PITTURA: I MAESTRI: Renoir: Passi di suoi articoli e di sue lettere1 Dicembre 2018 di Elda Fezzi Gli scritti espressamente composti da Renoir intorno ai problemi artistici non sono numerosi, ma sufficienti a conoscere la sua consapevolezza dei problemi aperti nel campo del pensiero contemporaneo. Ostile a ogni forma di lette Âratura critica, egli lasciò infatti un solo scritto firmato, la prefazione (in forma di lettera a M. Mottez) al Libro del Âl’arte di Cennino Cennini nell’edizione francese del 1911. Sono comunque sicuramente di sua mano due ‘Lettere al direttore’ apparse sull'”Impressionniste”: la prima (14 apri Âle 1877) sull’architettura, la seconda (28 aprile 1877) che riprende e conclude le considerazioni accennate nella precedente assumendo un argomento più generale, “L’arte deco Ârativa e contemporanea”. In essa, l’artista rileva gli errori prodotti dal falso storicismo, ancora assai diffuso nelle arti -dall’architettura alla scultura alla pittura â— e che ispirava opere fondate su stili del passato. Le aspirazioni ‘moderniste’ di Renoir, senza proporsi come rigorose teorie di riforma, aprono tuttavia il discorso sulle relazioni necessarie tra le strutture  dell’edificio  e  le   opere  di   “decorazione”,  inten Âdendo con questo termine i lavori dì scultura, pittura, “fino ai più modesti accessori”, che non devono essere, come in Âvece erano nella maggior parte delle costruzioni contempo ranee, “in disaccordo completo con l’architettura”. La cri Âtica che Renoir muove alla ripetizione degli stili storici, e di conseguenza l’auspicio di una intelligente e nuova interazione fra le arti in epoca moderna, anticipa gli sviluppi teo Ârici e le applicazioni che verranno attuati alla fine dell’Otto Âcento da urbanisti e architetti europei. Il discorso dell’artista prosegue nell’abbozzo di progetto del 1884 per la Société des Irrégularistes, redatto non per la stampa, ma quale signi Âficativo memorandum in cui sono esposte le direttive pecu Âliari della sua arte matura. Numerose inoltre le lettere di Renoir, di cui manca peral Âtro un’edizione organica e completa: alcune di esse vennero pubblicate in studi e articoli specializzati a partire dal se Âcondo decennio del Novecento, quando era ancora in vita l’artista; un cospicuo gruppo (221) è reperibile negli Archives de l’Impressionnisme [1939] di L. Venturi; ricchissima la raccolta (317) dell’archivio Durand-Ruel di Parigi; altre lettere appartengono agli archivi Daulte di Losanna e Bret-André di Parigi. Fra esse, per lo più riferentisi a dati auto Âbiografici contingenti, si è preferito sceglierne alcune che do Âcumentano il viaggio in Italia, sia per il maggior interesse storico sia per un più acuto riferimento a uno dei passaggi tecnico-stilistici più dibattuti nell’esperienza di Renoir. Il testo epistolare di Renoir non ha carattere di trattazione teo Ârica, ma tende ad annotare con semplicità , e con un linguag Âgio in cui frequenti ricorrono i modi del parlar comune, i momenti delle più vive ‘impressioni’ ricevute dai luoghi e dal Âle opere che hanno dato stimolo al suo lavoro.  __________________ L’arte decorativa e contemporanea La decorazione monumentale, che in questa nostra epoca di lusso sfrenato sembrerebbe dover tenere il primo posto in arte, manca invece di equilibrio. Le decorazioni pittoriche dei nostri monumenti pubblici sono pompose e sfiatate, prive di ogni proporzione e ben lungi dall’essere in armonia con quello che esse dovrebbero decorare. Le pitture dell’Opera, per esempio, non si accor Âdano con l’edificio […] [tutte presentano] difetti analoghi.
Delacroix è stato il solo nella nostra epoca a compren Âdere la decorazione, ed è anzi giunto a mutarne i rapporti armonici. Così, le sue pitture a Saint-Sulpice sono un’opera capitale: la Chapelle, un mero pretesto per fare dell’arte. L’opera dipinta nella decorazione ha valore solo in quanto è policroma: una pittura sarà tanto più decorativa quanto più i suoi toni saranno variati nell’armonia. Il mosaico, per esempio, non ha bisogno di illustrare un tema, in quanto ha valore se la disposizione è armoniosa, senza che vi debbano essere altre preoccupazioni: le vetrate medioevali sono i ielle perché appaiono in armonia con i monumenti che le accolgono e perché sono belli i colori. Le condizioni della scultura risultano anche più ano Âmale di quelle in cui si trova la pittura. Dai motivi principali della decorazione fino ai più modesti accessori, la scultura moderna si rivela impacciata e in disaccordo completo con l’architettura. Le statue che ornano Notre-Dame, per esempio, si inte Âgrano perfettamente con il monumento: i mostri, i masche Âroni, gli arabeschi, i rosoni contribuiscono alla vita, alla varietà dell’opera nel suo complesso. Tutta l’arte ornamentale del passato ha del resto le stesse qualità , che permettono di apprezzarla ancora ai giorni nostri. Quanto al valore intrinseco della scultura decorativa mo Âderna, è praticamente nullo. I gruppi, le statue, gli orna Âmenti, paragonati alle sculture che decorano monumenti di altre epoche, appaiono grossolani. Le teste di Gorgone del ministero della Guerra sono bruttissime, mentre quelle del Pont-Neuf sono eleganti, delicate, originali. Gli ornamenti del vecchio Louvre sono mille volte superiori a quelli del Palais de Justice sulla place Dauphine. In questo caso, per la verità , la decorazione più bella non sarebbe riuscita a salvare il monumento, che è di per sé troppo grottesco, con quell’immenso scalone dalle nicchie tipo vespasiani, largo e meschino, probabilmente ispirato a un bel modello ma defor Âmato dal passaggio per le mani degli architetti o degli artigia Âni moderni. Sulla facciata vi sono grandi statue che gli assiri, a ragione, non avrebbero ammesso nei loro bassorilievi. A Parigi, le Halles sono l’unico edificio che abbia un carattere veramente originale e una struttura appropriata alla destinazione: ma non vi si trova un solo edificio mo Âderno che possa essere paragonato a Notre-Dame, all’Hotel de Cluny o al vecchio Louvre. Le nostre costruzioni sono caricature più o meno maldestre di quelle belle opere, ed è tutto quanto se ne può dire. Tuttavia si avverte l’interessamento per le epoche passate. La formazione che viene fornita agli architetti, ai pittori e agli scultori nell’Ecole des Beaux-Arts è interamente fon Âdata sul passato. Gli architetti vengono mandati a Roma a ricostruire un monumento greco, i pittori vengono mandati a Roma a copiare Raffaello. Quando, dopo qualche anno di permanenza nella città eterna, questi giovani pittori, scul Âtori o architetti ritornano a Parigi imbottiti di antichità , abbagliati dai maestri della Grecia e dell’Italia, come po Âtrebbero liberarsi di queste ossessioni grazie alla corrente moderna e produrre opere originali? No, i monumenti con Âterranno tutte le linee, tutte le proporzioni che l’architetto ha riportato da Roma, e riveleranno l’impaccio e l’approssimazione del ricordo cancellato a metà . […] Questi giovani incapaci, che vengono attivamente protetti, finiscono col credersi molto bravi: arrivano a considerare plagiari i maestri e vivono in una continua ammirazione di sé che impedirà di seguire i movimenti moderni. L’architetto, che ha la piena disponibilità e responsabilità di un monumento, dovrebbe essere un artista prima ancora che un dotto. Dovrebbe essere, oltre che costruttore, anche pittore e scultore come i grandi architetti del Rinascimento. E allora, invece di cercare in vecchi libracci polverosi un fusto di colonna dimenticato, un rosone sconosciuto, una facciata sognata da Veronese o da Michelangelo, cerchereb Âbe nella natura o nella propria testa forme e colori che avrebbero quindi un valore nell’epoca moderna. Se gli oc Âcorressero pittori, li cercherebbe tra i seguaci di un movi Âmento analogo a quello che segue egli stesso, e lo stesso fa Ârebbe con gli scultori. Soltanto in tali condizioni, e cioè soltanto quando l’architetto avrà una formazione moderna, un monumento potrà essere bello e unitario. La prima rivo Âluzione da compiere dovrebbe consistere nella soppressione dell’Ecole des Beaux-Arts, mentre dovrebbe venire potenziato il Conservatoire des Arts et Métiers, in modo da fornire ai giovani le nozioni scientifiche necessarie alla pratica dell’arte, incoraggiandone i tentativi artistici ma soprattutto non co Âstringendoli, come stupidamente si fa oggi, a copiare maestri antichi. Finora nessun architetto ha saputo uscire dalla strada che la scuola gli ha indicato: la Trinité, l’Opera, il Palais de Justice, il nuovo Louvre, il Tribunal de Commerce, l’Hôtel-Dieu sono barocchi, pieni di reminiscenze di un’arte morta da tempo. Si assiste a bizzarri connubi tra il gotico e l’arte greca; da qualche anno si vede dominare nella costru Âzione di chiese il falso stile bizantino; domani assisteremo a qualche altra riesumazione. Se insomma i pittori e gli scultori chiamati a decorare gli edifici moderni si rivelano nella maggior parte dei casi privi di talento e del più elementare gusto artistico, ciò avviene perché hanno come guida una persona che ignora del tutto la pittura e la scultura. Nonostante l’enorme scienza accumulata in vent’anni nella testa, l’architetto in materia d’arte è ignorante come un volgare astronomo: quando affi Âda a un pittore l’esecuzione di una certa decorazione, non ha la capacità di valutare per conto proprio se l’artista in cui ha riposto fiducia non tradirà le sue aspettative. Un architetto deve essere in grado di realizzare appieno il monumento, deve poter dipingere i quadri e modellare i gruppi scultorei che sono richiesti per la propria opera, in modo da non creare facciate barocche come quella dell’Ope Âra, in cui il gruppo della Danza di Carpeaux è così profon Âdamente estraneo al monumento che ne distrugge comple Âtamente l’effetto. Anche alle Tuileries Carpeaux non ha voluto attenersi allo schema fornitogli dall’architetto e ha fatto salire la scultura sul tetto, piantando in asso il fron Âtone che le era destinato. E tutti gli scultori, tutti i pittori si sono comportati nello stesso modo perché hanno avvertito l’impotenza di chi dirigeva i loro lavori. Infine, e per concludere, dirò che finché una nuova generazione di architetti non verrà ad abbattere con una nuova cultura le attuali congreghe, la direzione di un monu Âmento da costruire dovrebbe essere affidata a un pittore: io sono convinto che così si troverebbe quell’originalità e anche quell’unitarietà che si possono chiedere a una per Âsona che sa essere nel tempo stesso il braccio e la mente. L’art décoratif et contemporain, in “L’Impressionniste”, 1877 Una ‘Società degli Irregolaristi ‘ In tutte le controversie che sollevano giorno per giorno le questioni dell’arte, il punto capitale su cui ci accingiamo a richiamare l’attenzione è generalmente lasciato in oblio. Vogliamo parlare dell’irregolarità . La natura ha orrore del vuoto, dicono i fisici; potrebbero completare l’assioma ag Âgiungendo che la natura non ha minor orrore della regolarità . Gli osservatori sanno in effetti che, malgrado l’apparente semplicità delle leggi che presiedono alla loro formazione, le opere della natura sono variate all’infinito, dalle più im Âportanti alle minime, a qualsiasi tipo o famiglia apparten Âgano. I due occhi del più bel viso saranno sempre legger-mente dissimili, nessun naso si trova esattamente situato sopra la metà della bocca, gli spicchi di un’arancia, le foglie di un albero, i petali di un fiore non sono mai identici; sem Âbra perfino che le bellezze di ogni’ordine acquistino fascino da questa diversità . Esaminando da questo lato le produzioni plastiche e architettoniche più celebri, si avverte facilmente che i grandi artisti che le hanno create, desiderosi di procedere come questa natura della quale non cessavano d’essere rispettosi seguaci, si sono ben guardati dal trasgredirne la legge fon Âdamentale d’irregolarità . Si constata perfino che delle opere basate su principi geometrici, come San Marco, la piccola casa di Francesco I in cours La Reine […], che tutte le chiese dette gotiche […] non presentano mai linee di una rigidità perfetta, e che le figure circolari, quadrate od ovali che vi si trovano e che sarebbe stato assai facile ottenere esatte, non lo sono mai. Così, senza tema d’errore, si può asserire che ogni produzione veramente artistica è stata con Âcepita ed eseguita sul principio dell’irregolarità : in una pa Ârola, per servirci di un neologismo che esprime più compiu Âtamente il nostro pensiero, essa è sempre l’opera di un irregolarista. In un’epoca in cui l’arte francese, sino all’inizio di questo secolo ancora così colma di fascino e di squisita fantasia, sta soccombendo sotto la regolarità , la secchezza, la mania di falsa perfezione che fa sì che in questo momento il disegno dell’ingegnere tenda a divenire l’ideale, pensiamo sia utile reagire prontamente contro le dottrine mortali che minaccia Âno di annientarla, e che il dovere di tutti i raffinati, di tutti gli uomini di gusto, sia di unirsi senza indugio, quale si sia la loro ripugnanza per la lotta e le proteste. Un’associazione è dunque necessaria. Senza volere qui porre le basi definitive, se ne propongono sommariamente all’apprezzamento queste poche righe di progetto. L’associazione assume il titolo di ‘Società degli Irregolaristi’, che esprime l’idea generale dei fondatori. Il suo fine sarà di organizzare al più presto possibile espo Âsizioni alle quali potranno partecipare tutti gli artisti, pit Âtori, decoratori, architetti, orefici, ricamatori ecc., che ab Âbiano come principio estetico l’irregolarità . Fra le altre condizioni di ammissione, il regolamento pre Âscrive esplicitamente, in ciò che concerne l’architettura: tutti gli ornamenti dovranno essere fatti d’après nature, senza che alcun motivo, fiore, foglia, figura ecc. ecc., possa venir ripetuto esattamente: che i minimi profili dovranno essere eseguiti a mano senza soccorso di strumenti di preci Âsione; che, per quanto concerne la plastica, gli orefici e altri […] dovranno esporre, a fianco della propria opera finita, i disegni o pitture d’après nature che sono serviti a comporla. Che nessuna opera contenente copie di particolari o d’insieme presi dalle opere dei maestri sarà accettata. Una completa grammatica d’arte, che tratti dei principi estetici della società , che esponga le sue tendenze e dimostri la sua utilità , verrà pubblicata a cura del comitato fondatore, con la collabo Ârazione dei membri che offriranno il proprio concorso. Delle fotografie di monumenti o di decorazioni celebri, destinati a far risaltare l’evidenza del principio d’irregolarismo, verrebbero acquistate a spese della società ed esposte in una sala speciale a disposizione del pubblico. Progetto per la Société des Irrégularistes.  1884 Lettera a Mottez Curioso, dico, il libro di Cennini merita più di questo epiteto. Contiene molte ‘lezioni di cose’ che valgono più dei consigli che si ascoltano raramente: è inoltre illustrato da esempi presi dalla vita dei contemporanei dell’autore e questo da al libro il sapore dei vecchi memoriali che fanno rivivere in altri tempi. Ora, un ritorno dello spirito verso il passato non è forse inutile nel momento attuale. Se è necessario, infatti, evitare di restare ancorati alle forme che abbiamo ereditato, non bisogna, per amore di progresso, pretendere di staccarsi com Âpletamente dai secoli che ci hanno preceduto. Il trattato di Cennini non è soltanto un manuale tecnico, è anche un libro di storia che non parla di battaglie e di intrighi di corte, ma che ci inizia alla vita di quegli ouvriers d’élite per merito dei quali l’Italia, come la Grecia e la Francia, ha acquistato la gloria più pura. Occorre insistervi: è l’insieme di opere lasciate da nume Ârosi artisti dimenticati o sconosciuti che fa la grandezza d’un paese, e non l’opera originale di un uomo di genio. Questi. isolato tra i suoi contemporanei, non può solitamente essere racchiuso entro frontiere o in un’epoca: egli le supera. […] Coloro ai quali si rivolgeva il maestro italiano non ave Âvano tutti del genio, ma restavano sempre dei meravigliosi operai. […] I grandi complessi decorativi dei maestri italiani non sono opera di un solo uomo, ma di una collettività , di un atelier, che lo spirito del maestro animava. Per [i pittori del tempo del Cennini] la gloria di aver realizzato una bella opera assumeva valore di salario: lavo Âravano per raggiungere il Cielo e non per far fortuna. Inol Âtre, al tempo del Cennini, si decoravano templi; oggi si decorano le stazioni della ferrovia: bisogna certo convenire che i nostri contemporanei sono, per quanto riguarda la fonte d’ispirazione, meno avvantaggiati dei predecessori. Ma, so Âprattutto, un tempo esisteva la condizione essenziale per realizzare opere collettive, quella condizione che conferisce l’unità : i pittori possedevano il medesimo mestiere. Un me Âstiere che noi non possiamo conoscere interamente, poiché nessuno può più insegnarcelo, dal momento che ci siamo emancipati dalle tradizioni. Ora, il mestiere dei pittori del Rinascimento italiano era il medesimo dei loro predecessori. Se i greci avessero lasciato un trattato di pittura, credetemi, sarebbe identico a quello del Cennini. Tutta la pittura, da quella di Pompei opera di artisti greci, a quella di Corot passando per Poussin, sembra essere uscita dalla stessa tavolozza. Una maniera di dipingere che tutti nel passato apprendevano già presso il maestro: il genio personale, se ne avevano, faceva il resto. […] Il tirocinio severo, imposto ai giovani pittori, mai impe Âdisce lo sbocciare dell’originalità . […] Ma per spiegare il valore generale dell’arte antica bi Âsogna ricordarsi che al di sopra degli insegnamenti del maestro esisteva un sentimento, anch’esso oggi scomparso, che colmava l’anima dei contemporanei del Cennini: il senti Âmento religioso, la fonte d’ispirazione più feconda. Proprio questo infonde in ogni opera quel carattere di nobiltà e, A tempo stesso, di candore che su di noi esercita tanto fascino. In una parola, esisteva in quel tempo un’armonia fra gli uomini e l’ambiente in cui si muovevano, e questa armonia veniva da una fede comune. Ciò si spiega se si ammette che la concezione del divino, nei popoli superiori, ha sempre implicato le idee di ordine, di gerarchia e di tradizione. […] […] Si potrebbe quasi dire che fuori dai principi che contengono [un’alta concezione religiosa] non potrebbe es Âserci arte. [La cultura cattolica] segna a mio parere la differenza essenziale fra le idee di bellezza che essa suscita e quelle evocate dalla cultura cristiana dei primi tempi, anarchica, egualitaria e attratta dalla bruttezza; se il cristianesimo avessse trionfato nella sua forma primitiva, noi non avremmo avuto né belle cattedrali, né sculture, né pitture. Fortunata Âmente gli dèi egiziani e greci non erano tutti morti: sono loro che hanno salvato la bellezza introducendosi nella nuova religione. Occorre confessare che il razionalismo moderno, se può soddisfare gli intellettuali, costituisce tuttavia un modo di pensare incompatibile con una concezione artistica. Si tratta in verità di una religione per certe persone che avrebbero istituito a loro tempio la Galleria delle Macchine (meno bella, peraltro, di Notre-Dame); ma non ha le qualità ri Âchieste per stimolare la sensibilità , anche ammettendo che essa non sia proscritta in nome della ragione. […] Bisogna notare, tuttavia, che insieme col sentimento religioso, altre cause contribuivano largamente a conferire all’artista del tempo passato le qualità che lo rendevano impareggiabile. Tale era, per esempio, la regola di far confezionare dall’inizio alla fine un oggetto dal medesimo operaio. Questi era in grado quindi di imprimere molto di sé nel lavoro, di inte Âressarsene a fondo, poiché lo eseguiva interamente. Le diffi Âcoltà che doveva superare, il gusto che voleva esprimere occupavano la sua mente all’erta, e l’esito degli sforzi lo riempiva di gioia. Gli elementi d’interesse, lo stimolo dell’in Âtelligenza che in tal modo trovavano gli artisti non esistono più. Il macchinismo, la divisione del lavoro hanno trasfor Âmato l’operaio in un semplice manovale e hanno ucciso la gioia dell’opera. Con tristezza, nell’officina, l’uomo, accop Âpiato alla macchina che non chiederà nulla al cervello, adem Âpirà un compito monotono di cui sente solo la fatica. La soppressione del lavoro intelligente nelle attività ma Ânuali ha avuto una ripercussione nelle arti plastiche. Si deve certamente al desiderio di sfuggire al macchinismo l’aumen Âto anormale del numero di pittori e scultori, con l’inevitabile conseguenza di una mediocrità generale. Molti di loro due secoli fa sarebbero stati degli abili falegnami, maiolicai, fabbri ferrai, se tali professioni avessero loro offerto le me Âdesime attrattive che agli uomini di quel tempo. Qualun Âque sia il valore delle cause secondarie dell’attuale deca Âdenza dei mestieri, la principale, a mio avviso, è l’assenza di ideale. Anche la mano più abile non è altro che l’esecutrice della mente. Temo che anche i tentativi che si com Âpiono per fare di noi degli artigiani alla stregua di quelli del passato saranno vani. Quand’anche si riesca a produrre nelle scuole professionali degli abili operai che ben cono Âscano la tecnica del mestiere, non servirà a nulla se essi non avranno in se stessi un ideale per vivificare il proprio lavoro. Potrebbe sembrare che siamo molto lontani da Cennino Cennini e dalla pittura; eppure non è così, poiché la pittura è un mestiere come la falegnameria e la lavorazione del ferro, e sottosta alle medesime regole […]. Prefazione all’ed. francese del Libro dell’arte di C. Cennini, 1911 Lettere Algeri, marzo 1881. A Durand-Ruel. Sono rimasto lontano da tutti i pittori, nel sole, per meglio riflettere […] Credo di essere alla meta e di aver trovato. Il mio invio al Salon è soltanto commerciale […] Non voglio abbandonare Algeri senza riportare qualche cosa da questo meraviglioso paese. Italia, autunno  1881. Alla signora Charpentier. Dovevo pranzare un mattino con voi, e mi avrebbe fatto infinitamente piacere, perché è già passato tanto tempo. Ma sono diventato improvvisamente viaggiatore e la febbre di vedere Raffaello mi ha preso. Sono dunque sul punto di inghiottire la mia Italia. Ora potrei rispondere aperta Âmente, sì signore io ho visto Raffaello. Ho visto Venezia la bella, ecc. ecc. Ho preso per il Nord, e percorrerò lo stivale tutto intero già che ci sono e quando avrò finito farò la vera festa di venire a pranzo da voi. Allora, nonostante la mia ingratitudine, spero che mi riceverete ugualmente. Un uomo che ha visto i Raffaello. Che pittore eccezionale! Vo Âlete che vi racconti quel che ho visto a Venezia. Ecco. Pren Âdete un battello e andate al quai des Orfèvres, o di fronte alle Tuileries, e vedrete Venezia. Per i musei andate al Louvre. Per Veronese andate al Louvre, eccetto Tiepolo, che non conoscevo; ma viene a costare un po’ caro. No, non è vero, è molto bella, molto bella la laguna, quando c’è bel tempo. San Marco, stupendo, il palazzo dei dogi, stupendo il resto. Io preferisco Saint-Germain Lau-xerrois [sic]. Napoli, 25 novembre  1881. A Durand-Ruel. Sono ancora nella malattia delle ricerche. Non sono contento e cancello, continuo a cancellare […] Credo che non porterò molto dal mio viaggio. Ma credo che avrò fatto progressi, il che capita sempre dopo lunghe ricerche. Si torna sempre ai propri amori, ma con una nota in più. Infine, spero che voi mi perdoniate di non portarvi gran che. Ma così vedrete quello che vi farò a Parigi. Sono come i bambini a scuola. La pagina bianca deve essere sempre ben scritta e … paf! un pasticcio! E io sono ancora ai pasticci … e ho quarant’anni. Sono stato a vedere i Raffaello a Roma. È assai bello e avrei dovuto vederlo molto prima. È colmo di sapere e di saggezza. Palermo, 14 gennaio 1882. [Arrivato a Palermo] Trovo la città triste e mi domando se non riprenderò il battello la sera. Infine mi incammino tristemente verso l’omnibus sul quale sta scritto: Hotel de France. Vado alla posta per sapere dove risiede Wagner; nessuno parla francese e nessuno conosce Wagner, ma nel mio albergo, dove sono dei tedeschi, ho finito col sapere che è all’Hotel delle Palme. Prendo una carrozza e vado a visi Âtare Monreale dove sono dei bei mosaici, e durante il tra Âgitto mi abbandono ad un mucchio di riflessioni malinconiche … Eccomi all’Hotel delle Palme: un cameriere prende la mia lettera, ridiscende dopo qualche istante dicendomi in italiano: “Non salue [sic] il maestro”, e mi volta la schiena. L’indomani io ricevo la mia lettera da Napoli, mi ripresento a questo stesso domestico che, questa volta, prende la mia lettera con un disprezzo scoperto … Infine ecco un giovane biondo che prendo per un inglese ma è russo e si chiama Joukoski. Finisce per trovarmi nel mio angolo e m’introduce in una stanzetta. Dice di conoscermi bene, che la signora Wagner è desolata di non potermi ricevere; poi mi chiede se voglio restare un giorno in più a Palermo, perché Wagner sta mettendo l’ultima nota al Parsifal ed è in uno stato di malessere e di nervosismo, e non mangia più, ecc. … [… L’indomani] Alle cinque suonate sono là e m’imbatto nel solito domestico che mi saluta con deferenza, m’invita a seguirlo e mi fa penetrare in una piccola serra, poi in un salottino attiguo, mi fa sprofondare in un’immensa pol Âtrona […] Odo un rumore di passi attutiti dagli spessi tap Âpeti. E’ il maestro, in abito di velluto con grandi maniche foderate di seta nera. È’ bellissimo e molto gentile, e mi tende la mano, m’invita a risedermi e allora comincia una con Âversazione delle più insensate, cosparsa di hi!, di oh!, mezzo francese, mezzo tedesco con desinenze gutturali. Io sono ben contento, Ah! Oh! e un suono gutturale, voi venite da Parigi […] Parliamo di tutto. Dico parliamo, ma io non ho fatto che ripetere: Caro Maestro, certa Âmente, Caro Maestro, e mi alzavo per andarmene, allora mi prendeva le mani e mi ricacciava nella mia poltrona. Addendete ancora un bo’ mia moglie sta fenendo e questo buon Lascoux gome va? Gli ho detto che non l’ho visto, che è molto tempo che sono in Italia e che lui non sa neppure che io sono qui. Ah! Oh! e un suono gutturale in tedesco. Parliamo del Tannhäuser all’Opéra. […] All’indomani ero là a mezzogiorno […] Era molto gaio, ma molto nervoso […] In breve, credo di aver impiegato bene il mio tempo, 35 minuti, non è molto, ma se mi fossi fermato prima, sarebbe stato bellissimo, perché il mio mo Âdello finiva per perdere un po’ di gaiezza e irrigidirsi. Ho seguito troppo questi mutamenti, vedrete. Alla fine Wagner ha chiesto di vedere e ha detto Ah! Ah! sembro un prete protestante; il che è vero. Comunque ero molto contento di non aver fatto del tutto fiasco: c’è un piccolo ricordo di questa testa ammirevole. Algeri, marzo 1882. A Durand-Ruel. Eccomi quasi sistemato ad Algeri e in rapporto con degli arabi per trovare dei modelli. Cosa abbastanza sco Âmoda, perché si vedrà chi imbroglierà di più. Ma spero questa volta di riuscire a portarvi delle figure, ciò che non ho potuto fare nel mio ultimo viaggio. Ho visto dei bambini assai pittoreschi. Li avrò? Cerco di fare tutto quel che occorre per averli. Ho visto anche delle donne graziose. Ma vi dirò in seguito se ci sono riuscito. Ho bisogno ancora di qualche giorno prima di mettermi al lavoro. Ne approfitto per cercare, perché quando sarò a posto voglio fare più che posso e portarvi, se possibile, delle cose non troppo comuni. …] Mi irrita un po’ farvi aspettare tanto i miei nuovi invii dall’Italia. Peccato che ci siano dei ritocchi indispensabili da fare, ma poiché la mia nuova pittura non è vendibile, spero che non me ne vorrete troppo. Guernesey, 1883. A  Durand-Ruel. Mi sono trovato su una spiaggia affascinante e completamente diversa dalle nostre normali spiagge normanne. Qui ci si bagna tra le rocce che servono da cabina, poiché non c’è altro: niente di più delizioso del miscuglio di uomini e donne assembrati su questi scogli. Ci si crederebbe molto li più in un paesaggio alla Watteau che nella realtà . Avrò dunque una fonte di motivi reali, piacevoli, di cui mi potrò servire. La Rochelle, estate 1884. A Durand-Ruél. L’ultimo quadro che ho visto di Corot aveva suscitato in e un desiderio folle di vedere questo porto e sono meravigliato di notare, malgrado il vago ricordo che ho del quadro, .! realismo straordinario del tono. Il quadro dimenticato mi è ritornato alla memoria. È’ straordinario. […] Piove tutti i giorni, ma il poco che faccio o che farò mi ha fatto compiere qualche progresso. È’ il primo viaggio che mi sarà servito a qualcosa, e proprio perché il tempo tanto cattivo mi ha indotto più a riflettere e vedere che a eseguire del vero lavoro. Tuttavia ho riempito qualche tela. Ve le mostrerò. Ho perduto molto lavorando nell’atelier, in quattro metri quadrati. Avrei guadagnato dieci anni a fare ciò che ha fatto Monet. Essoyes, settembre-ottobre   1885. A Durand-Ruel. Ho ripreso, per non lasciarla più, l’antica pittura dolce e leggera. Voglio rientrare con una serie di tele, poiché, non cercando più, faccio progressi in ciascun dipinto. È tutto diverso dai miei ultimi paesaggi e dal ritratto mono Âtono di vostra figlia. C’è la tecnica delle Pescatrici e della Donna col ventaglio, con una leggera differenza data da un tono che non riuscivo a trovare e sul quale ho finito per mettere la mano. Non è niente di nuovo, ma è un seguito ai quadri del XVIII secolo. […] È per spiegarvi press’a poco la mia nuova fattura e ultima (Fragonard in tono minore). […] Non mi paragono […] a un maestro del XVIII secolo. Ma bisogna pure che vi spieghi in quale senso lavoro. Essoyes,  ottobre   1885. A Durand-Ruel. Sto lavorando e ho delle cose in atto nella maniera della Donna col ventaglio. Ho avuto come modelli delle deli Âziose giovanette e dei bambini. Ho cominciato delle Lavan Âdaie e due teste. Una giovanetta che culla un marmocchio biondissimo. Penso che questa volta andrà bene. È una pittura molto dolce e colorata, ma chiara.
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