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PITTURA: I MAESTRI: Simon Martini gotico intellettuale

3 Agosto 2017

di Gianfranco Contini
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1970]

Si condoni a un modesto frequentatore di Dante e del Petrarca di aver acconsentito a presentare come non addetto ai lavori quel grande loro contemporaneo che fu Simon Martini. Ogni lettore di Petrarca sa che Simone fu ” in paradiso ” per ritrarre Laura: cosa che, se non è una metafora troppo generica, coglie ­rebbe in quel ritratto perduto un allontanamento su ­blimante dalla realtà. E sempre nei rapporti con Pe ­trarca si vede Simone, e proprio il Simone avignonese, il Simone ultimo di Liverpool, a cui viene riferita la fondazione del gotico internazionale, tessergli la rap ­presentazione simbolica della poesia nella miniatura del Virgilio ora Ambrosiano: quello stesso in cui, scom ­parso il pittore (di poco premorto a Laura), France ­sco inserirà poi il ricordo della morte dell’amata.

Sta però di fatto che la sua prima opera (prima datata, s’intende) offre una congiunzione letteraria al ­quanto diversa: nella solenne Maestà del Palazzo Co ­munale di Siena, del 1315 (o, secondo come si inter ­preta, nel 1316, sempre ab Incarnatione), un dantista dei più vigilati, Guido Mazzoni, rilevò (ora nel volume Almae luces malae cruces) l’iscrizione di gusto tutto dantesco; ed è anzi la prima volta che, non solo non ancora finita la Commedia, ma diffusane soltanto una parte, essa esercitò un influsso decisivo proprio nell’am ­bito di una rappresentazione civile. Nel manoscritto di Milano Simone o chi per lui sostituisce il proprio nome a quello di Virgilio ed è costretto a fare dello schema classico un’imitazione ritmata (uso ben noto nella poe ­sia senese dal sommo esempio di Duccio), scrivendo:

Mantua Virgilium qui talia carmina finxit.

Sena tulit Simonem digito qui talia pinxit.

Qui nella Maestà il Martini o chi per lui â— qualcuno che nell’applicazione didascalica somiglia parecchio a Francesco da Barberino – candiva in terzine dantesche la mirabile offerta dei fiori:

Li angelichi fiorecti, rose e gigli,

Onde s’adorna lo celeste prato …

Superfluo riprodurre l’altra serie di terzine, ugualmen ­te benigne e minacciose, ma di cui converrà sottolinea ­re col Mazzoni che l’apostrofe iniziale, “Diletti miei”, riporta addirittura allo stilema d’una celebre canzone della Vita nuova. E non basta: dovendo firmare la no ­bile opera, darle la stessa approvazione che poi alla mi ­niatura, egli usa finalmente un’altra terzina, il cui testo si prende qui, datane la rovina, secondo l’interpreta-zione congetturale del Mazzoni:

Mille trecento   quindici era volto

Et Delia avia ogni bel fiore spinto

Et Iuno già gridava:   I’ mi rivolto.

Siena a man di   Symone m’ha dipinto.

Tanto per l’umanistica lode di sé quanto per gli stilnovistici fioretti, sia pure subito trasportati al morale. Simone adopera dunque, ben precocemente, uno schema che è di politica, laica celebrazione dei valori supremi, sintesi di civile appunto e sacro. La celebrazione stessa squilla infatti, gigantesca ma contratta, dai muri comunali; rispetto al precedente vicino di Duccio si ha un’energica condensazione mentre tutta l’emblematica secondaria si rifugia in un agile contorno di simboli minori. La celebratissima trovata del gonfalone, che garrisce al vento coi nastri delle sue estremità, unisci la scena delle schiere raccolte di tipologia duccesca. in cui il profilo, i trequarti e la rappresentazione facciale si alternano liberamente, lasciando però sgombro il contorno centrale per gli spazi sacri. Si veda la prima figura a destra come arrotonda contro questo limite il suo volto: così la bocca d’una penitente si schiaccia davanti alla grata della confessione. Questa sintesi sacro-civile assunta dalla città-stato ha veramente il precoce colore della prima diffusione di Dante, col suo senso gerarchico dei vari elementi del mondo, ed è tan ­to più antico dell’uso che farà Petrarca della terzina oltre un terzo di secolo dopo in quei Trionfi che tra l’altro sembrano postulare la mediazione boccaccesca. Conviene non dimenticare questo scarto di generazione perché, mentre Simone esegue e fa eseguire il suo pri ­mo lavoro, e capolavoro, noto, ed è evidentemente già un maestro collaudato, Petrarca attende ancora ai suoi studi puerili di grammatica e retorica nell’esilio di Carpentras. Si noti come l’istituto dell’iscrizione in terzine varrà ancora per il robusto vicino di Simone in Palazzo Pubblico, per Ambrogio Lorenzetti, non qui natural ­mente, ma nell’Eva a Montesiepi, anch’essa studiata dal Mazzoni.

Ma già che siamo in questa illustre aula senese, proviamoci a esaminare, fatto un buon salto cronolo ­gico (e del resto in questo intervallo si sa che Simone aveva anche avuto il tempo di reintervenire sulla stessa Maestà), l’affresco che le fa fronte e che, pure politico, è però onninamente profano, il giustamente glorioso Guidoriccio da Fogliano all’assedio di Montemassi. Ba ­sti accennare all’interpretazione naturalistico-rinascimentale già avanzata e al suo smontaggio per le im ­pietose mani di Roberto Longhi. Non certo che sarà mancata plausibilità fisionomica a questo personaggio che ha tanto di certo notabile del quadripartito, con ­densato sul suo profilo che sempre Longhi definisce “numismatico”, e che nell’ambito del ritratto perlo ­meno ha il suo parallelo nel re Roberto inginocchiato di Napoli, il quale sembra minuscolo solo perché af ­fianca il suo profilo angioino al gigantesco fratello visto facciale. Ma non è da credere che Guidoriccio si isoli tra scorci potenti di paesaggi senesi intesi come ricordo effettuale (seppure risulti che a Simone fu pagata una trasferta perché andasse a verificare altri castelli con ­quistati, le cui sembianze comparivano sul terzo lato della medesima sala). È singolare come a questa illu ­sione aiuti l’andazzo di ritagliare gli estremi del pae ­saggio, talché questo si concentrerebbe in due colli fra i quali il cavaliere si bilancerebbe. Così chi scrive ri ­corda come il paesaggio gli venisse al liceo propinato mutilo a questo modo, ma temo che l’effetto di questo taglio agisca perfino nel Toesca, che pure è il Toesca, il quale parla di due colli, anziché di tre. Il fatto che il colle di destra sia più basso ma legato a una balza che lo sormonta fin quasi al ciclo, interrompendosi a questo termine montano, mentre il castello di sinistra compare del tutto isolato ma più alto del punto termi ­nale di destra, significa che il profilo viene digradando scalarmente da destra a sinistra, cioè dal lato dove la finestra spalanca la sua luce. Anche le pieghe asimme-triche formate dalle losanghe della gualdrappa equina concorrono al medesimo risultato; ma il cavalcatore è del tutto cinto dagli steccati che in piano anteriore co ­minciano con lo zoccolo fermo del cavallo, poi ricompaiono dietro il castello collegando la figura equestre e finalmente riappaiono brevemente in piano anteriore per chiudere il suggerimento. Quello è il perimetro del ­l’azione del cavaliere, che ne resta liberamente in pri ­gione, e al suo interno compare ogni sorta di fortifica ­zioni, di pennoni, balestre, tende, lance, palvesi, maga ­ri messi in riposo ma senza che s’affacci una sola altra figura umana. Signore della rappresentazione umana è unicamente Guidoriccio. E l’affresco di Guidoriccio si contrappone alla Maestà che gli sta di fronte non solo come la città belligerante alla città adorante e mora ­leggiante, ma come il compendio ispirato a un movi ­mento forzante la vicina apertura a un equilibrio dina ­mico di allegoriche forme, sull’identico fondale dell’az ­zurro oltremarino. Di lì viene anche l’aria che tende le bandiere alle spalle del cavaliere, dunque percuoten ­dogli nel volto. E forse sì questa astrazione suprema con gli elementi più suggestivi della realtà si potrebbe chiamare petrarchesca, ma per anticipo.

Guidoriccio porta la data del 1328; del 1333 la reca l’Annunciazione che ornò la cappella di Sant’An ­sano nella cattedrale di Siena prima che subisse un altro trasferimento ecclesiastico e da ultimo finisse nel ­le collezioni degli Uffizi, e che è l’opera più frequentata di Simon Martini, e intanto la più frequentata anche dal dilettante che qui scrive. Stavolta il fondo assoluto è dato dall’oro, che dobbiamo riproporci nella sua in ­tegrità, prima che a sanare il malore del dipinto spac ­cato verticalmente, press’a poco a metà, un’emulsione ne venisse ricolata sulla superficie con troppo generosa prorompenza artigianale. Questo quadro è orientato a destra anziché a sinistra e su questo punto è come un’antitesi del Guidoriccio. Ma orientato a destra si ­gnifica che la rappresentazione segue l’ordine ‘naturale’ delle cose, il procedere degli astri, la gerarchia ov ­via per la maggior parte degli uomini, le scritture del mondo occidentale, cosa perfettamente intonata al ­l’avvenimento rappresentato, centrale in un’antropo ­logia soprannaturale per la storia dell’umanità. Il di ­pinto è orientato verso il bersaglio poiché tutte le forze si appuntano contro la Vergine annunziata. Essa si falca quindi lasciando il temibile vuoto sopra di sé nella metà destra del dipinto; e il peso d’immobilità grava nel volume appoggiato e a lettura interrotta, grava nel lembo del mantello che oltrepassa il piano del legno, grava nel drappo rimasto arrovesciato, esa ­nime, sul dossale, grava soprattutto sul segnalibro che si è impigliato nel pomolo sinistro del trono mentre quello di destra appare liscio, nudo, levigato, e tutti i particolari dell’ebanisteria coadiuvano quest’effetto, come non di rado righelli, architravi e altre opere di falegnameria nelle Storie di san Martino in Assisi. A questa schiacciata immobilità si oppone tutta l’agitazione, la spirazione che coinvolge l’intera metà sini ­stra fino alla Colomba e alle boccucce angeliche orien ­tate verso l’evento; al massimo questa frenesia colpi ­sce il corredo vestimentale dell’angelo e determina gio ­chi di prospettiva multicolori nei rovesci, che Cecchi ha bene chiamati “scozzesi”, della tunica. E certo se di una tanta macchina si volesse portar via un pollice quadrato di particolari, io quanto a me non esiterei: qualcuno di quei torti quadrangoli in cui si flettono ventilate le linee della stoffa. Gabriele è inginocchiato, ma tutto dietro di lui tradisce ancora la palpitazione e il vortice del movimento, e in particolare le ali, anzi ­ché chiuse, sono al massimo della loro tensione verti ­cale. Risultandone paradossalmente una specie di aereo a geometria variabile, riesce astutamente a in ­vadere della loro superficie tutta la cuspide gotica (queste ali sono lo svolgimento dinamico della matrice statica che sono le ali angeliche della Maestà o del po ­littico di Pisa); e si rivela il pelo di quelle ali, che è occhiuto, cioè di pavone, come sotto si indugerà a guar ­dare. Essendo subissato il plein air, la natura rimane affidata al ramo d’uliva che, per sensazione e termine cari all’avanzato Trecento, si definirebbe con parola virgiliana e ovidiana bicolor. E pienamente si sviluppa in quel prodigioso giglio che, svolgendo semi di un attributo santoriale della Maestà e del polittico pisano, ma isolato a metà del dipinto in apposito vaso, pre ­senta sullo scapo irto di squame la più prodigiosa va ­rietà di aperture della gemma rotando attorno al fusto e facendone rotare persine i rapporti cromatici tra il bianco e il verde. La pianta, che partecipa alla incli ­nazione dello Spirito verso destra, è contenuta in un vaso le cui anse nella prospettiva empirica alludono a quella convergenza, come vi allude la grossa parola dell’Annunciazione che in lettere grevemente dorate assolve anche qui un compito funzionale.

Si aggiunga che a questa potente astrazione ammi ­nistra letterarietà anche un particolare sopra accenna ­to, cioè le penne angeliche di pavone. Non sono in grado di tracciarne la trafila culturale, ma posso indi ­care che meno di due decenni dopo, spento già Simone, il rapporto non sarà casuale, il tema è adoperato dal Boccaccio in quella che si chiamerà brevemente Vita di Dante. Ne cito qui per ragione di chiarezza testuale il cosiddetto Secondo Compendio, ma esso non altera fondamentalmente il dettato dell’autografo toledano appartenente ai primissimi anni della seconda metà del Trecento. Si tratta dell’interpretazione del sogno in fine del trattatello attribuito alla madre di Dante, la quale vede il figlio trasformarsi in pavone. Scrive il Boccaccio:

“II paone, secondo che comprendere si può, ha queste proprietà: che la sua carne è odorifera e in ­corruttibile; la sua penna è angelica, e in quella ha cento occhi … Dissi, appresso, il paone avere angelica penna, e in quella cento occhi. Certo io non vidi mai alcuno angelo; ma, udendo che voli, estimo che penne aver debba; e, non sappiendone alcuna fra questi no ­stri uccelli più bella né così peregrina, considerata la nobiltà di loro, imagino che così la debbiano aver fatta, e però non da queste le loro, ma queste da quel ­le dinomino …; e il cambiare del color di quella, secondo i vari mutamenti di questo uccello, niuna altra cosa esser sento, se non la varietà de’ sensi che a quella in una maniera e in altra, leggendola [la lettera della Commedia], si posson dare”.

Sembra meno urgente segnalare una letterarietà acquisita a un’opera come l’Annunciazione. I prerafaeliti, visualizzatori dei modi stilnovistici, e per dir tutto della Vita nuova, nel loro repertorio antico, risa ­lendo oltre la produzione nientemeno che botticellia-na, annovereranno anche queste membra liliali, esan ­gui e allungate. Sennonché è la sola caratterizzazione in negativo di questa tipologia (un volto, per così dire, senza volto), di cui qui Simone raggiunge il suo apice. che è responsabile della spuria discendenza; meglio abbandonare i prerafaeliti alla loro incongruenza cronologica, che unisce il romanzo simbolico dell’ultimo Duecento al linearismo grafico appunto del Botticelli, lasciando stare questa superfetata giunta di Simone. Si potrebbe andare avanti un pezzo, cercando di analizzare i dipinti di Simon Martini in rapporto alla sua cultura e alle abitudini del lettore di poesia lette ­raria. Ma poiché manca la carta a siffatta impresa, si dia almeno uno sguardo al polittico già in Santa Ca ­terina di Pisa (che da documenti risulta di qualche anno posteriore alla Maestà], il quale conta fra le sue opere più austere, chiuse e difficili. Sembra quasi che il Martini abbia qui bombardato la sua relativamente unitaria Maestà per tornare a una minuta e antica atomizzazione in cui la fondamentale orizzontalità e-numerante è contemperata in senso verticale da quel ­le tante cuspidi e loculi e finestrelle con un libero al ­ternarsi di partiti di tre quarti, frontali e di profilo (di profilo, per la verità, è soltanto, chiuso nel lonta ­nare della sua visione, il profeta della cuspide più vici ­na a destra â— più vicina almeno secondo la ricostruzione ora esposta nel Museo di San Matteo -, e la libertà è tanto meglio assicurata dalle dimensioni mi ­nime, non potendo quelle delle maggiori mezze figure ad esempio tollerare che siano più o meno esattamente frontali rappresentazioni periferiche). Si è abbastanza sottolineata l’importanza figurativa del verbo scritto nell’affresco e nella tavola di Simone (si tenga il debito conto, per quest’ultimo, anche della stola dell’angelo); ma qui essa tocca un apogeo che si direbbe quasi cufi ­co con i cartigli e iscrizioni nei due tipi di tutte minu ­scole e di tutte maiuscole. Gli enormi cartigli conno ­tano la maggioranza dei profeti, così come i due angeli che recano i simboli cristiani del gaudio e dell’abie ­zione – cartigli che hanno tutta l’aria d’una parentela prossima con quelli che lì a Pisa stessa avviluppano i grandi profeti di Giovanni Pisano. Sta di fatto che tali cartigli determinano casi molto sottili di simmetria-asimmetria che fanno del polittico di Santa Caterina una formula tutta diversa e da quella che si estrapola verso la luce della finestra in Guidoriccio e da quell’al ­tra che segue il corso astrale nell’Annunciazione ora a Firenze (per queste considerazioni si può prescindere ovviamente dalla discussione sull’eventuale autografia dei ritagli). Nelle tre e tre cuspidi laterali si sottrag ­gono alla ritorta ostentazione dei rotoli solo le figure centrali, la cetra di Davide a sinistra, Mosè a destra con le disgiunte tavole quadrate, ma questo ripercuote il libro che il Cristo dalla cuspide terminale apre alla destra declinando dalla parte di Mosè (adotto provvi ­soriamente l’ordine dato agli elementi nel museo, ma il ragionamento fila, anzi fila ancor meglio, se gli si sostituisce quello che è prescelto nel presente volume). Quanto agli angeli, offrono il sinistro un cartiglio ver ­ticale, il destro uno orizzontale. Altra simmetria-asim ­metria: il centro è rappresentato da una Madonna col Bambino ovviamente declinata a destra verso il pro ­digioso infante che per la tangenzialità della parte in ­terna dell’aureola ai suoi ricci scattanti ne ricava una solarità irrecusabile; ma sul capo stesso della Madon ­na si partivano il campo con opposte funzioni Gabriele adducendo il ramo d’uliva, Michele recando la palma del martirio. Ricavata la gloria materna dall’atto di cui fu ministro l’angelo di sinistra, deve dar luogo nella predella all’evento funesto annunciato dalla palma; ed ecco ivi realizzarsi quel presagio di morte con le tre figure del Cristo di Pietà sorgente nel centro della finestrella trifora tra le figure distinte della Madonna e di san Marco, il Cristo di Pietà che sorge su una balaustra di marmo cipollino, non dissimile da quel tanto significativo pavonazzetto che pavimenta, non essendo molto meno di tutta la realtà ambientale, la scena dell’Annunciazione; e che qui serve a determi ­nare come una sorta di torciglione su cui si ostenta la sacra reliquia. Orbene, ecco la Madonna, vestita come già lei sola della tunica azzurra, voltarsi questa volta a sinistra fuori del quadro verso lo spettatore, inver ­tendo il ritmo di sopra; Madonna e Cristo si ripetono nella predella, ma occupando solo i due terzi dello spazio di sinistra poiché quel che avanza è sequestrato dal meno necessario evangelista.

Ancora. La tavola della chiesa domenicana di San ­ta Caterina è pure un’esaltazione dell’ordine dei Pre ­dicatori, come anche a distanza indica la rapida per ­cezione di quei mantelli neri sotto cui spunta la tonaca bianca, ma, se sono simmetrici all’estremità delle ta ­vole maggiori san Domenico e san Pietro martire, l’uno col libro aperto da cui pare emergere il giglio (in una situazione mediante, come pure non si mancò di avvertire, tra la Maestà e l’Annunciazione), l’altro col volume chiuso, ecco che san Tommaso d’Aquino nella predella occupa una posizione intermedia, quan ­to consente la simmetria ternaria e non binaria, entro la branca di destra ed è interamente facciale e il suo libro gli esplode sul petto dilatando la stella d’oro di san Domenico e nella deflagrazione addirittura distrug ­gendogli le mani. E una volta presa l’abitudine di guardare, emergono infinite e pur decisive sottigliezze, negli attributi dei santi, nel loro rapporto con la cor ­nice, nei gesti delle mani che costituiscono una straor ­dinaria variatio. E qui accade di rilevare come il Battista, che è il centrale delle mezze figure di de ­stra, levi la destra con singolare gesto a occhiello, che è quello stesso che fa una delle figure minute sotto la cuspide, proprio il primo a sinistra, quasi identi ­co nella sua faccialità, e che altro non è â— vorrà pro ­prio dirsi frutto del caso? – che il patrono del pittore, Simone.

Ecco dunque che se si prendesse per base l’immagi ­naria linea mediana, le linee che costituiscono simme ­tria fra coppie e terne si intrecciano con non meno organico intrico di quanto non facciano nei grandi testi poetici coevi le corrispondenze formali, di allit ­terazioni, di masse sillabiche. di valori ritmico-semantici ecc.: un mondo che detta legge a se medesimo e che realizza il legamento con suprema libertà. Qui finalmente nasce il sospetto che critica figurativa e cri ­tica letteraria non siano che applicazioni di una legislatività comune.


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Bart