PITTURA: I MAESTRI: Poussin: La meditazione nata dall’immagine30 Agosto 2018 di Jacques Thuillier Di primo acchito le doti appaiono mediocri. La mano, che non è mai stata scioltissima, presto comincia a vacillare: ignora i brani memorabili, ardenti di entusiasmo come in Tintoretto o in Rubens, che bastano a rivelare il pittore nato. L’occhio sembra incapace di sottili accostamenti di colore, di quei ‘tagli’ inattesi che conquistano chi guarda. Non risalta niente, non uno di quei colpi d’ala per cui si impone un genio: dappertut Âto una misura uniforme che sembra basarsi essenzial Âmente sul ragionamento. “Col tempo e con la paglia maturano le nespole”: sono parole del pittore francese, che fa suo un noto proverbio italiano. Il tratto di maggior rilievo potrebbe essere proprio quella virtù che può venire considerata nemica d’ogni empito di poesia: la diligenza. Tutto ciò, in verità , non fa di Poussin un protago Ânista nella storia dell’arte. Soprattutto se si pensa che il Seicento – secolo d’oro in pittura – vede sorgere ovunque maestri dotati di ogni qualità prestigiosa. Un Ru Âbens crea come per caso, tra una missione diplomatica e l’altra, mondi di felicità travolgente. I Bernini, i Van Dyck, i Le Brun uniscono alla tecnica infallibile una carica di attrattive personali che di botto gli assicura la benevolenza dei potenti. In loro, l’ispirazione sembra manifestarsi già dalla culla; elegiaca o eroica, la poesia gli sgorga con assoluta naturalezza dalle dita: a comin Âciare dal rivale di Poussin, Pietro da Cortona, languido cantore di dolci sere d’estate, di ciocche brune che si intrecciano su candide nuche di donna. In simile com Âpagnia, Poussin può figurare degnamente? Questo ” maestro del classicismo francese ” non sarà uno di que Âgli artisti costruiti dall’amor proprio nazionale, che si riconosce e si crogiola perfino nei loro difetti? Lo si può collocare al livello dei poeti ispirati, dei Rembrandt o dei Velázquez? La tradizione e le convenzioni, nella storia dell’arte, impongono gerarchie: non esiste forse un mito di Poussin? La questione merita di essere affrontata. E la rispo Âsta non si deve cercare in argomentazioni di ordine storico. Soltanto, si appenda, accosto a una tela di Ru Âbens oppure di Rembrandt, un Poussin del Louvre o dell’Ermitage: non ne soffre per nulla. Ma al confronto – una semplice sfumatura – la tragicità di Rembrandt suona un po’ troppo patetica, e sul lirismo di Rubens si proietta l’ombra di una facile retorica. Privilegio su Âpremo, posseduto dal solo Raffaello, ai tempi del Rina Âscimento, e da Cézanne, fra i moderni, e su cui biso Âgna bene meditare. Il vero mito di Poussin è forse opposto. Una lunga tradizione ha investito il pittore dell’autorità di mae Âstro della scuola francese. Si è instaurata l’immagine di un personaggio solenne, imbevuto di principi, che crea per via di scienza e di deduzioni. In parte ne è re Âsponsabile il famoso autoritratto del Louvre, in cui Poussin, l’eterno malato pronto a compiangersi, ha vo Âluto presentarsi con una gravita olimpica. Non fingeva: anche quell’aspetto di antico saggio gli appartiene; però i contemporanei conobbero di lui altri aspetti. Di Pous Âsin appena trentenne, il cavalier Marino poteva scri Âvere: “Vedrete un giovane che à una furia di diavolo”. Davvero si scatenò una “furia di diavolo” in quest’uomo che viene presentato soltanto come cauto e con Âtenuto. È l’ardore giovanile ad acquistargli l’amicizia del vecchio e illustre poeta che era allora il Marino. È l’energia sorprendente che gli permette, poco dopo. di conquistare entro breve la celebrità in una Roma piena della concorrenza più temibile: è la foga che ema Âna da tele come il Martirio di sant’Erasmo o l’Apparizione della Vergine a san Giacomo. Tale “furia”, la si ritrova a ogni svolta della sua vita: a sessant’anni passati, non è una sorpresa vedere questo malato sognare ancora col giovane abbé Fouquet imprese grandiose e misteriose? È poi molto di Âverso Poussin da quel vecchio irriducibile che era il Ber Ânini? Ma in lui, per uno strano effetto, l’entusiasmo viene subito seguito dal rifiuto. La vita di Poussin è scandita da una serie di rinunce. Appena il cavalier Marino gli apre la via del successo a Parigi, lui si rifugia a Roma. Appena diventa celebre a Roma, scarta le commissioni importanti, la scalata sociale, gli onori offerti dalle cor Âti più brillanti d’Europa; sceglie un matrimonio modesto e una vita alla buona, consacrata ai quadri di ca Âvalletto, che il gusto dell’epoca relegava molto al disot Âto delle grandi decorazioni o delle pale da chiesa. Eccolo, nondimeno, coccolato da Richelieu e da Luigi XIII, sovrintendente di tutti i grandi lavori che si eseguono in Francia per il re; ma da quel momento stesso non pensa che a sottrarsi agli obblighi d’un impegno di primo piano. È la prudenza del normanno? È una tara profonda, di cui non scopriremo mai il segreto? In lui, la seconda reazione è sempre di rinuncia e di saggezza. Così, nella sua arte. All’inizio, un’ispirazione altret Âtanto imperiosa che in un Rubens; ma Poussin rifiuta di affidarsi al rischio. Soltanto i disegni ne conservano qualche indizio: gli schizzi per la Strage degli innocenti o per il Martirio di sant’Erasmo so Âno graffiati da una mano straordinariamente brutale. Opere giovanili, sui trent’anni? Tuttavia, ben più tardi, il Mosé e Aronne dinanzi al faraone, il più se Âvero, il più ingrato fra i quadri di Poussin, è preceduto da un disegno quasi rembrandtiano, dove le forme sgor Âgano dal chiaroscuro, materializzandosi in una visione tragica. Non esiste pittura più meditata del Giudizio di Salomone al Louvre (n. 162): tutto sembra procedere dalla riflessione e dal calcolo. Orbene, se ne osservi il disegno all’Ecole des Beaux-Arts, nella sua violenza espressionistica, con quel gigantesco re allucinato da Âvanti al proprio tragico dovere… Bisogna accettarla, una tale contraddizione, asso Âlutamente estranea alla facilità accademica. Quest’uo Âmo votato alla modestia avrà finalmente ottenuto, e non senza soddisfazione, maggiori onori di Rubens, una gloria universale e una vasta fortuna. Avrà condotto, volontariamente, un’esistenza ritirata, ma al centro del Âla vita artistica, al centro stesso dell’attualità europea. Ipocrisia? Certamente no. È ben lui sia quando conqui Âsta, sia quando rifiuta. Mentre impone alla propria ar Âte la misura più rigorosa, ci ha lasciato i disegni più immediati del tempo; non ha sottratto agli amatori gli schizzi in cui si tradisce l’impazienza del primo abboz Âzo, né quelli, successivi, dove il tremore della mano ingarbuglia la trama affrettata delle linee. Non si af Âfida all’immediatezza dell’ispirazione; ma dapprinci Âpio sa contare su essa. Unico nel suo tempo, si permet Âte di rifiutare ogni commissione definita, e non inizia un quadro se prima non gli è venuta l'”idea “. Pittore classico: sia pure, ma nel senso in cui Gide scriveva che il classicismo è anzitutto romanticismo domato. * * * Questo intervallo, fra le più ardite risorse dell’ispi Ârazione e l’appagamento della tela assolutamente pen Âsata e calibrata, presuppone un lungo intervento dello spirito. Viene ammessa soltanto l’opera dove prevale la meditazione. Tale la grande lezione che Poussin im Âpone al suo tempo e che gli è valsa fra i posteri una fama ambigua: la pittura non è dalla parte dell’og Âgetto né della mano e nemmeno dell’occhio; è tutta quanta dalla parte dello spirito, “cosa mentale”. La ‘generosità ’ di Poussin, che è della stessa specie della ‘generosità ’ di Cartesio, non può accontentarsi d’una pittura che sia semplice imitazione dello spetta Âcolo ammirato. Per lui, un dipinto non è la riproduzio Âne d’un brano di natura; in questo senso, non esiste nulla di più antitetico alla ricerca impressionistica che le sue tele, anche quando concedono il primo posto al paesaggio, o quando si ripropongono di rendere le sot Âtili trasparenze dell’atmosfera. Un quadro non è più la riproduzione di un corpo umano, se questo sia stato idealizzato: strane bellezze, in verità , le donne di Pous Âsin, che anzitutto il pittore trasforma in creature con Âvenzionali, elementi di un poema magari sensuale fino all’erotismo, dopo essere state spogliate di ogni sen Âsualità . Non si tratta nemmeno â— per quanto spesso lo si sia creduto – della descrizione o ricostruzione del Âla storia. A raffigurare ciò che accade, o ciò che po Âtrebbe accadere quando Salomone si trova a fare da arbitro tra le due donne o quando Coriolano rifiuta di impugnare le armi contro Roma, Poussin non ambisce neppure un istante. Sarebbe un errore fondamentale giudicare i quadri di Poussin sulla base del verosimile. Il pittore non con Âcede niente all’illusione. Le Sacre Famiglie accettano deliberatamente di posare in gruppi non meno solenni di quelli visibili nelle fotografie del secondo Impero. L’‘Adultera viene presentata entro uno scenario così dichiaratamente costruito, con ribalta, fon Âdale, quinte e comparse, che si traduce in provocazio Âne. Il fatto è che tutto deve svolgersi nel mondo dello spirito, in una maniera altrettanto e volutamente ‘fal Âsa’, nei confronti della realtà , quanto lo è una scena di teatro se paragonata con un episodio di vita quoti Âdiana. Tale ‘falsità ’ costituisce il principio stesso del mondo di Poussin. Dall’Impero di Flora che rinchiude all’interno d’un chiosco di verzura eroi arbitrariamente raggruppati come pagine di un’antologia, alla Manna, che intreccia nel primo piano episodi di tempi diversi, o al Coriolano, che introduce la dea Roma nel mezzo d’una disputa fami Âliare, il dipinto vuol essere l’espressione di un pensiero, con quanto ciò può implicare di sintetico e convenzionale. Non è la manifestazione di un talento nell’ar Âto di riprodurre, né l’affermarsi d’una sensibilità di Ânanzi allo spettacolo del mondo: è un’idea tradotta non con le parole bensì con le forme. Non si tratta, in sostanza, che di un atteggiamento manieristico. Il mondo mitologico di Fontainebleau, con le sue creature eleganti e sensuali nel tempo stesso, è anche pura costruzione dello spirito. Poussin si è formato sulle opere del Rosso e del Primaticcio: si ap Âpaga di tradurre questo atteggiamento in teoria. Ciò che non equivale a raggiungere le estreme conseguenze: anzi. Anche lo spirito ha i suoi deliri. Che la pittura sia “cosa mentale”, è risaputo di nuovo, da circa un secolo: possiamo dedurlo dal fauvisme, dal cubismo e dai movimenti che hanno seguito la potenza ra Âpinosa e la virtù distruttrice dell’inventiva, una volta che questa si sia attestata al centro della creazione e persegua liberamente i propri estri. I pittori manieristici ne avevano già dato qualche prova. Poussin rifiu Âta di seguire quella strada; e quando vuol definire la pittura, non esita a riprendere, senza timore di con Âtraddirsi, la vecchia definizione: “È una imitazione fat Âta con linee e colori su qualsiasi superficie di tutto quanto si vede sotto il sole”. Contro gli eccessi manieristici era insorto, all’ini Âzio del secolo, non solo il franco realismo dei Carracci, ma il realismo provocatore del Caravaggio. Il Sei Âcento si è identificato nella loro reazione, e ha sempre asserito che la natura deve essere la maestra dell’arti Âsta, che le forme naturali rimangono la base indispensabile: durante tutto il secolo, e per tutte le arti, nessuna affermazione è più diffusa di questa. Ancora La Fontaine proclamerà apertamente:  E adesso non bisogna scostarsi d’un passo dalla natura… A Poussin non piaceva il Caravaggio: lo dichiarava nato per distruggere la pittura. Chiaro: è la reazione naturale in un pittore per cui l’opera costituisce in primis una costruzione del pensiero. Non perciò Poussin rimane sordo a quel richiamo imperioso verso le for Âme del reale. Per quanto astratto sia nella concezio Âne, lo spettacolo che propone rispetta sempre le appa Ârenze cui l’occhio è uso e che servono da tramite fra artista e riguardante. La ‘falsità ’ riguarda l’organizza Âzione della tela, non gli elementi singoli della raffigu Ârazione: la vista non deve trovarsi ostacolata né dal Âl’inconsueto né dall’inverosimile. Chi guarda non de Âve diffidare, né venir costretto con la forza: bensì deve penetrare nel quadro senza difficoltà . Questo è il prez Âzo del godimento. Si tratta di una meditazione profon Âda sulle condizioni del piacere estetico che appare ravvisabile in tutta la critica dell’epoca, in primo luogo quella letteraria, ma che è stata dimenticata ormai da tempo. Una parte di lirismo indubbiamente viene meno. L’opera di Poussin, almeno prima dei paesaggi della maturità estrema, rifiuta gli effetti della grande poe Âsia epica o elegiaca; ma solo per apparentarsi alla poe Âsia drammatica. Anche questo aspetto è proprio del suo tempo. Poussin procede dallo stesso à mbito del Âl’altro normanno, Corneille. Tutta la sua generazione si appassiona per il teatro: lui stesso concepisce la pro Âpria creazione sul modello offerto dall’autore tragico. Scegliere un tema, riviverlo intimamente, immedesi Âmarsi con ognuno dei personaggi, provare passioni contraddittorie e trovare il tono giusto: tale diventa con lui la parte del pittore. Non è vana retorica. Leg Âgiamo piuttosto la lettera scritta da Poussin quando Jacques Stella gli commissiona, dopo la Crocifissione dipinta per de Thou, una Salita al Calvario: “Non ho più abbastanza allegria né salute per impe Âgnarmi in soggetti tristi. La Crocifissione mi ha fatto star male, ho provato molta pena, ma un Portacroce finirebbe con l’uccidermi. Non potrei resistere ai pen Âsieri penosi e seri di cui bisogna riempire lo spirito e il cuore per riuscire in soggetti di per sé così tristi e lugubri. Dunque, risparmiatemi, per favore”. Davanti alle Ceneri di Focione, il Bernini, toccandosi la fronte dichiarò: “II signor Poussin è un pittore che lavora di là ”. Se ne deduce che tale lavoro dello spirito non vuoi significare un como Âdo compromesso con le regole accademiche; anzi, ri Âchiede al creatore una dedizione totale. Niente di più spietato contro la mediocrità ; niente di più propizio all’ispirazione, quando è in causa un entusiasmo non superficiale. In fin dei conti, nulla si rivela più proprio a una completa espressione del genio. Poussin sembra rinunziare a ogni diritto personale, sembra ritirarsi per lasciare il posto a marionette â— o attori, se vogliamo â—, cessando di confidare le proprie emozioni: in verità , né l’Impero di Flora né il Ratto delle sabine sono confidenze. Ma l’universo da lui concepito gli appartiene per intero, così come l’universo di Racine è tutto raciniano. Dapprincipio niente appare più discontinuo dell’opera di Poussin. Fra un’opera e l’altra di Rembrandt, nessuna frat Âtura; così in Watteau, fra un Incontro nel parco e l’In Âdifferente o l’Imbarco per Citerà , si ritrovano gli stessi tipi, la stessa atmosfera, la stessa tecnica e gli stessi intenti poetici. Invece, che contrasto fra la Peste di Azoth del Louvre, il Pan e Siringa di Dresda, il Sacramento dell’ordine e il Pae Âsaggio con Diogene! Ogni dipinto di Poussin sembra avere un universo proprio, regolato dalla famosa “teoria dei modi” e dalla preoccupazione delle “convenienze”, cioè dalle sole esigenze del tema. Nessuno stile definito: l’impegno del creatore si rinnova ogni volta; ma, a un livello più elevato, tutto si ricom Âpone attorno all’elemento connettivo che è il pensiero stesso del creatore. Nessun altro pittore, più di Poussin, si è astratto dalle proprie tele. Nessuna lo rispec Âchia per intero; però l’assieme di tutte delinea forse l’immagine spirituale più compiuta che mai pittore ab Âbia lasciato. * * * Come avremmo giudicato Poussin, se esistessero soltanto tre o quattro dipinti di sua mano, e qualche copia? La sua fortuna è che si sia conservato, se non  – purtroppo â— la sequenza completa delle sue opere, almeno un numero di tele sufficiente perché l’itinerario del suo pensiero non appaia del tutto mutilo. L’unità della ricerca risulta evidente. Dai disegni eseguiti per il cavalier Marino, prime testimonianze certe della sua arte, all’Apollo e Dafne, tela che Poussin lascia incompiuta nelle mani di Camillo Massimi, i legami sono palmari. Durante i quaranta anni di cui siamo a conoscenza, la meditazione si ri Âvolge non agli aspetti della natura o ai problemi so Âciali bensì – virtù maggiore del Seicento -, ai quesiti basilari dell’uomo e del suo destino. Non cessa mai di tornare sui medesimi temi, ma per trarne nuove rispo Âste. Si sfogli questo libro: di tavola in tavola, non è solo lo stile a modificarsi, ma il senso stesso delle ope Âre e degli insegnamenti che se ne traggono. I primi dipinti sono originati da un ardore ancora giovanile. Due temi salienti si incontrano fin dall’inizio: il vino e il sangue, la voluttà e il combattimento, la fecondità e la morte. Nella Strage degli innocenti il piede del boia schiaccia un bambino, e dal piccolo corpo sprizza un getto vermiglio, dipinto con vermiglio vero; ma il Trionfo di Flora celebra il dominio della sola bellezza in un universo dove gli amanti si allacciano in un’ombra fiorita. Non occorre edulcorare tali visioni; Poussin appartiene a un’epoca forte sino alla brutalità . Bisogna piuttosto rilevare che la religione non gli è di alcun aiuto per temperare la sensualità e la crudeltà . Tuttavia a codesti impeti pagani si mescola assai presto una sfumatura di amarezza e d’angoscia. Sappia Âmo che nel 1631 due quadri furono da lui venduti allo stesso amatore, Fabrizio Valguarnera: la Peste di Azoth e l’Impero di Flora. Il primo esprime realisticamente lo smarrimento dell’uomo quando il destino gli si accanisce contro, quando il male si im Âpossessa del suo corpo, quando i suoi dèi gli si rivelano falsi idoli, e all’improvviso esplode una verità che non era la sua. L’altro evoca un mondo ideale in cui tutto è grazia e luce; ma persine tra le vaghe creature che lo abitano l’amore è sventura, e la bellezza stessa nasce dalla sofferenza. Non conosciamo a fondo attraverso quali esperienze Poussin sia passato in quel periodo; è certo però che esse lo hanno segnato. La salute di quest’uomo di trentacinque anni ne esce a brandelli; e insomma può anche darsi che il suo cuore abbia conosciuto il tormento. Non è pervenuto nulla sugli amori di Poussin; ma siamo autorizzati a credere che questo gran diavolo di normanno dalla figura prestante fosse sensibile soltanto nelle proprie tele, e che il pit Âtore dei baccanali si sia votato, fino al giorno del ma Âtrimonio, a quella virtù di castità che il secolo non lo  dava molto negli uomini? Sta di fatto che verso il 1631 qualcosa cambia. L’impeto esiste ancora; non più però la fiducia e la libertà . La reazione è d’irrigidimento. Una costruzione so Âlida si impadronisce del quadro. I baccanali non per Âdono nulla della loro audacia: ma il Trionfo di Pan si inserisce nella disciplina di una geometria rigorosa; e, malgrado lo slancio che lo anima, nel Trionfo di Nettuno il movimento, analizzato sotto una luce troppo precisa, sembra bloccarsi al Âl’istante. Il pensiero diviene più grave. Ai momenti di sensualità , che pure continuano a riproporsi â— come in Bagno di donne o Pan e Siringa – si contrappone ormai la meditazione sui grandi eventi e sui protagonisti della storia, Roma o Gerusalemme, Mosè o Pirro. Dal Ratto delle sabine in poi, Poussin comincia a isolare la figura dell’eroe e, desti Ânata la zona inferiore del dipinto allo sfogo animale Âsco delle passioni, eleva in una sfera di calma Romolo, il capo conscio della gloria che gli dèi preparano per Roma attraverso l’irrazionalità del volgo. Si interroga sull’imprevedibile rapporto dell’uomo col destino, che perseguita gli uni ed elegge gli altri come per un ca Âpriccio, accostandosi in tal senso alla lunga meditazio Âne compiuta dal Seicento sulla grazia. L’amico del car Âdinale Rospigliosi si lascia andare per un certo perio Âdo ad argomenti allegorici e morali, il Tempo e la Ve Ârità e la Danza della vita umana. La bellezza trova un significato diverso: Venere non tenta più di sedurre un amante schiavo di piaceri amo Ârosi; madre di Enea, indica la via del dovere all’uomo prescelto e lo conduce verso il suo destino. Il soggiorno a Parigi può essere considerato come un intermezzo: e, forse, non è tanto pesato a Poussin che per il fatto di aver interrotto una meditazione dive Ânuta il senso medesimo del suo atto creativo. La fama che oramai lo circonda non gli addolcisce la visione del mondo; al contrario. L’attenzione per la disciplina mo Ârale che caratterizzava già gli anni precedenti si evol Âve verso uno stoicismo dichiarato; e il pensiero si indu Ârisce parallelamente allo stile. Poussin è orientato sem Âpre più verso Plutarco; se lo abbandona, è solo per ce Âlebrare una volta ancora e con forza maggiore, nei Sacramenti Chantelou, la vita dell’uo Âmo totalmente assoggettata alla legge morale. Il colo Âre diventa più scuro; le figure si irrigidiscono; la com Âposizione si articola a mo’ di bassorilievo, frantuman Âdosi, i gruppi si sciolgono, e ogni personaggio, come isolato nel proprio essere, non sembra trovare altro ri Âfugio che la padronanza di sé. La condizione del sag Âgio, a sua volta, appare sempre più tragica e dolorosa. Nel Giudizio di Salomone, il giovane re so Âspeso sopra lo scatenarsi delle passioni umane, ma co Âstretto a una scelta che non può essere che crudele, conserva un equilibrio quasi perfetto, ma a prezzo di una tensione inumana. E il celebre verso che Vigny fa proferire a Mosè quando questi, sul monte Sinai, si ri Âvolge a Dio:  Che vi ho fatto, dunque, per essere il vostro eletto? non ha risonanza più grave che nella Rebecca del Louvre, dove la donna eletta accoglie senza un sorriso il gioiello che segna il suo destino, o – più an Âcora – nella strana Annunciazione della National Gallery. Questo universo acquista via via un rigore insoste Ânibile. La gioia dei sensi lo diserta, così come la gaiez Âza dei sorrisi. Con il Baccanale davanti a un tempio, anche l’erotismo perde la maschera di fre Âschezza e di slancio: la figura femminile scivola verso una convenzione scultorea, alla quale il cesello sottrae le ultime leggiadrie. È il momento in cui Poussin, di colpo, moltiplica i paesaggi e trova nella natura quell’appagamento che la bellezza non gli offre più. Tregua senza illusioni. L’immensità , l’eternità , la fecondità sempre rinascente della natura rendono più beffardo lo sforzo solitario del saggio. La sorte tragi Âca di Focione, insorto contro il destino, si conclude con un cadavere privo d’importanza, e la sua morte non altera l’ordine misurato del paesaggio né le innumere Âvoli formiche umane assorte nel compito quotidiano. Ma che importa? Docile e lucido, in Âfine, Diogene spezza, assieme alla scodella, l’ultima abitudine che lo separa dall’essenzialità delle cose. Di nuovo s’insinua in Poussin una sorta di con Âtraddizione. Mai la tensione, il pessimismo sono stati maggiori quando evoca i fatti e le gesta degli uomini: mai il suo pennello è stato più duro, le creazioni più arbitrarie e i colori più stridenti che nella Morte dì Satira o nella Lamentazione di Dublino. Al contrario, i paesaggi sono invasi da un’atmo Âsfera serena, luminosa; il fogliame, una volta secco e rado, trabocca da ogni parte, s’illumina di sambuchi fioriti, di distese d’acqua tranquilla; i tappeti erbosi e le fonti offrono riposo ai viandanti affaticati. Pous Âsin non ignora né le minacce della natura, sempre mi Âsteriosa – lo testimonia il Paesaggio col serpente â—, né la furia selvaggia degli elementi, celebrata nello straordinario Piramo e Tisbe di Francoforte; ma in queste opere l’immensità stessa della na Âtura sembra sminuire la propria atrocità . Minuscola nell’ampiezza della tela, la vittima appare un inciden Âte senza importanza nello svolgersi degli eventi. A poco a poco la serenità viene riconquistata. È il tempo in cui Poussin scrive: “non passo giorno senza dolore “; però ormai lo anima un distacco senza illu Âsioni ma, anche, senza amarezze. Pochi dipinti al mon Âdo eguagliano in bellezza l’Ercole e Caco di Mosca: l’eroe ha lottato contro il mostro, l’ha vinto e tratto alla luce del giorno; la natura prosegue la sua vita serena e feconda, uomo e dio vi si mesco Âlano al cospetto di profondità imperscrutabili ma or Âmai prive di minacce. Quasi senza sforzo Poussin rag Âgiunge qui i momenti più eletti di Esiodo e di Virgi Âlio. Il suo ultimo grande poema è quello delle quattro Stagioni del Louvre. Ancora una volta egli evoca l’innocenza felice dell’uomo, le scelte impre Âvedibili del destino, le ricompense offerte soltanto al Âlo sforzo, e la morte. Il più singolare dei quattro dipinti è senz’altro il Diluvio. Tela senza pari nel Âla storia della pittura, implacabile, piena di tenebre e di lutto; ma che non proclama l’orrore per la fine dell’uomo. Il vecchio sfinito che è ormai Poussin pre Âmute la morte ineluttabile: nessuno di quelli che ancora si dibattono contro l’impeto delle onde si salverà , né il fanciullo senza colpe, né il credente che implora. Tuttavia la serpe che scivola nell’ombra testimonia l’eterna fecondità della terra, e sotto la cortina fulig Âginosa della pioggia un sole nero lascia intravedere l’arca: il mondo andrà avanti, il saggio conosce la pochezza del destino umano colpito dagli elementi, la pochezza di se stesso. Questo itinerario spirituale merita, nella storia del pensiero, una considerazione pari a quelli di un Montaigne o un Pascal. E non si tratta di speculazione let Âteraria: le idee di Poussin sono espresse nelle sue lettere in maniera vigorosa, talvolta confusa, sempre di getto e senza una vera ricchezza poetica. È nell’in Âterno della pittura e del suo stile che si sviluppa e si trasforma la vera meditazione. Quest’arte non è, ripe Âtiamolo, la facile illustrazione di una filosofia: la me Âditazione nasce dall’immagine, e da questa attinge la propria forza di persuasione e una verità che non è mai astratta. Si comprende, così, quale fiducia Pous Âsin riponesse nella pittura: ben rari coloro che hanno osato chiederle tanto e darle tanto di sé. Si compren Âde, anche, il suo privilegio così durevole: perché la vera classe di un artista si misura senza dubbio attra Âverso i doni della mano e dell’occhio, ma prima an Âcora dal livello in cui si stabilisce, fra la propria arte e lui, quel dialogo spirituale che è il senso stesso di ogni creazione.
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