LETTERATURA: I MAESTRI: Il feudo1 Settembre 2018 di Roberto Ridolfi Dì carnevale ogni scherzo vale, si dice a Firenze. E s’era a Firenze nel carnevale del l’anno 1737, infelicemente re gnante Gian Gastone, per grazia a Dio ultimo granduca della dinastia medicea. Dopo gli stravizi della nottata, Co simo Ignazio quarto marche se di Montescudaio dormiva della grossa, sebbene non man casse molto all’ora del desi nare. Qualcosa lo risvegliò: i cortinaggi del letto s’apriro no a spiraglio, lasciando pas sare un bel raggio di sole e il faccione rubicondo del mag giordomo. – C’è giù il signor auditore di Montescudaio. Dice che ha galoppato tutta la notte e tutta la mattinata. Cose grosse hanno a essere, cose grosse: chiede la grazia d’es sere ricevuto. – Toh! Che gli piglia a quest’ora? â— Poi, dalla luce del sole, s’accorse che l’espressione era piuttosto intem pestiva. Sbadigliò: â— Fallo passare. – Come? Qui in camera? – Tonino, è la moda: dobbiamo prender l’esempio dal nostro serenissimo Gran duca, che riceve i ministri standosene nel letto, quando nel letto non ha di meglio o di peggio da fare. E i suoi ministri sono persone di qualità; l’auditore mio è un mez zo tanghero. Mentre aspettava che costui fosse introdotto, Cosimo Igna zio, assonnato e annoiato, andava almanaccando tra sé cosa avesse da dirgli quel sec catore. Saranno state le solite sciagure della comunità; op pure le brighe tra il suo giu sdicente, ch’era il gallo della Checca, e l’abate parroco del paese. L’abate dopo aver pri vatamente ammonito il pec catore sull’osservanza del se sto e del nono comandamen to, poiché quello faceva peg gio che mai, era passato alle pubbliche reprensioni; infine, aveva fatto al feudatario ri spettose rimostranze « sopra la pessima vita di questo suo ministro, acciò volesse rimuo verlo dalla carica et ovviare all’inaudito scandalo insorto nel suo Feudo ». Ma Cosimo Ignazio aveva un debole per quel discolo. Il naso del quale faceva sparlare i maldicenti, identico com’era a quelli del feudatario e di tutta la marchional famiglia: un naso inconfondibi le, aquilino, grosso quanto un coscio d’agnello: volevano dire che lo avesse ereditato in mancanza d’ogni altra ere dità, da Niccolò terzo mar chese. E poiché a Montescudaio questo giusdicente era il marito di tutte le mogli, mol ti figlioli maschi che vi na scevano avevano fatalmente quel marchional naso anche loro: era come un marchio di fabbrica. Non sapendo più a che san to votarsi, il povero prete si era rivolto anche al suo su periore, il Vescovo di Volter ra, col solo risultato d’incat tivire sempre più il giusdicen te e d’invogliarlo a fargliene una peggiore delle altre. L’a bate s’era premunito da tem po, scegliendosi una servicina zoppa, guercia, scrignuta, fuo ri d’ogni tentazione propria ed altrui; ma quel bel tomo, per fargli un dispetto, gliela aveva ingravidata come nien te fosse. Era stato necessario mandarla via in fretta, prima che la cosa si risapesse; s’era però risaputa: uno scandalo. Al degno ecclesiastico non re stava, per levarsi di dosso i sospetti, che aspettare la pro va del naso. * L’auditore entrava in quel momento, con un inchino fino a terra. Era un ometto min gherlino, muso di faina, occhi spiritati, orecchie a sventola, niente naso marchionale: lui, dirazzava. Ballonzolava come un burattino; i convenevoli gli uscivano dalla bocca inter polati da esclamazioni scon nesse: â— Servitore umilissi mo. Un caso atroce! Bacio le mani. Enormezze mai accadu te a memoria d’uomo nel feu do del signor Marchese! Cominciò a raccontare che il giusdicente s’era messo a corteggiare, prima di giorno e poi anche di notte, donna Beatrice Lorenzini: una ve dovella tutta miele e pepe come un panforte di Siena. I Lorenzini erano padroni di terre, la principal famiglia del luogo. Un suo cugino, Lorenz’Antonio, lo facesse per l’onor della casa (come an dava dicendo) o perché il miele piaceva anche a lui, era su tutte le furie: prima gli aveva promesso un’archibugiata, poi, l’altra notte, men tre il giusdicente s’appressava alla casa della bella per gu stare il frutto proibito, gliela aveva mantenuta. Il giusdi cente era uscito illeso dal fu mo e dal polverone dei calci nacci; restava da stabilire se lo sparatore avesse voluto ammazzarlo o soltanto fargli paura. Posto questo dilemma, Cosimo Ignazio domandò dove fosse andata a battere l’archibugiata. â— Ha percosso nel muro a quattro braccia dal giusdiscente. – Giuggiole! Allora voleva proprio ammazzarlo: l’ho visto tirare almeno a dieci cinghiali, e sempre li ha falliti di quelle quattro braccia, po co più poco meno. Ma l’auditore, senza badare all’umor sottile dell’osserva zione, continuava il racconto. Scampato dall’archibugiata, il giusdicente s’era buttato die tro all’attentatore per fargliela pagare; ma colui era stato le sto a rifugiarsi in chiesa, che (guarda il caso) era ancor aperta a quell’ora, e di lì nella canonica. Il giusdicente ne aveva inferito che il nemico prete era d’accordo col nemi co cugino. Lo aveva accusato alla Curia ecclesiastica per complicità e aveva messo le mani sui raccolti e sui crediti della chiesa per la somma di quattrocento rusponi d’oro, in corporandoli nel fisco mar chionale. – Bravo il mio giusdicen te: è un uomo che sa il fatto suo. Quei rusponi fatemeli mandare subito; qui non si vive senza denari. – Il giusdicente ci ha già pagato i debiti fatti per re staurare il palazzo pretorio e murare le nuove carceri. – Nelle carceri ci va a fi nir lui, il birbaccione, e poi lo faccio impiccare in mezzo alla piazza. Non ho io il mero e il misto impero? Dubito che fosse lecito confiscar quei de nari alla chiesa. E i vassalli che dicono? – Antonio del Rosso si fa in quattro per trovar testimo ni che il delinquente era d’accordo col prete; la moglie, la bella Freduccia, l’aizza e l’aiuta. – Ha figlioli codesto An tonio? – Tre maschi, Vossignoria eccellentissima. – E il naso come ce l’hanno? – Il naso? Che vuol dire, Vossignoria? – Niente: seguivo una mia idea. Continuate. Era come invitare la lepre a correre. Centoquattordici fa miglie contava il feudo: pare va che di tutte volesse sciori nare i fatti e le corna. Dopo mezz’ora Cosimo Ignazio non ne poteva più: tra il sonno che gli era rimasto e la noia, prima cominciò a sbadigliare discre tamente, poi ostentatamente, infine sguaiatamente. * Montescudaio, più fumo che arrosto. Non s’era mica in Tedescheria, dove i feudi si reggevano sopra una tradizio ne inveterata: s’era in Toscana. Fino dalla prima metà del Seicento, i granduchi medicei ne avevano distribuiti qual cuno tra le maggiori famiglie che li avevano preceduti nel governo dello Stato, al tempo della repubblica libera: qual che balocco bisognava pur darglielo per farle star buo ne. E pensare che i fiorentini, orgogliosi della loro civiltà avevano sempre spregiato i si gnorotti feudali: li chiamava no « nobili salvatici ». Piero de’ Medici, quando il re di Napoli gli aveva offerto un feudo nel Reame, aveva rispo sto con parole poco meno che risentite: « Io non voglio es sere barone ». E laggiù, allora, feudi saranno anche stati avanzi di barbarie, ma alme no non stonavan col resto: in Toscana, due secoli dopo, erano una buffoneria. Una buffoneria, quell’om bra di « mero e misto impe ro »; una buffoneria quel giu sdicente, quell’auditore. Già, quell’auditore che intanto con tinuava a parlare, a parlare. Cosimo Ignazio, dopo gli sba digli, aveva provato gli scontorcimenti, i versacci. Ma quello non se ne dava per inteso: ci voleva altro a fer marlo. Allora, il vecchio spiritaccio fiorentinesco, che per tanti secoli i suoi avevano sbizzarrito sugli scanni di Pa lazzo e sulle pancacce, risca turì dalla bocca del nipote degenere. Sbuffò: – Sentite, siete o non sie te voi il mio auditore? – Per grazia di Vostra Si gnoria. – Dunque, rimontate subi to a cavallo e tornate a far l’ufficio vostro di udire: udite le sciagure di costoro, udite i piati, le brighe, le beghe, le ciance. Ma se voi siete l’audi torio mio, io non sono l’audi tore vostro: mettetevelo bene in testa. E se andate cercan do qualcuno che v’oda, sfoga tevi col giusdicente, col sa grestano, con le comari di Montescudaio. E ora levatimi dinanzi â—. Dopodiché, si ri girò nel letto, voltandogli le spalle. Il malcapitato dette indie tro di qualche passo. Si sentì addosso tutta insieme la stan chezza: aveva le reni rotte da quella cavalcata furiosa. Fece per inchinarsi, ma poiché il feudatario non poteva veder lo, se ne risparmiò la fatica; aprì la bocca per ossequiarlo, ma udendo che già russava, pensò bene di risparmiare an che il fiato. Uscì, esterrefatto. Molto più esterrefatto sa rebbe rimasto se, appena fuor della porta, si fosse fermato ad ascoltare. Avrebbe udito che Cosimo Ignazio aveva smesso di russare, o meglio di farne finta: a crepapelle, sgan gheratamente, rideva.
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