PITTURA: I MAESTRI: Pierre Bonnard9 Settembre 2013 di Renato Barilli Il primo problema che si po ne inevitabilmente a chi vi sita la grande mostra di Pierre Bonnard, allestita al- l’Orangerie di Parigi, è di chie dersi qual senso abbia quella vi sita stessa: se si tratti di un ortaggio « storico » a un artista ormai appartenente al passato, o se invece ne possa nascere una partecipazione più stretta e diretta, sul filo di interessi at tuali. L’interrogativo è reso tan to più stringente per il fatto no torio che, subito al di là di Place de la Concorde, al Petit e al Grand Palais, si allungavano fi no a pochi giorni fa le file’de gli innumerevoli visitatori at tratti dalla mastodontica rasse gna dedicata a Picasso. E po teva sembrare allora di assistere a un esemplare contrasto tra passato e presente, tra chi, co me Bonnard, testimonia di un mondo perfetto e meraviglioso, ma ormai concluso e lontano, ap punto quello della fìn-de-siècle e dell’abbandono gioioso alle sen sazioni, dell’accordo con la natu ra, della fruizione pacifica di dol cezze familiari e intimistiche, e chi invece, come Picasso rap presenta il dinamismo novecen tesco, l’irrequietezza dell’homo faber proteso a costruirsi un lu cido mondo artificiale fondato più sull’intelletto che sui sensi. Contemplazione passiva da una parte e, dall’altra, azione tesa e nervosa, progettazione energica e instancabile. E questo malgra do il fatto che le differenze cro nologiche non sembrerebbero di per se stesse autorizzare tanta distanza di risultati, consideran do che Bonnard ha una data di nascita di appena quattordici an ni anteriore à quella di Picasso, e che ci ha lasciato da non più di due decenni. Dunque, si direb be, due atteggiamenti opposti, uno retrospettivo, quello dell’arti sta francese, col baricentro si tuato tutto nel suo periodo ini ziale, nel cuore degli anni ’90, e poi incapace di spostarsi di lì, di rinnovarsi; tutto prospettico e anticipatorio invece, quello del grande spagnolo. Qualcosa di si mile al corso di due fiumi che, pur avendo le sorgenti molto prossime tra loro, si gettano poi su versanti opposti. Controluce di Corot e paesaggi di Monet ancora stesi a masse Ora certamente non mancano elementi volti a ribadire questa immagine di un Bonnard ormai consegnato alla storia, lontano dalla nostra sensibilità attuale. A cominciare da quello che ne è il connotato più rilevante e co stante: la meravigliosa, fulgida felicità cromatica, la fitta, sotti lissima vibrazione atmosferica, frutto estremo dell’incredibile acutezza sensoriale che fu pro pria della grande stagione im pressionista. E proprio questa mostra assai ben documentata ci rivela come Bonnard non do vette indugiare a lungo, prima di ritrovarsi investito di questa mirabile luminosità: già i primi dipinti che appena ventenne ese guiva nel nativo Delfinato, pri ma ancora di stabilirsi a Parigi, e dunque in una condizione di cultura affatto provinciale, ba gnano splendidamente nella luce solare e attestano con evidenza l’influsso della migliore tradizio ne del plein-air, dai controluce di Corot ai primi paesaggi di Monet, ancora stesi a masse compatte, benché già al loro in terno intensamente radiose e scintillanti. E’ poi largamente noto che, stabilitosi nella capi tale francese, Bonnard fu tra i fondatori del sodalizio Nabi e si legò di stretta amicizia con tutti i membri di quel gruppo: col « gemello » Vuillard prima di tutto, ma anche con Denis, Sérusier, Ranson, Roussel. E proprio dal periodo Nabi potrebbe venire un’ulteriore con ferma all’immagine di un Bon nard tutto ricadente su un ver sante ottocentesco. Fu quello l’unico momento in cui egli par tecipò a uno sperimentalismo di gruppo, a un’avanguardia nel senso più scoperto del termine. Da Sérusier. e Denis, accolse il precetto del ricorso all’à plat, al la pittura piatta, di superficie, e dell’adozione di sagome arabe scate, racchiuse entro un ele gante fluire di linee. Di quella fase « sperimentale », la mostra allinea forse la tela più proban te e manifesta, il ritratto della sorella Andrée circondata dai suoi cani, figura preziosa e aral dica come in un arazzo medie vale. E sempre il tema dei cani, e quello affine dei gatti, gli sug gerì anche altri gustosi arabe schi di linee arcuate, di sinuosi tà elastiche. Eppure, anche in questo momento” di deliberato e volontario ‘ linearismo, si avverte una resistenza della « pasta » pit torica, non proprio distesa a campiture liscie, come avrebbe voluto Denis, anzi, spesso gru mosa e tormentata, non del tut to affrancata cioè dalla consue ta tecnica impressionistica. Per fino nelle famosissime affiches per la Ditta France-Champagne e per la « Revue Blanche », che pure sono tra i risultati più net ti e sicuri dello spirito « giap ponese » promosso con tanta in sistenza dai Nabis, anche in quel le occasioni il giovane artista non rinuncia a portarsi dietro un tremolio atmosferico, un sen so come di spuma effervescen te che finisce per corrodere il rigore dei contorni. Del resto, il periodo « speri mentale » di Bonnard non dura a lungo, non varca il ’94. Av viene che quei grumi di pasta, quei coaguli di colore da cui la fase lineare e « giapponese » non era mai riuscita a liberarsi, riprendano ben prèsto il soprav vento. E’ la riscossa di un pit toricismo invano represso. E nello stesso tempo, l’abbandono dei temi aulici e preziosi, il ritorno a una sapida descrizione di am bienti, di scenette familiari, di aneddoti domestici: bambini grassocci intenti alla merenda, animali appena intravisti prima di svoltare all’angolo, passanti inquadrati per un momento sul lo sfondo di una via. Tutta una produzione che a prima vista poteva impensierire assai, allora come oggi, circa gli esiti futuri del giovane artista, e indurre appunto al timore di un suo pre cipitoso indietreggiamento sul versante retrospettivo: giacché, dal lato compositivo, quelle sce ne erano redatte in modo mol to frammentario, e su esigue di mensioni; e dal lato pittorico, la tavolozza appariva sporca, bi tuminosa,’ impostata in preva lenza sui bruni e le terre. Pote va parere insomma che Bon nard, non avendo retto al passo avanguardistico dei compagni Nabis, si fosse attestato per in tero nell’ambito di un post-im pressionismo sfatto, e in un de stino da epigono dei grandi « pittori della vita moderna » che l’avevano preceduto, da Manet a Renoir a Degas. A dire il vero, anche nel sol co di questa interpretazione ri dotta e modesta, un pronto ri scatto non era lontano. Infatti, appena varcato il capo del nuo vo secolo, Bonnard matura un imperioso balzo in avanti. Sem pre a volersi limitare per il mo mento a certi aspetti esteriori, è innegabile che quella stessa tematica domestica e intimistica gli si allargò, dopo il 1900, in composizioni vaste, di grande respiro, ove era abbandonata de cisamente la misura dell’im pressione » rapida e corsiva. E poi, soprattutto, la tavolozza si schiarisce, si illumina, si accen de, raggiungendo di colpo quello splendore, quella felicità che tut ti riconoscono al maestro fran cese. Forse contribuiscono a que sto risoluto scatto in avanti ta lune circostanze biografiche, lo allontanamento da Parigi e dal la vita traumatica dell’avanguar dia, dal clima di gruppo, dalle sue inevitabili diatribe e tensio ni; e poi il fatto che l’artista ha ora al suo fianco la moglie Marthe, dalla salute fragile e precaria così da richiedere quasi ininterrotte residenze in campa gna. Ed ecco quindi i lunghi an ni trascorsi alla villa del Vernonnet, nell’Ile de France, e poi a Le Cannet, sulla Costa Azzurra. Nell’un caso e nell’altro, è un bombardamento ottico, una impetuosa inondazione di plein-air, nelle due versioni partico larmente cariche e privilegiate offerte rispettivamente dalla lu ce tersa e penetrante dell’Ile de France e da quella calda, affo cata, mediterranea della Costa Azzurra. E sembra appunto che la civiltà impressionistica tocchi qui uno dei suoi vertici più al ti, riuscendo a bloccare quasi per tocco magico lo scorrere del tempo, a fermarlo in un eterno presente. I quasi cinquant’anni che la vita operosa di Bonnard occupa nel nostro secolo non paiono avere storia, risultando quindi simili per questo verso a una sorta di corpo estraneo inse rito a forza in un altro domi nato da regole e leggi diverse. Ma dal tono con cui si è con dotto fin qui il discorso sarà ap parsa manifesta l’intenzione di far scoccare prima o poi l’ora di una palinodia, di un’inversio ne di marcia, volta a distoglie re l’artista francese da una im mota, per quanto felice, colloca zione nell’area post-impressioni sta, e a sottolineare invece la presenza in lui di componenti e aspetti diversamente orientati. E le radici di tali aspetti più stringenti, le potremo ritrovare nel cuore stesso di quello che sembrava il periodo meno effica ce dell’artista, il periodo « scu ro » delle rapide scenette familia ri dipinte nell’ultimo scorcio del secolo. C’è qualcosa, infatti, che le distingue da una pura e semplice « impressione », dal gu sto dell’istantanea, dell’annota zione epidermica e superficiale. Una donna alla finestra, un gatto che gioca, una bambina che corre Ed è anche la differenza tra la passività spettante comunemente a ogni forma di impressionismo, e l’attività sui generis di cui invece si dimostra capace Bon nard. In quelle scenette bitumi nose e sporche, il suo occhio non manca mai di cogliere le linee portanti, le linee-forza di un’azio ne umana e del suo esatto col locarsi in un ambiente, pronta a percorrerlo, a misurarlo. Sarà il moto rapido di una cavalle rizza che sembra coinvolgere con sé l’andamento curvilineo delle tribune, o lo slargarsi di una piazza, quasi per prepararsi ad accogliere la presenza di una fi gura femminile, annunciata per il momento in un invadente pri mo piano. E poi i lunghi per corsi ottici attraverso corridoi e vani di porte, prima di giungere a sorprendere qualche minimo spettacolo quotidiano. Ma ben inteso si tratta per il momento di anticipi quasi impercettibili, nascosti sotto l’apparenza di un impressionismo frettoloso e per fino sciatto. Questa presenza attiva della percezione bonnardiana cresce poi su se stessa e giunge a ma nifestarsi in pieno già in un dipinto del 1900, l‘Après-midi bourgeois. Dal punto di vista te matico, si tratta evidentemente della quintessenza dell’intimismo fin-de-siècle, di un senso di vita confortevole, agiato, smemorato in dolcezze d’ambiente e di pae saggio, contro cui ben presto avrà tutte le ragioni di levarsi la furia distruttiva di Picasso e del cubismo. Bonnard, dal canto suo, aderisce .per intero a quel mondo e ai suoi valori, ma for se appunto per questo si sente impegnato in un’impresa di ri scatto totale, ove le cose e i per sonaggi non si allineino docil mente come per una foto-ricor do, per un’impressione sfuggen te e illanguidita, ma costituisca no ciascuno un centro d’azione, facciano sentire la presenza dei loro gesti potenziali. Ecco così che, delle figure umane, alcune tendono a ingrossarsi, a dilatar si per ospitare, come soffici cu scinetti, un maggior numero di sensazioni e di notazioni croma tiche; altre invece si assottiglia no, si contraggono come pali, divenendo i perni, gli assi attorno ai quali si agita e tumultua la marea indistinta delle vibrazioni atmosferiche. Una donna alla finestra, una bambina che corre, un gatto che gioca, non si prestano solo a far macchia di colore, ma sono presenti cia scuno con una immanente quan tità d’azione, che stringe legami invisibili con quelle contigue, fi no a istituire un sistema di for ze in equilibrio dinamico. E na turalmente non si tratta mai di uno studio astratto di « pure » possibilità di azione, perché a questo modo si verrebbe ad attribuire a Bonnard un pro gramma molto prossimo a quel lo che poi realizzeranno cubi smo e futurismo, movimenti per tanti versi a lui antitetici. Ciò che caratterizza l’azione dei suoi personaggi e delle sue cose, è il fatto di essere un’azione concreta, materialmente misura bile, legata a certi precisi ogget ti, al piacere di raggiungere e carezzare la superficie di una tavola, o di por mano su una fruttiera, o di slanciarsi a corsa in un prato. E poi ovviamente non si tratta mai di un’azione compiuta nel vuoto, bensì di un’azione che deve tener conto della densità del plein-air, che quindi, per compiersi, deve vin cere l’attrito di un sottile strato di corpuscoli luminosi estesi ovunque. Questo carattere « attivo » che Bonnard sa conferire ai temi pur consacrati al più pacifico intimi smo borghese si riscontra in mol to altre vaste tele. Così si dica per una Place Clichy au tramway vert, del 1906, ove è istitui to un vorticoso sistema dinami co tra certe figure di passanti, e il traffico delle strade, e una bancarella che quasi si rovescia addosso allo spettatore, mentre venditori e compratori si proten dono avidamente su di essa; o anche per il Café du Petit Poucet, del ’14, ove la folla degli av ventori non costituisce un inerte spettacolo cromatico, ma si scin de in un rapporto assai animato di masse, alcune delle quali dilatate, altre contratte e raggrinzi te. Uno dei filoni privilegiati per esplicare questa ricerca di azio ne concreta e tangibile fu offer to a Bonnard dal nudo femmini le: un tema che in effetti ebbe per lui origini assai poco acca demiche, ma il più delle volte af fatto domestiche e familiari, trat tandosi del nudo fornito dal la moglie stessa che amava ag girarsi per la casa senza abiti, e darsi a pratiche igieniche, per esempio a lunghi bagni nella va sca. Ora appunto, nella trattazio ne bonnardiana, il nudo sparisce come tema da curarsi per se stes so, e non è neppure un prete sto per gustosi effetti di carni femminili accese e sensuali, ma diviene piuttosto anch’esso un centro d’azione domestica, quasi un modulo concreto, corporeo per aggirarsi nelle meraviglie ot tiche di una stanza da bagno, per aderire all’incendio dei pietrini di rivestimento, o per strisciare sulla tenera superficie ceramicata delle mattonelle. Si aggiunga poi un sempre più insistito ricorso agli specchi, morbosamente ricer cati dall’artista per raddoppiare le possibilità stesse d’azione dei suoi nudi, per spingerli a muo versi e a orientarsi in un com plesso e intricato labirinto. Altra serie nutrita, e ricca di splendidi risultati, quella delle ta vole, delle mense imbandite, che poi si allargano poco alla volta a comprendere tutto un ambien te, tutta una stanza coi suoi mo bili, e a evadere talora anche da essa, attraverso porte e finestre, fino ad abbracciare un intero ap partamento, e addirittura una fet ta di giardino. Di realizzazioni di tal genere, Bonnard ne ha si può dire in ogni anno della sua fase matura, e via via più ingegno se e ardite. Qui, l’azione parte dall’oggetto stesso, dalla tavola che impone con energia se stes sa rovesciandosi quasi addosso al lo spettatore, obbligandolo a im mergersi su di essa con lo sguar do. E anche i personaggi che vi si assidono attorno ne avverto no l’imperiosa forza, devono qua si subordinarsi a essa: l’artista li tratta per lo più in modo som mario e sfatto; mentre un’attra zione magnetica sprigiona dalle stanze, dalle cuccume, dalle frut tiere che poggiano sul piano del la mensa. In occasioni del genere, risulta invero del tutto incongrua la nozione tradizionale di « natu ra morta », tale da suggerire un senso di inerzia e di staticità che certo non si adatta a quegli oggetti, tanto sicuri di costituirsi ognuno come il centro di un cam po gravitazionale, come il polo d’attrazione di una rete di sguar di. Certamente, nell’ambito di tutta questa tematica di tavole imbandite recanti stoviglie e sup pellettili varie, Bonnard si è vo luto concedere, e ha voluto con cedere a noi, il piacere intenso inerente allo sfruttamento di un microcosmo, il piacere cioè di ri produrre un’immagine del mon do più vasto con le sue acciden talità naturali (monti, mari, isole, edifici), di riprodurlo su scala ridotta, mettendolo quindi « a portata di mano », in una facile e piana accessibilità, tale da far provare un inebriante senso di potenza demiurgica. Si aggiunga poi che, come si è già anticipato, molte volte Bon nard non si limita al solo micro cosmo fornito da un’unica men sa imbandita, ma allarga ia vi suale fino a sorprendere, al di là della tavola, più lontano nella stessa stanza o in una stanza at tigua, qualche altro denso micro cosmo occhieggiante su una cre denza; oppure il microcosmo di un’aiuola incendiata dal sole. E’ soprattutto a partire dagli anni ’30 che egli affronta un simile tema così complesso e articola to (Interno bianco, L’armadio rosso, La terrazza soleggiata, L’atelier delle mimose, ecc.), procurando sempre più di otte nere la compenetrazione tra l’am biente artificiale della casa e dei suoi utensili e quello naturale del paesaggio esterno: una distinzione, questa, che del resto non era mai stata molto netta, nell’arte bonnardiana, giacché ciascuno dei due aspetti aveva denunciato, in ogni momento, una viva tenden za ad assimilarsi all’altro, l’am bito domestico e artificiale mo strandosi più che disposta a es ser interpretato secondo metafo re paesaggistiche, in termini di nomenclatura geografica, di mon ti, campagne, praterie; e il paesaggio di natura essendo sempre propenso ad accettare schemi orientativi, linee divisorie e di confine, rinunciando quindi a bruciarsi in un indistinto arruf fio di erbe e di frasche. Anni ’30 e ’40: continua dun que, sempre ad alto livello qua litativo, e anzi tocca un culmi ne di complessità e di articola zione, la vicenda apparentemen te defilata e acronica di Bonnard. Ma è forse tempo, a questo pun to, di riattraversare simbolicamente Place de la Concorde e di chiedersi quale spettacolo appa risse ai visitatori della mostra picassiana, nelle sale del maestro rispondenti a quelle stesse date. Verso gli anni ’40, Picasso ha ter minato il grande ciclo dello scan daglio teorico, ideale delle possi bilità d’azione concesse al corpo umano: un uomo considerato in assoluto, posto al centro dell’uni verso, libero di esibirsi in ogni dimostrazione dì sé, nelle più ar rischiate disposizioni e giaciture spaziali. Ormai da qualche tem po Picasso si trova ad « applica re » le nuove possibilità dinami che, ritorna a scene aneddotiche e circostanziate (come a esempio la famosa Pesca notturna ad Antibes). Ma caduto l’alto fervore intellettuale della ricerca «pura », l’applicazione risulta alquanto va cua ed evasiva: riesce solo a rac contarci storie arcadiche ed elle nistiche di pastori, oppure a mimare elegantemente certi capo lavori del passato (Las meninas di Velasquez). E’ un’evidente in sufficienza e carenza che non può non balzare agli occhi a nuove generazioni di visitatori, mossi da più urgenti bisogni di inci dere su una concreta situazione esistenziale e sulle sue insoppri mibili circostanze materiali. Ecco allora che la spazialità concreta, tangibile, a misura non già del l’uomo in assoluto, ma di uomi ni in carne e ossa e alle prese con le modeste’ occorrenze quoti diane, che è il problema attorno a cui Bonnard si è continuamen te affaticato, può tornare a sug gerire qualcosa, riallacciarsi con interessi e preoccupazioni attua li. A patto però di scinderla da quell’involucro di felicità croma tica, di avida e gioiosa adesione ai singoli dati di fatto, alle sin gole e locali risultanze sensoria li, che è il bene, il patrimonio fulgido di un’epoca in generale, e di un artista in particolare, ma che d’altronde appare, esso sì, or mai ineluttabilmente irrecupera bile e lontano nel tempo. Letto 2062 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||