi dell’Inghilterra e degli Stati Uniti ». Ed ora si concede il lusso di costruirsi una quarta capitale nuova di zecca. Ce n’era il bisogno? Il regno di Libia è nato il 1 ° gennaio del 1952 come una confederazione di tre Stati, Tripolitania, capitale Tripoli; Cirenaica, capitale Bengasi; Fezzan (immensa regione de Âsertica del sud con cinquanta Âmila abitanti, per lo più no Âmadi), capitale Sebha. Il go Âverno si trasportava ogni due anni da Tripoli a Bengasi, e da Bengasi a Tripoli, e così facevano il parlamento e i funzionari dei ministeri. L’an Âno 1965 un emendamento del Âla costituzione cambiò la for Âma dello Stato, da federale ad unitario; e subito si pen Âsò a fare di Beda la capi Âtale del regno unito; e già lo scorso anno il re vi inau Âgurò solennemente la sessio Âne del parlamento. Un sovrano savio Re Idriss I (che è sulla so Âglia degli ottant’anni) è nipo Âte, dunque, del fondatore del Âl’ordine dei Senussi. Nomina Âto gran Senusso nel 1917, poi proclamato emiro della Cire Ânaica, e nel 1950 acclamato re di Libia, è universalmente lo Âdato come sovrano giusto e savio, equilibrato e pacifico. Ma si dice che il suo cuore sia sempre con i cirenaici, che si sentono diversi dai tripolitani (si vantano di essere gli eredi dell’antica civiltà greca mentre i tripolitani ri Âsalgono soltanto ai cartagine Âsi e ai romani); e soprattutto con quei cirenaici che profes Âsano la dottrina senussita: in fondo la nuova capitale è cresciuta su dalla zauìa ori Âginaria di cui ho detto, dive Ânuta oggi una grande univer Âsità islamica, con grandi co Âmodi alloggi per studenti di ogni parte del mondo arabo e per un corpo di teologi dottissimi. Vi sono giunto per l’antica strada litoranea costruita dal governatore Italo Balbo, che si stende dal confine tu Ânisino a quell’altipiano; che ora una ditta italiana sta raddoppiando, costruendo qua e là tronchi nuovi per cor Âreggerne il percorso, con ope Âre d’arte e grandi viadotti che scavalcano forre bosco Âse. Si passa accanto a caset Âte tutte uguali, le più ab Âbandonate; sono quelle co Âstruite per i coloni che ven Ânero qui gli anni ’38 e ’39 per cura dell’ente per la colonizzazione della Cirenaica, ebbero appena il tempo dì piantare eucalipti e tamerici e seminare grano ed orzo che li sorprese la guerra, e la fine del 1942 l’ordine del mi Ânistero delle colonie di pian Âtar tutto e rientrare in fretta in Italia (avevano subito an Âgherie e danni nel corso del Âla prima avanzata inglese, si temeva di peggio per la se Âconda preveduta imminente). Di duemila famiglie che era Âno ne rimasero una sessanti Âna, che rimpatriarono tutte dopo la fine della guerra; finché ne rimase una sola, una famiglia bolognese che restò a lungo indisturbata a coltivare il suo podere presso Barce, finché scomparve an Âche quella. Della loro opera è rimasto qua e là un man Âto verde su ciò che era terreno incolto e steppa, per cui oggi questa parte della Cirenaica è chiamata « la mon Âtagna verde ». Barce risorta Là dove la strada esce da un labirinto di collinette ton Âde e la vista si allarga su una grande estensione di terreno fino ad una vasta luce d’acque ai piedi di un azzurro gradino dell’altopiano, che prendo sulle prime per un fe Ânomeno di fata Morgana (è invece un lago estemporaneo d’acqua piovana che scompa Ârirà con i primi calori), un cartello sulla strada annun Âcia che l’abitato che mi vie Âne incontro è Barce; la nuo Âva Barce costruita in luogo dell’antica, fondata venticin Âque secoli fa dai greci di Cirene, e distrutta da un ter Âremoto l’anno 1963. Dopo quello che ho veduto, penso che noi italiani dovrem Âmo venire a prendere lezione dai libici. Appena sgomberati i superstiti dalle case rovinate le autorità fecero venire un geologo giapponese che in Âdicasse il luogo più adatto per rifare la città (e il geologo indicò una conca cinque chi Âlometri distante), ne affida Ârono due anni fa la ricostru Âzione a due ditte italiane, con un piano regolatore per cui sorsero prima di tutto l’ospe Âdale, la scuola, il municipio, la moschea, poi gruppi di ca Âsette linde, allineate lungo viali ove sono già piantati gli alberelli, ben sostenuti, che diverranno in breve frondosi eucalipti o tamerici. A cin Âque anni dal cataclisma Barce ricomincia a vivere, i citta Âdini vi ritornano fiduciosi. Credete che fra quattro anni saranno scomparse le tracce del terremoto che sconvolse la Sicilia occidentale, e que Âgli abitanti avranno tutti ospedali e scuole e case co Âmode e accoglienti? L’arco di trionfo Beda, a seicento metri di altitudine, si annuncia con un arco di trionfo, e i grandiosi edifici della università islamica; ed un foltissimo viale di grandi alberi porta alla città che si distende fin dove giunge l’occhio sopra dossi ondulati. Finché durò la luce del giorno, e andai a parlare con i dirigenti e gli operai specializzati delle ditte italia Âne che hanno eretto il quar Âtiere destinato ai ministri ai senatori ai deputati, e le tre Âcento ville e gli ottocento ap Âpartamenti per funzionari e professori e impiegati, e di quella che sta costruendo l’ac Âquedotto; e vidi le bottegucce intorno alla piazza del mer Âcato traboccanti delle merci di consumo provenienti da ogni parte d’Europa e dal Giappone, e gli indigeni, che lavorano nelle imprese di co Âstruzione e si trovano le ta Âsche piene dì quattrini di cui non sanno che fare, compe Ârare cose mai prima vedute o desiderate, apparecchi ra Âdio e televisivi, dischi e gira Âdischi, mobili alla lombarda, poltrone alla tedesca, e ve Âstiti e maglioni di foggia eu Âropea, e scarpe, e suppellet Âtili di cucina; finché avevo gente intorno potevo ancora illudermi di essere in una cit Âtà come tante altre, in rapido sviluppo. Ma venuta la sera, dirada Âta la folla intorno al mercato, scomparse le maestranze ne Âgli alloggi o nelle mense, da quelle infinite case lucide e vuote, buie le finestre, nessuna anima intorno, non una voce, non un suono, solo qualche raro passaggio di autocarri, mi venne uno sgomento allu Âcinato. Mi vennero in mente i discorsi sentiti a Tripoli, che deputati e senatori e fun Âzionari e impiegati, i membri di quel sottilissimo strato so Âciale che può avere uno Stato di cui i tre quarti degli abi Âtanti vivono nelle campagne o sono nomadi, non hanno al Âcuna intenzione di trasferirsi in questa città nuova, di la Âsciare Tripoli e Bengasi che hanno una vita moderna, sono affacciate al mare di Eu Âropa, e hanno spiagge e casi Âni da gioco. E se a Bengasi lo spirito religioso è più forte e resistono i costumi all’anti Âca, Tripoli è più vivace e spregiudicata; ma come passare il tempo in questa metropoli sacra, sede di una grande uni Âversità religiosa dove finora non si è vista una donna bianca; capitale della Senussia che vieta ai suoi adepti il canto, la musica, la danza, il tabacco, oltre alla comune astinenza dal vino che il Co Ârano raccomanda ai suoi fe Âdeli (« O credenti, il vino è solo sozzura o opera di Sata Âna, tenetevene quindi lonta Âni »)? (Al bar dell’albergo, che ha una clientela interna Âzionale, il mio compagno li Âbico, che avevo visto bere li Âberamente un whisky a Tri Âpoli, qui se ne astenne rigoro Âsamente e, direi, ostentata Âmente.). E, paradossale conseguenza d’un fenomeno di vita inten Âsa, di bramosia creatrice, di vertiginosi mutamenti, mi tor Ânò a mente la città dei morti del Cairo; quel grande quar Âtiere ai piedi della collina del Moqattam, intorno alle tombe dei califfi, ove capitai un po Âmeriggio senza sapere, e mi trovai a camminare per gran Âdi strade vuote, lungo case si Âlenziose, con porte da cui nes Âsuno usciva, finestre a cui nessuno si affacciava; finché mi accorsi che quelle case era Âno tutte sepolcri, guardando attraverso le finestre del pian Âterreno vedevo nel mezzo di un cortiletto umido, cospar Âso di rami secchi di palme, le stele funerarie della famiglia. Letto 1815 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||