PITTURA: I MAESTRI: Mantegna: Il “solenne maestro”1 Agosto 2017 di Maria Bellonci Centotrentasette pittori, è stato scritto, si forma Ârono, nella bottega di Francesco Squarcione, padova Âno. Francesco l’astuto, potremmo chiamarlo: astuto ad un vivere recitato, procedente dalla spiritosa lo Âquacità dei suoi conterranei ad una sorta di millante Âria sfoggiata sua propria. Prima di essere pittore s’era ingegnato in molte cose, anche nel ricamare e nel cu Âcire da sarto; e difatti quelle sue forme durette che per ammorbidirsi si ondulavano rigidamente o si svuo Âtavano allungandosi, sembrano talvolta star su per cuciture interne ripassate a rinforzo. Ma la sua fama non è tanto affidata alle opere pittoriche, quanto ad un’idea molto pratica; e fu di aprire in Padova una scuola per giovani supposti valenti ai quali egli inse Âgnava a muovere il pennello e a macinare colori : al Âcuni erano tenuti come discepoli, altri, troppo poveri per pagarsi la scuola, adottati come figli; e così fu adottato, nel 1441, un ragazzetto fra i dieci e gli un Âdici anni figlio del falegname Biagio inurbato dal paesino di Isola di Carturo tra Vicenza e Padova. Si chia Âmava Andrea Mantegna, era uno fra i più poveri. Ma quel biondo di occhi chiari, così intento in se stesso quando non erompeva in ribellioni, non era per niente maneggevole né facile da intaccare nella sua precoce solidità . Sentendosi oscuramente provocato, lo Squarcione sottoponeva il figlio adottivo ad una disciplina ineguale e stancante; gli comandava persino, appena ripuliti i pennelli, di sfaccendare per casa negli umili lavori di garzone. Andrea insorgeva, poi doveva tacere; e certo l’energica intransigenza del suo temperamento, repugnante a qualsiasi forma d’ingiu Âstizia e di prevaricazione, gli fece patire allora quei profondi furori che, domati da un’estrema volontà di razionalizzazione, gli dovevano rimanere dentro, im Âmedicati, per tutta la vita. Da parte sua lo Squarcione di tali contrasti si gloriava, se, anni dopo, quando la fama del Mantegna era stabilita, gridava ai suoi allievi tra promessa e mi Ânaccia: “Ho fatto un orno de Andrea Mantegna come farò de ti!”. Un uomo, e tale uomo. Andrea era diventato proprio contro il maestro; è anche vero pe Ârò che quella pericolosa iniziazione didattica contri Âbuì a maturare rapidamente il ragazzo e a far coinci Âdere ogni suo colpo d’ira con le possibilità del suo ge Ânio. Così accade al giovanissimo artista una cosa in Âconsueta: senza incertezze, senza errori, egli si manifesta alla prima, in piena luce; e gli accadrà questo prodigio: rimarrà alla stessa altezza quasi senza fles Âsioni, fino alla morte. Ogni artista ha il suo segreto, e il più chiaro e il più difficile. Osservava Charles Du Bos, mentre si di Âsponeva all’approssimazione critica di Gide, che nulla è misterioso quanto una bottiglia di vetro piena d’ac Âqua pura. Andrea Mantegna è come un solido geome Âtrico di cristallo; ciascuna faccia risponde rigorosamente a una regola numerica; ma in realtà i numeri ci sfuggono negli scatti delle molteplici rifrangenze. Tut Âtavia, qualunque vento interpretativo possa tirare, e di rimane sicuramente un punto inamovibile dell’espressione rinascimentale; e lo è proprio compiutamente, sorgendo tutto nuovo dalla grande favola gotica set Âtentrionale travolta in quel primo Quattrocento da una nouvelle vague fra le più portentose che abbiano investito anzi sovvertito il mondo: l’umanesimo. Uma Ânesimo, per dirla essenzialmente (e molto sommaria Âmente), significava Firenze; e da Firenze infatti risalirono l’Italia i toscani, trasmigranti al nord con di Âversi ritmi, a Venezia con i più veloci. La ragionativa concreta Repubblica, allora espansa nei mari e nelle terre d’Oriente in tutta la sua potenza commerciale e politica, sembrava fatta apposta per assorbire le for Âme nelle quali l’umanesimo diventava Rinascimento. Andrea del Castagno a San Zaccaria, i Lamberti a Palazzo Ducale, Filippo Lippi, immettono una cor Ârente inebriante nella vita pittorica veneziana. A Pa Âdova, oltre i quaderni di disegni antichi e nuovi, fu Donatello con l’altare in Sant’Antonio e il Gattamelata in piazza a far rivoluzione (e anche il Lippi e Paolo Uccello in gradazione di tempi). La nozione della dignità dell’uomo aveva qualche cosa di solare, irre Âsistibile per la gente del nord: l’uomo di Seneca nelle ricostituite dimensioni del reale s’imponeva e preva Âleva sugli astrattismi della teologia. È bellissimo sentire la potenza della spallata mantegnesca quando egli si scuote dalla tutela dello Squarcione; per quasi sette anni è stato sfruttato, inganna Âto: “deceptus”, come sentenziano i legali nel dargli ragione. Óra. libero, mette casa indipendente nella contrada di Santa Lucia ; ha diciassette anni nel 1448; e firma il suo primo lavoro dichiarando con fermo or Âgoglio nome ed età : un lavoro importante, l’ancona, oggi perduta, per l’altar maggiore della chiesa di San Âta Sofia. Di lì a qualche mese una signora dal nome ambizioso, madonna Imperatrice Ovetari, per ornare la sua cappella alla chiesa degli Eremitani secondo il lascito del marito, spartiva settecento scudi d’oro fra due gruppi di pittori: quattro in tutto, due tradizionalmente goticizzanti, due nuovissimi, Andrea Mantegna e Niccolò Pizolo: quest’ultimo, buon pittore, attento alle correnti nuove, era gran giocatore d’ar Âmi; sicché, fra lama e lama, una sera che tornava dal lavoro, fu “affrontato e morto a tradimento” come annota il Vasari. Era la fine d’aprile 1453, la cappel Âla agli Eremitani affrescata solo in parte. Si finì di pa Âgare, ma non di dipingere, nel febbraio del 1454. Le cose a mano a mano s’imbrogliarono: e madonna Im Âperatrice trovò il modo di sdegnarsi quando qualcuno le fece notare che nella figurazione dell’Assunta gli apostoli erano otto e non dodici. Gli era venuto bene comporre così nello spazio esiguo, spiegò il Mantegna senza riuscire a convincere la committente. Ed è chia Âro che dietro di lei si celasse l’animosità dello Squarcione trafitto in ogni molecola d’orgoglio dalla diser Âzione dell’allievo, se, chiamato a giudicare le nuove pitture, si scoprì senza riserve: per lui gli affreschi del Mantegna erano da considerare qualche cosa co Âme statue colorate ricavate dalla “durezza dei sassi” piuttosto che dalla morbidezza dei pennelli. L’ira gli crebbe quando Andrea se ne andò a Ve Ânezia ed entrò nella più viva società artistica del set Âtentrione sposando Nicolosa Bellini, figlia di lacopo, sorella di Gentile e di quel puro poeta del colore che fu Giovanni Bellini. Gran comunanza di amicizia fra le due famiglie; e piacerebbe avere di Nicolosa qualche briciola di notizie personali. Venendo da quella casa di raffinati pennellatori ella doveva conoscere bene gli usi e le esigenze degli uomini dell’arte; figlia e sorella di gente costumata e aggraziata anche nelle passioni, qualche cosa di quei caratteri doveva esserci trasferito in lei. I magri documenti su Nicolosa ci di Âcono soltanto che ella visse col marito in un accordo che non abbiamo ragione di credere solo apparente: morì prima di lui e allevò alcuni figli, ragazzi operosi e mediocri pittori. Il gran filone mantegnesco e belliniano scomparve del tutto nei loro discendenti, come del resto è naturale che sia: il genio è solitario, tra Âsmigra a suo modo e raramente col sangue. Andrea sposo continuò a lavorare agli Eremitani di Padova intramezzando il lavoro d’affresco con qua Âdri di commissione. E finalmente la cappella fu com Âpiuta. Chi ha potuto vedere su quelle pareti di scomoda verticalità le ‘storie’ di san Cristoforo e di san Gia Âcomo e ha potuto sentire l’urto che quelle apparizio Âni suscitavano nelle persone disponibili alle emozio Âni dell’arte, non può che desolarsi ancora, e sempre desolarsi per il crudele laceramento che le bombe del marzo 1944 produssero nella chiesa frantumando quei muri innocenti e venerandi. In molti piangemmo alla notizia; sapevamo che spariva, e che mancherà senza compenso alle generazioni presenti e future, l’incon Âtro con una creazione di giovinezza severa, creazione compiuta da un artista che, nel passare degli anni dai diciassette ai ventisette, aveva espresso in forme quiete e solenni la speranza di un mondo equamente scom Âpartito, dove la giustizia umana presieda, anche quan Âdo appare vinta. Passa il 1457 e viene il 1458. Andrea chiude agli Eremitani e comincia la splendida pala con quella predella di narrazioni animosamente spaziate tra roc Âce e architetture per la chiesa di San Zeno in Vero Âna. Padova gli pesa, “Padoa che nutre gli altri, e i suoi divora”, come scriverà molti anni più tardi un autore satirico del paese. E di questi tempi arrivava, ripetuto con insistenza, l’invito di Ludovico Gonzaga marchese di Mantova: venisse a stabilirsi sulle rive del Mincio, l’ottimo pittore. Qui la vita era tranquil Âla, la gente disposta al buon accoglimento, non esiste Âvano fumose scuole pittoriche di arrabbiati. Erano pronti casa, stipendio; alle opere avrebbero corrisposto, liberali e frequenti, i doni, i riconoscimenti, gli onori. Che non fossero parole sul vago, Andrea lo sa Âpeva. Casa Gonzaga era di temperata ricchezza : alla corte di Mantova non si sarebbe trovato lo smaglian Âte per quanto improvvisato splendore sforzesco, né la distillata magnificenza medicea, né la doviziosa e pol Âposa amministrazione estense. Il marchese Ludovico militava a stipendio e cercava di patteggiarlo alto co Âme facevano signori di terre più ristrette delle sue. Paese essenzialmente agricolo, il mantovano risenti Âva non solo delle guerre, delle inondazioni e delle ca Ârestie, mali ricorrenti, ma anche delle costrizioni tri Âbutarie che Ludovico aveva dovuto imporre per riparare alle incontrollate liberalità del marchese Gianfrancesco suo padre. Ma a tutti i Gonzaga piaceva spendere per le cose d’arte; tutti credevano nell’uma Ânesimo, anzi ci vivevano dentro come in un umore vi Âtale. I dieci figli di Ludovico, maschi e femmine, crescevano secondo gli insegnamenti di quel singolare cristiano di purezza grecizzante che era stato Vittorino da Feltre: non sotto lui stesso, morto nel 1446, ma nel suo sistema e nella sua scuola, quella ‘Giocosa’ che fu una dei più felici fiori dell’umanesimo italiano; vi passarono tra gli altri Ognibene da Lonigo, il Platina, il Filelfo. In casa Gonzaga la considerazione dello stu Âdio era tale che il Filelfo aveva potuto permettersi di sgridare dall’alto i marchesi perché non si curavano troppo, a suo parere, di far uscire il loro primogenito “dalla schiera degli ignoranti”. La marchesa Barbara di Brandeburgo, tedesca, ma allevata da bambina a Mantova, doveva spesso ingegnarsi con i pagamenti e con le spese. Barbara, in perfetta parità col marito, era una donna di sin Âgolare quadratura mentale, abile in ogni faccenda, diplomatica e politica, risoluta e gentile. Un piace Âvole documento ce la mostra mentre con le sue don Âne se ne va a sedersi sugli stalli dove erano stati a conferenza il papa Pio II e i cardinali per disegna Âre la famosa crociata poi fallita: ridevano le donne, e la marchesa stessa imitava la parlata e i gesti di quei grandi personaggi. Ma con tutta la sua lietezza divertita, Barbara, madre di coraggio, anzi madre drammatica, sopportava da valorosa la sventura che la colpiva nei suoi figli : dieci, abbiamo detto, dei qua Âli ella stessa definiva “guasti” (cioè gobbi) almeno quattro: dichiarando poi che ne aveva “una frotta belli e diritti”. In realtà i piccoli Gonzaga non erano molto belli e non erano tutti diritti nemmeno i sei che la madre voleva salvare; ma erano allegri e graziosi, legati da teneri affetti; studiavano tutti il latino, e alle feste virgiliane di Pietole andavano coronati di rose. Virgilio, a Mantova, era un antico nume: il marchese Ludovico sapeva tutto di lui, poeticamente e criticamente. Ma per quanto seriamente educato allo studio, Lu Âdovico Gonzaga vale meglio per il suo modo d’essere nel proprio tempo. Il suo punto d’incontro col Mantegna non fu come quello di Lorenzo de’ Medici con gli artisti fiorentini, un’agile e coscientissima presa di po Âtere intellettuale; ma uno scambio, una verifica di in Âtuizioni di cultura che coincidevano con impulsi morali: venendo egli da una formazione essenzialmente virgiliana per la quale anche l’esercizio delle armi, an Âche gli atti di governo erano operazioni composte in una robusta malinconia; e trovando nelle acquisizioni mantegnesche, offerte come certezze, la disciplina ci regole spaziali che nella loro ineluttabilità annuncia Âvano una sorta di immortalità . Equilibrio, appunti, corrispondente negli spiriti e nelle forme: italiano pii; che romano, nel senso in cui l’italiano raggiunge una radice universale. Equilibrio non esente da attentati. Proprio perché i due uomini erano così integri non vi fu mai un mi Ânuto di monotonia nelle relazioni tra il pittore e ;. signore. Si erano riconosciuti a prima vista, se già m 1461, appena il Mantegna si fu stabilito a Mantova. il Gonzaga, raccomandandolo al podestà di Padova per certe faccende rimaste insolute, lo chiama “il mio carissimo Mantegna, solenne maestro”. Solenne, per dire eccellente in assoluto. Quando Andrea mostrava un suo lavoro, una pittura in tavola, in tela o su muro, o un disegno architettonico o un modello per arazzo, o un progetto di decorazione festiva, c’era sempre una frazione di minuto nella quale l’attesa lievitava in ammirazione. Come per continua riprova, il mae Âstro risolveva in immagini infallibili le immagini fluttuanti, a dimensioni vaghe, di coloro che gli erano in Âtorno. Così Andrea sentiva nella sua mano, convali Âdata dalla venerazione altrui, la veemente sicurezza d’inventare il mondo; e, costretto talvolta a subire una sorta d’inadeguatezza fra le sue ascese e le ristrettezze economiche alle quali doveva sottometter Âsi, sì sentiva offeso, dava in proteste e lamentazioni Sembra incredibile la mansuetudine di Ludovico, ed è pacatamente stoica la sua umiltà quando prega l’ar Âtista di pazientare poiché per certi tracolli avuti non ha più denari, e “tutte le zoglie nostre [gioielli di fa Âmiglia] sono ad usura”, cioè date in pegno. Confiden Âza come parità : ecco perché nella Camera degli Spo Âsi, in questa monumentale testimonianza di pittura civile del Rinascimento, il Mantegna poté dipingersi con la berretta bilanciata sul capo, a colloquio con i suoi signori, fronteggiandoli sullo stesso piano. Molto più di un attimo di sospensione dava ai con Âtemporanei del Mantegna e da ai posteri la Camera degli Sposi. Non è un’apparizione di forme idealizza Âte, un’aspirazione ardente ad una nobiltà più che umana come la cappella degli Eremitani, ma un ritrova Âmento di ciò che abbiamo sempre sentito in noi e che d’un tratto si manifesta come visione. In questo ri Âtratto di famiglia nessuno è adulato: il marchese Ludovico esprime il suo valore nel suo stesso modo d’es Âsere affaticato, la marchesa Barbara è rilevata in ogni sua durezza germanica; dei loro figli, il cardinale ap Âpare come respinto da ogni espressività nel viso appiat Âtito, Gianfrancesco impietosamente dilatato in grassezza, Ludovichino e Paolina, i minori, incisi quasi crudelmente nella loro esilità esangue, vicina al rachitismo. Ma nessuno protesta, nessuno si sdegna: a ragione. Un gran sangue circola dietro quelle pareti nella rappresentazione di un luogo che è insieme sociale e poetico, e dove in un conchiuso ritmo vitale si compongono le figure, la loggia aereata, il paesaggio lievemente toccato di particolari delicati, il balletto delle giovani gambe dei cortigiani, il cavallone bian Âco da parata, i cani, i paggi, tutti tonici nel loro realismo e viventi nella pausa di un respiro, sotto quel Âl’occhio aperto in alto su un ciclo azzurro dove abita Âno deità benigne agli umani. Se è vero che deve considerarsi compiuto colui che nella sua esistenza abbia fatto un bel viaggio, il viaggio bello del Mantegna non fu a Venezia, né a Firenze, né a Pisa, e nemmeno a Roma; fu un breve trascorrere di giorni sul lago di Garda con amici quali l’estroso antiquario veronese Felice Feliciano, l’archi Âtetto Giovanni Antenoreo, il pittore Samuele da Tra Âdate. Se ne andarono in un settembre fresco e soleggiato alla ricerca di anticaglie romane, ricevuti da festosi amici coronati di mirto; si estasiarono davanti a rovine marmoree, decifrarono eleganti iscrizioni; ma più sentirono la grazia struggente della natura nei coloriti fiori, nei “viridari paradisiaci”, tra palme cipressi ulivi e soprattutto tra i fitti agrumeti dalle foglie splendenti. Ricordi di questo paesaggio saran Âno la nicchia erborea traforata di luci nella Madon Âna della Vittoria e le arcate di fitta verdura nella Vir Âtù che scaccia i vizi. Quasi eccezioni, poiché nei fondi mantegneschi ricorre più frequentemente la roccia, il sasso di Monselice, scheggiato, solitario, tagliato a dia Âmante. Una volta sola il pittore fece un diretto omag Âgio a Mantova; e fu nella tavoletta (ora al Prado) del Âla Morte della Madonna. Quasi immaginata la loggia di Castello: e di qua si compone nelle cadenze di un lirismo ordinato, quasi in un pianto represso, il letto della Vergine distesa, vegliata dagli apostoli; e di là dalla curvatura serena dell’arcata si allunga il ponte di San Giorgio attraversando il lago fino alla terra-ferma in un paesaggio di sfumature lacustri sotto il gran ciclo patria di ogni fantasia. Sarà vero, come qualcuno ha scritto, che per re Âstare a Mantova il Mantegna mancò a uno svolgi Âmento più mosso? Passavano per l’Italia Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Giovanni Bellini, Giorgione; ma egli rimaneva fermo ai propri rinnovi di energia. Ad uno come lui non sarebbe mancato il modo, andando per l’Italia come pure andava, girando appe Âna intorno quell’occhio penetrativo, di rendersi conto delle tante e varie correnti: ma era nella natura del suo genio aver bisogno di una piattaforma stabile e non di un trampolino di lancio: stabilità alla quale il Mantegna tendeva anche nella vita quotidiana, nel Âla cura di costruirsi casa e studio, di acquistarsi terre, di fissare egli stesso i suoi punti di riferimento. Morì Ludovico Gonzaga nel 1478 e gli successe Federico, il più amabile gobbo che si vedesse mai, adorato dal popolo per la sua indole affabile e riflessi Âva e per il suo gusto pratico del lavoro industriale e de Âgli scambi commerciali. Era cresciuto dall’adolescenza nella stima del pittore padovano, lo considerava corollario onorando della dinastia, e scuoteva il capo non senza compiacimento quando Andrea si incapricciva e si rifiutava di dipingere per altri prìncipi. È sua la celebre dichiarazione alla duchessa di Milano delusa nella richiesta di un ritrattino: “Questi magistri ec Âcellenti hanno del fantastico e da loro, conviene tuore [prendere] ciò che si può avere”. Ma per fragilità fi Âsica Federico regnò solo sei anni, morendo giovane, come la moglie Margherita, e lasciando il posto a Francesco II, il bambinetto che nella Camera degli Sposi mostra il suo profilino rincagnato contro la ve Âste prelatizia del cardinale. Cambiavano i tempi, e più rapidamente sarebbero cambiati non appena le prime incrinature delle invasioni straniere fossero di Âventate franamento di ogni pacifica libertà . Ma an Âcora nessuno prevedeva un avvenire tanto precipito Âso; e fu un tempo felice per Mantova il decennio an Âteriore al 1494, sotto il regno di Francesco, l’allegro, galante, fascinoso Francesco, buon soldato e gran sensitivo, dal viso potentemente segnato, tanto espanso quanto il padre e il nonno Ludovico erano stati rite Ânuti e malinconici. Una ventata di giovinezza rinnova Âva la corte dove comandava un signore diciottenne tra fratelli e sorelle tra i quindici, dodici e dieci anni : e in quella ventata il Mantegna ideava la sua serie del Trionfo di Cesare, esprimendo con una eccezionale inventività un’archeologia romantica del tutto di Âversa come ispirazione e significato dalla potente di Ânamica interiore della Camera degli Sposi. Da Roma richiedevano il Mantegna, e Innocenze VIII Cibo, genovese, gli faceva decorare con avari compensi una cappella in Belvedere che più non esi Âste. Sempre immerso nel centro della sua opera, Andrea dipingeva: la città color d’ocra bassa, dolce e torbida, stravagante di raffinatezze e di brutalità , lo deludeva. La sua Roma era un’altra, aveva un accen Âto di limpidezza nordica, era rimasta col Trionfo nel Castello in riva al Mincio. E, nel tempo della sua di Âmora romana, che lo vide anche gravemente malato, entrava a Mantova, festeggiatissima sposa di France Âsco, Isabella d’Este, seguita da sette cassoni di corre Âdo dipinti da Èrcole de Roberti, il gran pittore ferra Ârese che avrebbe dovuto aspettare secoli per essere ri Âconosciuto nelle sue purezze metafisiche. Forse in un primo tempo Isabella, come tutte le donne famose per intelligenza, parve temibile al Man Âtegna che doveva diffidare di lei e ci mise un pezzo a tornare a casa. Se così non fosse non ci spiegherem Âmo la lettera di un cortigiano che raccomandava alla nuova marchesa di bene accoglierlo al suo ritorno e le assicurava che avrebbe trovato in lui, oltre ad un grande artista, un uomo gentilissimo. Lei che vera Âmente capiva le cose gli fece gran festa e seppe vol Âgere a proprio favore il prestigio che dal grande pa Âdovano s’irradiava per tutta Italia. Fu proprio il Man Âtegna, però, a suscitare in Isabella un personale mo Âmento polemico quando il pittore la ritrasse nel 1493, non ancora trentenne, in un quadro destinato ad una dama sua amica : ” ne ha tanto malfatta ” ella scrive, che l’immagine “non ha le nostre simiglie”. Memore di questa esperienza, non volle essere ritratta a riscon Âtro del marito, come era stato progettato, in quella Madonna della Vittoria che celebrò l’illusorio trionfo di Fornovo sul re francese Carlo VIII. Tuttavia Isa Âbella riuscì con la forza irresistibile della sua persuasività a piegare il Mantegna a un’esperienza nuova commettendogli quadri per il suo famoso Studiolo. Simboli, allegorie, composite narrazioni che sollecita Âvano immagini raffinate: chissà se il pittore consenti Âva a quelle mitiche battaglie, a quei ritmi danzanti pur così vividi sotto il suo pennello? Erano gli ultimi anni della sua vita, venivano a visitarlo capi di stato, Ercole d’Este, il Magnifico Lorenzo, signori, umanisti, poeti, antiquari. Lui teneva studio in San Sebastiano, in quella che sì potrebbe chiamare la “casa della ragione” tanto entrando nel cortile arcuato a giro di compasso s’impone la pre Âsenza di ariose geometrie. Dentro vi stava una colle Âzione di oggetti di scavo e vi stavano alcuni quadri dai quali egli non si separò mai, come il “Cristo scurto” ora a Brera, dove lo stesso delirio prospettico di Âventa amara poesia. Ma chi era veramente il Man Âtegna? Nemmeno i suoi critici sono riusciti a dedurlo esattamente dall’esame delle sue opere. Anche le con Âtraddizioni, soprattutto le contraddizioni, fanno l’uo Âmo di genio; e non ci stupisce che il Mantegna fosse per alcuni “indemoniato”, “rincrescevole”, “superbo e fastidioso”, e per altri “tutto gentile”, “amico in Âcomparabile”, “di costumi amabilissimi”. In realtà dai documenti ci appare dolce e furioso come sono molti della sua terra. Normalmente casto (non esisto Âno pettegolezzi su di lui, e ci sarebbero senza dub Âbio arrivati), aveva persino una punta di austerità mo Âralistica inconsueta alle sciolte abitudini rinascimenta Âli, se con tanto impeto sapeva accusare taluno di co Âstumi depravati. La costrizione dell’adolescenza che aveva dovuto armarsi a difesa per salvare una voca Âzione, la passione di razionalizzare ogni proprio mo Âto, il logoramento dell’immaginare e del penetrare nelle proprie immagini gli avevano lasciato quei gru Âmi di rabbia che si liberavano in grandi fumate di collera a volte persino ambigue. Forse lo junghiano di turno sarebbe pronto a spiegarci che una raziona Âlità così rigorosamente mantenuta a spese dell’inten Âsità di vita condannò la sua personalità nella parte primitiva ad esistere in un modo sotterraneo e appun Âto, a tratti, ad esplodere. E che vuol dire? Anche se fosse vero, non per questo la Camera degli Sposi sa Ârebbe meno il ritratto rigoroso di un destino umano e della sua accettazione, o le Madonne mantegnesche sarebbero meno eroine intense e sospese nel loro stes Âso lontanarsi; e il San Sebastiano alla Ca’ d’Oro bal Âzante e tormentato ci comunicherebbe meno il grido di tragedia nel momento in cui la saetta apre nel petto umano l’ultimo dolore. Letto 1441 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||