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LETTERATURA: I MAESTRI: Il feudo

1 Settembre 2018

di Roberto Ridolfi
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 5 febbraio 1970]

Dì carnevale ogni scherzo vale, si dice a Firenze. E s’era a Firenze nel carnevale del ­l’anno 1737, infelicemente re ­gnante Gian Gastone, per grazia a Dio ultimo granduca della dinastia medicea. Dopo gli stravizi della nottata, Co ­simo Ignazio quarto marche ­se di Montescudaio dormiva della grossa, sebbene non man ­casse molto all’ora del desi ­nare. Qualcosa lo risvegliò: i cortinaggi del letto s’apriro ­no a spiraglio, lasciando pas ­sare un bel raggio di sole e il faccione rubicondo del mag ­giordomo.

– C’è giù il signor auditore di Montescudaio. Dice che ha galoppato tutta la notte e tutta la mattinata. Cose grosse hanno a essere, cose grosse: chiede la grazia d’es ­sere ricevuto.

– Toh! Che gli piglia a quest’ora? â— Poi, dalla luce del sole, s’accorse che l’espressione era piuttosto intem ­pestiva. Sbadigliò: â— Fallo passare.

– Come? Qui in camera?

– Tonino, è la moda: dobbiamo prender l’esempio dal nostro serenissimo Gran ­duca, che riceve i ministri standosene nel letto, quando nel letto non ha di meglio o di peggio da fare. E i suoi ministri sono persone di qualità; l’auditore mio è un mez ­zo tanghero.

Mentre aspettava che costui fosse introdotto, Cosimo Igna ­zio, assonnato e annoiato, andava almanaccando tra sé cosa avesse da dirgli quel sec ­catore. Saranno state le solite sciagure della comunità; op ­pure le brighe tra il suo giu ­sdicente, ch’era il gallo della Checca, e l’abate parroco del paese. L’abate dopo aver pri ­vatamente ammonito il pec ­catore sull’osservanza del se ­sto e del nono comandamen ­to, poiché quello faceva peg ­gio che mai, era passato alle pubbliche reprensioni; infine, aveva fatto al feudatario ri ­spettose rimostranze « sopra la pessima vita di questo suo ministro, acciò volesse rimuo ­verlo dalla carica et ovviare all’inaudito scandalo insorto nel suo Feudo ».

Ma Cosimo Ignazio aveva un debole per quel discolo. Il naso del quale faceva sparlare i maldicenti, identico com’era a quelli del feudatario e di tutta la marchional famiglia: un naso inconfondibi ­le, aquilino, grosso quanto un coscio d’agnello: volevano dire che lo avesse ereditato in mancanza d’ogni altra ere ­dità, da Niccolò terzo mar ­chese. E poiché a Montescudaio questo giusdicente era il marito di tutte le mogli, mol ­ti figlioli maschi che vi na ­scevano avevano fatalmente quel marchional naso anche loro: era come un marchio di fabbrica.

Non sapendo più a che san ­to votarsi, il povero prete si era rivolto anche al suo su ­periore, il Vescovo di Volter ­ra, col solo risultato d’incat ­tivire sempre più il giusdicen ­te e d’invogliarlo a fargliene una peggiore delle altre. L’a ­bate s’era premunito da tem ­po, scegliendosi una servicina zoppa, guercia, scrignuta, fuo ­ri d’ogni tentazione propria ed altrui; ma quel bel tomo, per fargli un dispetto, gliela aveva ingravidata come nien ­te fosse. Era stato necessario mandarla via in fretta, prima che la cosa si risapesse; s’era però risaputa: uno scandalo. Al degno ecclesiastico non re ­stava, per levarsi di dosso i sospetti, che aspettare la pro ­va del naso.

*

L’auditore entrava in quel momento, con un inchino fino a terra. Era un ometto min ­gherlino, muso di faina, occhi spiritati, orecchie a sventola, niente naso marchionale: lui, dirazzava. Ballonzolava come un burattino; i convenevoli gli uscivano dalla bocca inter ­polati da esclamazioni scon ­nesse: â— Servitore umilissi ­mo. Un caso atroce! Bacio le mani. Enormezze mai accadu ­te a memoria d’uomo nel feu ­do del signor Marchese!

Cominciò a raccontare che il giusdicente s’era messo a corteggiare, prima di giorno e poi anche di notte, donna Beatrice Lorenzini: una ve ­dovella tutta miele e pepe come un panforte di Siena. I Lorenzini erano padroni di terre, la principal famiglia del luogo. Un suo cugino, Lorenz’Antonio, lo facesse per l’onor della casa (come an ­dava dicendo) o perché il miele piaceva anche a lui, era su tutte le furie: prima gli aveva promesso un’archibugiata, poi, l’altra notte, men ­tre il giusdicente s’appressava alla casa della bella per gu ­stare il frutto proibito, gliela aveva mantenuta. Il giusdi ­cente era uscito illeso dal fu ­mo e dal polverone dei calci ­nacci; restava da stabilire se lo sparatore avesse voluto ammazzarlo o soltanto fargli paura. Posto questo dilemma, Cosimo Ignazio domandò dove fosse andata a battere l’archibugiata.

â— Ha percosso nel muro a quattro braccia dal giusdiscente.

– Giuggiole! Allora voleva proprio ammazzarlo: l’ho visto tirare almeno a dieci cinghiali, e sempre li ha falliti di quelle quattro braccia, po ­co più poco meno.

Ma l’auditore, senza badare all’umor sottile dell’osserva ­zione, continuava il racconto. Scampato dall’archibugiata, il giusdicente s’era buttato die ­tro all’attentatore per fargliela pagare; ma colui era stato le ­sto a rifugiarsi in chiesa, che (guarda il caso) era ancor aperta a quell’ora, e di lì nella canonica. Il giusdicente ne aveva inferito che il nemico prete era d’accordo col nemi ­co cugino. Lo aveva accusato alla Curia ecclesiastica per complicità e aveva messo le mani sui raccolti e sui crediti della chiesa per la somma di quattrocento rusponi d’oro, in ­corporandoli nel fisco mar ­chionale.

– Bravo il mio giusdicen ­te: è un uomo che sa il fatto suo. Quei rusponi fatemeli mandare subito; qui non si vive senza denari.

– Il giusdicente ci ha già pagato i debiti fatti per re ­staurare il palazzo pretorio e murare le nuove carceri.

– Nelle carceri ci va a fi ­nir lui, il birbaccione, e poi lo faccio impiccare in mezzo alla piazza. Non ho io il mero e il misto impero? Dubito che fosse lecito confiscar quei de ­nari alla chiesa. E i vassalli che dicono?

– Antonio del Rosso si fa in quattro per trovar testimo ­ni che il delinquente era d’accordo col prete; la moglie, la bella Freduccia, l’aizza e l’aiuta.

– Ha figlioli codesto An ­tonio?

– Tre maschi, Vossignoria eccellentissima.

– E il naso come ce l’hanno?

– Il naso? Che vuol dire, Vossignoria?

– Niente: seguivo una mia idea. Continuate.

Era come invitare la lepre a correre. Centoquattordici fa ­miglie contava il feudo: pare ­va che di tutte volesse sciori ­nare i fatti e le corna. Dopo mezz’ora Cosimo Ignazio non ne poteva più: tra il sonno che gli era rimasto e la noia, prima cominciò a sbadigliare discre ­tamente, poi ostentatamente, infine sguaiatamente.

*

Montescudaio, più fumo che arrosto. Non s’era mica in Tedescheria, dove i feudi si reggevano sopra una tradizio ­ne inveterata: s’era in Toscana. Fino dalla prima metà del Seicento, i granduchi medicei ne avevano distribuiti qual ­cuno tra le maggiori famiglie che li avevano preceduti nel governo dello Stato, al tempo della repubblica libera: qual ­che balocco bisognava pur darglielo per farle star buo ­ne. E pensare che i fiorentini, orgogliosi della loro civiltà avevano sempre spregiato i si ­gnorotti feudali: li chiamava ­no « nobili salvatici ». Piero de’ Medici, quando il re di Napoli gli aveva offerto un feudo nel Reame, aveva rispo ­sto con parole poco meno che risentite: « Io non voglio es ­sere barone ». E laggiù, allora, feudi saranno anche stati avanzi di barbarie, ma alme ­no non stonavan col resto: in Toscana, due secoli dopo, erano una buffoneria.

Una buffoneria, quell’om ­bra di « mero e misto impe ­ro »; una buffoneria quel giu ­sdicente, quell’auditore. Già, quell’auditore che intanto con ­tinuava a parlare, a parlare. Cosimo Ignazio, dopo gli sba ­digli, aveva provato gli scontorcimenti, i versacci. Ma quello non se ne dava per inteso: ci voleva altro a fer ­marlo. Allora, il vecchio spiritaccio fiorentinesco, che per tanti secoli i suoi avevano sbizzarrito sugli scanni di Pa ­lazzo e sulle pancacce, risca ­turì dalla bocca del nipote degenere. Sbuffò:

– Sentite, siete o non sie ­te voi il mio auditore?

– Per grazia di Vostra Si ­gnoria.

– Dunque, rimontate subi ­to a cavallo e tornate a far l’ufficio vostro di udire: udite le sciagure di costoro, udite i piati, le brighe, le beghe, le ciance. Ma se voi siete l’audi ­torio mio, io non sono l’audi ­tore vostro: mettetevelo bene in testa. E se andate cercan ­do qualcuno che v’oda, sfoga ­tevi col giusdicente, col sa ­grestano, con le comari di Montescudaio. E ora levatimi dinanzi â—. Dopodiché, si ri ­girò nel letto, voltandogli le spalle.

Il malcapitato dette indie ­tro di qualche passo. Si sentì addosso tutta insieme la stan ­chezza: aveva le reni rotte da quella cavalcata furiosa. Fece per inchinarsi, ma poiché il feudatario non poteva veder ­lo, se ne risparmiò la fatica; aprì la bocca per ossequiarlo, ma udendo che già russava, pensò bene di risparmiare an ­che il fiato. Uscì, esterrefatto.

Molto più esterrefatto sa ­rebbe rimasto se, appena fuor della porta, si fosse fermato ad ascoltare. Avrebbe udito che Cosimo Ignazio aveva smesso di russare, o meglio di farne finta: a crepapelle, sgan ­gheratamente, rideva.

 

 


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Bart