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PITTURA: I MAESTRI: Van Gogh: Passi del suo epistolario

12 Marzo 2019

a cura di Paolo Lecaldano
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1971]

PARTE PRIMA

Van Gogh ha prodotto due opere colossali: quella figu ­rativa, consistente in disegni e in dipinti; e quella letteraria, come a giusto titolo si qualifica il suo vastissimo epistolario. Annotazione pressoché quotidiana delle poche, deludenti vi ­cende concrete, ma incessante, esasperata introspezione, sfogo a una solitudine irrimediabile, confessione senza re ­more né veli, rivelazione illuminante di un mondo interiore sterminato, esso si snoda durante diciotto anni, dall’agosto 1872 sino alla morte, nel luglio 1890: l’ultima lettera fu tro ­vata addosso all’artista ormai spentosi, ed era stata vergata il giorno stesso del suicidio, il 27 luglio.

È un patrimonio tramandatosi quasi intatto e che, ap ­parso dapprima in frammenti e attraverso edizioni parziali, fu ricomposto, nel centenario della nascita del pittore, nei quattro volumi preparati amorevolmente e scrupolosamente dalla cognata, la vedova del fratello Theo: Verzamelde Brieven van Vincent van Gogh, uitgegeven en toegelicht door zijn schoonzuster J. van Gogh-Bonger, Amsterdam-Anversa, Wereld-Bibliotheek, 1953 (seconda edizione riveduta e accre ­sciuta, 1956), che, in oltre milleseicento fittissime pagine, nu ­merano cronologicamente le lettere e ne danno i testi nelle loro lezioni originali – in olandese, in francese o in inglese -, accompagnandoli con la riproduzione di tutti gli schizzi che vi si contengono. Edizione imponente, che si arricchisce di alcune lettere scritte da Theo al fratello e ad altri, nonché da alcuni dei corrispondenti, di una biografia del pittore, di mano della cognata, e di numerose annotazioni e chiose a cura della stessa o di suo figlio, l’Ing. V. W. van Gogh.

Su di essa furono esemplate le altre edizioni (ove i testi sono tutti volti in una sola lingua), apparse rispettivamente negli Stati Uniti, in Italia e in Francia: The Complete Let ­ters of Vincent van Gogh with Reproductions of all Drawings in the Correspondence, tre volumi, Greenwich (Connecticut), New York Graphic Society, 1958 (1959), traduzione di C. de Dood; Tutte le lettere di Vincent van Gogh, tre volu ­mi, Milano, Silvana Editoriale d’Arte, 1959, traduzione di Marisa Donvito e Beatrice Casa vecchia; Correspondance complète de Vincent van Gogh enrichie de tous les dessins originaux, tre volumi, Parigi, Gallimard-Grasset, 1960, tra ­duzione di M. Beerblock e L. Roelandt, introduzione e note di Georges Charensol. In quest’ultima edizione, più ricca di sette pezzi inediti, le lettere (che nella olandese e nelle altre due appaiono per lo più raggruppate a seconda dei loro destinatari) sono state riunite in un’unica successione crono ­logica, non, del resto, agevolmente determinabile, poiché or ­dinariamente le lettere non recano indicazioni di date.

Così come risultano in tali edizioni (e specificamente in quella francese), le lettere scritte dal pittore, e sin qui perve ­nute, superano le ottocento: sarebbero, precisamente, 821. La massima parte è data da quelle indirizzate al fratelli. Theo, i cui contatti epistolari col pittore subirono una pausa solo durante gli anni parigini del 1886 e del 1887, che Vin ­cent e Theo trascorsero insieme: 668, sei delle quali rivolte insieme a lui e alla moglie, che sarà poi l’ordinatrice del ­l’epistolario; e di esse, 466 scritte in olandese, due in in ­glese â— dall’Aja, nel maggio 1882 -, e 200 in francese: sette da Cuesmes e Bruxelles dal luglio 1880 al gennaio 1881, e le restanti 193 durante l’intero periodo francese, dal giorno dell’arrivo a Parigi, il 28 febbraio 1886, a quello del colpo di rivoltella a Auvers. È la lettera a cui è stato assegnato il numero 652, poiché undici numeri sono saltati, ma ventuno sono ripetuti (con l’aggiunta, al numero, della sigla a) e sei sono ripetuti una seconda volta (sigla b ),

Oltre al corpus di quelle inviate al fratello, l’epistolario comprende, con numerazioni a parte e distinte da sigle, tre altri gruppi di lettere: 58 in olandese ad Anthon van Rappard (R1 – R58); 22 in francese a Émile Bernard (B1 – B21, nonché B19a) e 22 alla sorella Wilhelmina (W1 – W 23, ma la W 10 non è di mano del pittore; sei delle quali in olandese e 16 in francese); nonché, frammiste a quelle a Theo, e quindi con la loro stessa numerazione e aggiunta di sigle, cinquantuno altre: dodici alla madre; sei a Gauguin e altrettante alla famiglia Van Stockum-Haanebeek; quattro al padre e alla madre insieme, e altre quattro ai coniugi Ginoux; tre a John Russell; due ciascuno allo zio Cornelis, alla cognata Johanna, moglie di Theo, a A. H. Koning e ai Furnée padre e figlio; una ciascuno, infine, a Paul Signac, E. G. Bosch, J. J. Isaacson, Anton Kerssemakers, H. M. Levens, Octave Maus, Albert Aurier e al pastore Jones.

Poiché le lettere rispecchiano, con una lucidità senza prece ­denti e attraverso un’analisi, portata sin oltre i confini proustia ­ni, l’animo e il pensiero di chi le scriveva, e poiché durante l’ultimo suo decennio quella della pittura fu l’unica, accanita, maniaca idea di Van Gogh, è naturale che le considerazioni sulla pittura e i suoi artefici, nonché la cronaca dei propri di ­pinti e le riflessioni su di essi, ne occupino gran parte.

Il lettore ne troverà appena qualche campione qui e nel ­le pagine 125-30 (Parte seconda. bdm) del nostro successivo volume. Sono un pic ­colo esempio, se si consideri lo strabocchevole materiale aper ­toci dall’epistolario: ma sufficiente, forse, a introdurre â— e autenticamente-, quanto nessun esegeta potrebbe mai â— nel mondo, e nel sottomondo, di una pittura tutt’altro che istin ­tiva e spontanea, quale si presenta a un primo sguardo, e come la denuncerebbe la rapidità della sua esecuzione, ma costruita, invece, a pezzo a pezzo e a grado a grado, con una limpida consapevolezza degli intenti e dei mezzi per con ­seguirli, delle insufficienze di chi vi si applicava e dei loro trionfali superamenti.

Ogni brano è preceduto dal numero e dalla data della lettera da cui è tolto, nonché dai nome del destinatario, quando non si tratti di Theo van Gogh. I numeri inseriti nel testo tra parentesi quadre sono quelli dei dipinti ai quali si accenna, secondo l’ordinamento della pre ­sente catalogazione.

162. – L’Aja, dicembre 1881.

Ho parlato a Mauve in questi termini: “Che ne diresti se per un mese venissi a importunarti chiedendoti aiuto e consiglio? Sono sicuro che, dopo, sarò riuscito a vincere le prime miseriole del mestiere della pittura…”.

Bene, Mauve mi ha fatto sedere immediatamente da ­vanti a una natura morta dove troneggiava un paio di vec ­chi zoccoli in mezzo a vari altri oggetti, e così ho potuto met ­termi subito al lavoro.

228. – L’Aja, fine agosto 1882.

Ieri, verso sera, nei boschi, ero intento a dipingere un terreno leggermente digradante, coperto di foglie di faggio secche, quasi polverizzate. Il terreno era di un colore rosso bruno, in alcuni tratti più chiaro e più scuro in altri, e que ­ste sfumature erano maggiormente accentuate dalle ombre degli alberi che le striavano di strisce più o meno cupe, a volte nitide, a volte semisfocate. Il problema consisteva – e l’ho trovato molto difficile – nell’ottenere la giusta intensità di colore, nel rendere la forza, l’enorme compattezza, di quel terreno; e solo dipingendo mi sono accorto, per la prima volta, di quanta luce c’è ancora nel crepuscolo. Io dovevo cercare di conservarla, quella luce, rendendo al tempo stes ­so lo scintillìo e la profondità di tutta quella gamma di colori….

Ti descrivo la natura, e non saprei dire nemmeno io sino a che punto sono riuscito a coglierne un riflesso, nel mio schizzo; tuttavia, so perfettamente che sono stato colpito da quell’armonia di verde, di rosso, di nero, di giallo, di tur ­chino, di bruno e di grigio. …

Però, per dipingere questo, ho dovuto rompermi la schie ­na. Per il terreno sono stato costretto a consumare un tu ­betto e mezzo di bianco â— benché il terreno fosse molto scu ­ro – e, inoltre, del rosso, del giallo, dell’ocra scura, del nero, della terra di Siena, del bistro: e il risultato è un bruno ros ­sastro che va tuttavia dal bistro a un rosso vino cupo, e per ­fino al livido, al biondo e al rossastro. Inoltre c’è ancora il muschio del terreno e una striscia sottile di erba fresca che imprigiona la luce e scintilla radiosamente: era dìfficilissimo a rendersi. Ecco, comunque, un abbozzo, a proposito del quale posso affermare, checché se ne dica, che ha un certo valore e che esprime qualcosa.

Mi sono detto, mentre lo dipingevo: non mi muoverò di qui prima di essere riuscito a mettervi un riflesso dell’au ­tunno, qualcosa di misterioso, una certa sincerità. Ma poi ­ché l’effetto è di breve durata, ho dovuto lavorare in fretta e ho sùbito reso le figure con pochi colpi energici di pen ­nello. Avevo notato che i tronchi giovani erano solidamente radicati nel terreno, e ho incominciato a dipingerli con il pennello; ma poiché i tocchi si confondevano a mano a ma ­no con l’impasto del suolo, ho premuto allora direttamente il tubetto di colore sulla tela, per indicare le radici e i tron ­chi, e poi li ho rimodellati con l’aiuto del pennello.

Sì, eccoli piantati, ora, diritti nella terra: ne spuntano fuori, ma sono saldamente radicati a essa.

In un certo senso sono felice di non aver imparato a dipingere: forse avrei imparato a trascurare un effetto del genere. Adesso dico: no, ecco esattamente ciò che voglio; se questo non va, pazienza, non va; ma voglio cercare di dipingerlo i lo stesso, pur ignorando come superare l’osta ­colo. Non saprei dirti come me la cavo. Mi sono sistemato con un foglio bianco davanti al punto che colpisce la mia attenzione, guardo quello che ho dinanzi agli occhi, e mi dico: questo foglio bianco deve diventare qualcosa; torno a casa insoddisfatto, lo metto da parte, e quando mi sono un po’ riposato vado a guardarlo in preda a un’angoscia indefinibile. Sono sempre insoddisfatto, perché ho ancora troppo nitido nella mente il ricordo di quello stupendo an ­golo di natura per essere contento, ma questo non m’impe ­disce di ritrovare nella mia opera un’eco di ciò che mi ave ­va colpito, e mi accorgo che la natura mi ha detto qual ­cosa, mi ha parlato, e io ho trascritto in stenografia le sue parole. Benché alcune parole della mia stenografia siano in ­decifrabili, benché possano esservi errori o lacune, resta nondimeno qualcosa di ciò che la foresta, la spiaggia e le figure mi hanno detto; e non è il linguaggio addomesti ­cato, convenzionale, derivato da una maniera studiata o da un sistema, ma è ispirato dalla natura stessa. Ecco un altro scarabocchio delle dune. C’erano laggiù piccoli arbu ­sti le cui foglie, bianche da una parte e verde scuro dall’al ­tra, stormiscono e brillano continuamente. Nello sfondo, cupi boschi cedui.

Come vedi, consacro tutte le mie energie alla pittura e scavo il problema dei colori: finora me n’ero astenuto, e non lo rimpiango. Se non mi fossi dedicato al disegno, non sarei attratto da una figura che mi appare come una terra ­cotta incompiuta, e non ne sarei colpito. In questo mo ­mento ho l’impressione di trovarmi in alto mare: devo consacrare alla pittura tutte le forze di cui posso disporre. Se vorrò dipingere su tavola o su tela, ci saranno spese: tutto costa caro, anche i colori sono cari, e la mia riserva si esaurisce presto. Ma pazienza, sono le difficoltà nelle quali incorrono tutti i pittori, e perciò dobbiamo soppesare i no ­stri mezzi. So tuttavia con certezza di possedere il senso dei colori e che questo senso si svilupperà sempre più, perché io la pittura l’ho nel sangue. Non so dirti quanto ti sono grato del tuo aiuto così generoso e disinteressato. Ti penso spesso e faccio voti perché la mia opera diventi buona, inte ­ressante, virile, in modo che essa possa darti al più presto qualche soddisfazione.

229. – L’Aja, 9 settembre 1882.

Sento in me una tal forza creativa che sono sicuro verrà il giorno in cui sarò in grado di produrre regolarmente ogni giorno cose buone.

Passo di rado una giornata senza far niente, ma ciò che faccio non è ancora quello che vorrei.

Mi capita tuttavia di provare l’impressione che ben pre ­sto sarò in grado di creare opere remunerative, e non mi stu ­pirei se questo accadesse da un giorno all’altro.

In ogni caso, sento che la pittura ridesterà ancora, indi ­rettamente, qualcosa in me.

233. – L’Aja, autunno 1882.

Mi addolora tanto che i miei rapporti con i pittori siano così freddi e che, come ti ho già scritto prima, non ci si possa sedere amichevolmente tutti insieme intorno alla stufa, per esempio in una giornata piovosa come questa, per guar ­dare dei disegni o delle stampe, e incoraggiarci a vicenda.

Vorrei chiederti una cosa: sarebbe possibile trovare a poco prezzo, in commercio, alcune stampe di Daumier, e quali? Gli ho sempre riconosciuto un gran talento, ma solo da poco mi rendo conto che vale ancora di più di quanto credessi. Se sai dei particolari interessanti su di lui o se hai veduto qualcuno dei suoi disegni più importanti, ti sarei grato di dirmelo.

309. – L’Aja, primi di agosto 1883.

Recentemente, mentre dipingevo, ho sentito risvegliarsi in me una potenza del colore più forte e diversa da quella che avevo posseduto finora.

Può darsi che il nervosismo di questi giorni derivi da una specie di rivoluzione nei miei metodi di lavoro; avevo già tentato di ottenere questo cambiamento e vi avevo molto riflettuto. ,

Ho spesso cercato di evitare la secchezza, nelle mie ope ­re, ma finivo sempre con il ricadere nello stesso difetto, o pressappoco. Da qualche giorno una strana debolezza m’impedisce di lavorare come al solito, e si direbbe che questi mi serva, anziché impedirmi; quando, invece di studiare k articolazioni e di analizzare la struttura degli oggetti, ho 1 spirito più o meno disteso e guardo le cose attraverso le ci ­glia, mi sembra di vederle meglio, come macchie di colore in contrasto reciproco.

Sono curioso di conoscere l’evoluzione e la conclusione di questo fenomeno.

Mi è capitato di stupirmi di non essere maggiormente colorista, perché il mio temperamento mi porta a esserlo: finora, però, il mio senso dei colori non si è ancora svilup ­pato.

Ripeto, sono curioso di conoscerne la conclusione. In ogni caso, vedo chiaramente che i miei ultimi studi som diversi dagli altri. …

Vivo dunque come un ignorante, il quale sa con cer ­tezza una cosa sola: in pochi anni devo assolutamente ter ­minare un determinato lavoro. Non è necessario che mi af ­fretti tanto, perché non servirebbe a nulla: devo seguitare a lavorare con calma e serenità, il più regolarmente e ar ­dentemente possibile. Il mondo non m’interessa se non per il fatto che ho un debito verso di esso, e anche il dovere, date che mi ci sono aggirato per trent’anni, di lasciargli come segno di gratitudine alcuni ricordi sotto forma di disegni o di quadri, non eseguiti per compiacere a questa o a quella tendenza, ma per esprimere un sentimento umano sincero.

R 43. – Nuenen, aprile 1884.

Ad Anthon van Rappard.

Crede che io m’infischi della tecnica e che non cerchi di acquistarla? Oh, certo, se non ci riesco o lo faccio in modi poco soddisfacente, per dire ciò che voglio dire mi sforzi di perfezionarmi, ma non mi preoccupo affatto di usare un linguaggio simile a quello degli oratori (si ricorderà sicura ­mente di essere stato Lei a fare questo paragone: forse che l’oratore o gli ascoltatori ne trarrebbero molto vantaggio, se qualcuno, dovendo dire qualcosa di utile, di vero e di ne ­cessario, lo dicesse in termini poco comprensibili?) …

Ma ritorniamo ai pittori: lo scopo e il non plus ultra dell’arte consistono forse nelle curiose macchie di colore e nella fantasia del disegno che si chiamano “eleganza della tecnica”? Certamente no. Si pensi a un Corot, a un Daubigny, a un Dupré, a un Millet o a un Israëls, vale a dire a pittori che sono indiscutibilmente dei grandi precursori. Ebbene, il loro valore è al dilà della pittura, la loro opera e tutt’altra cosa da quello che vuole la gente chic. …

Ciò significa che bisogna sacrificare la tecnica, allo sco ­po di dire meglio, più esattamente, più nettamente e più sinceramente ciò che si ha da dire, e con il minor fracasso possibile di parole. …

In quanto a me, anche quando sarò più padrone del pennello di quanto lo sono attualmente, mi prefiggo di af ­fermare sistematicamente che non so dipingere. Mi capisce bene? Continuerò a dirlo anche quando avrò trovato un procedimento mio personale, più completo e più conciso di quello attuale. …

Il sentimento positivo che l’arte è una cosa più grandiosa e più sublime della nostra personale abilità, della nostra per ­sonale capacità e della nostra scienza personale … il senti ­mento positivo che l’arte è una cosa che, pur essendo fatta da mani umane, non è un prodotto soltanto manuale, bensì sgorga da una fonte più profonda della nostra anima … Sco ­pro nell’abilità e nella conoscenza tecnica, nei riguardi del ­l’arte, un aspetto che mi ricorda ciò che nella religione si definiva ‘indisciplina’. …

Gli studi di Corot sono stati per me una lezione, quando ho avuto l’occasione di vederli: già allora ero stato colpito dalla loro diversità da quelli di tanti altri paesaggisti.

371. – Nuenen, giugno 1884.

Da quello che mi hai detto dell’ ‘impressionismo’, ho ben compreso che è tutt’altro da ciò che credevo; ma che cosa si debba intendere con questa parola, non mi è ancora completamente chiaro. Per quello che mi concerne, trovo, per esempio in Israëls, tali e tante cose, che non ho curiosità o desiderio d’altro; voglio dire: di cose più nuove.

386. – Nuenen, novembre 1884.

Da quando sei venuto a trovarmi, è sopravvenuta nel mio colore una trasformazione di cui già avevo il presen ­timento durante la tua visita, e vedrai che, dopo un certo numero di studi che dovrebbero essere terminati fra un paio di mesi, i miei tentativi dimostreranno in modo innega ­bile che io qualcosa so, e proprio in fatto di colore. …

Non credo d’ingannarmi circa Tersteeg e Mauve, quan ­do oso affermare che vi sono buone speranze per interes ­sarli e convincerli. Bisogna convincerli con il colore, e, se mi darò da fare, vedo il mezzo di dimostrar loro in modo per ­suasivo che io possiedo il concetto e il sentimento del colore. E poi, i ritratti sono sempre più richiesti, e non ci sono molti che possano farne: tenterò d’imparare a dipingere una te ­sta conferendole carattere. Proprio in questi ultimi tempi mi sono appassionato a questo, perché il sentimento del co ­lore mi si afferma di continuo.

390. – Nuenen, dicembre 1884.

Il realismo, oggi lo si esige, se ne sente più che mai il bisogno: quel realismo che ha carattere e serietà. Voglio dirti che, per ciò che mi riguarda, cercherò di andare di ­ritto per la mia strada, dipingerò ciò che è assolutamente semplice e soprattutto le cose più comuni.

394. – Nuenen, febbraio 1885.

Sono sempre occupatissimo a dipingere teste. Dipingo tutta la giornata e la sera disegno. A questo modo ne ho già dipinte almeno una trentina e disegnate altrettante.

Con il risultato che adesso vedo la possibilità di poterlo fare ancora meglio, tra non molto.

Penso che, in genere, questo mi aiuterà a dipingere la figura. Oggi ne ho fatta una in bianco e nero su uno sfondo color carne.

Sono pure sempre occupato a far ricerche sul blu. Qui i contadini sono quasi sempre vestiti di blu. Il grano ma ­turo o lo sfondo delle foglie secche di un faggeta, che esal ­tano le sfumature sbiadite di turchino cupo e di azzurro chiaro, le fanno cantare grazie a questo contrasto con i toni dorati o il rosso bruno; e ciò è di un effetto bellissimo che mi aveva colpito sin dal principio. Qui la gente porta istin ­tivamente il turchino più bello ch’io abbia mai visto. È una tela grossolana, tessuta in casa, di cui l’ordito è nero e la trama blu, il che da un tessuto rigato nero e turchino. Quan ­do è un po’ sciupato, un po’ scolorito dal vento e dalla pioggia, assume una tonalità incredibilmente calma e de ­licata che mette in risalto il colore della pelle; insomma, blu quel tanto che basta per risaltare su tutti i colori, nei quali sono inclusi elementi arancione, e scolorito quel tan ­to che basta per non stridere.

Ma si tratta soltanto di una questione di colore, men ­tre, al punto in cui sono, ciò che per me soprattutto conta è la questione della forma. Credo che il modo migliore per esprimere la forma sia una coloritura quasi monocroma, i cui toni differiscano soltanto per intensità e valore: La fonte di Jules Breton, per esempio, è dipinta pressoché in un unico colore. Ma conviene studiare a parte ciascun colore in rapporto con la sua antitesi, prima di essere assoluta ­mente sicuri di ciò che si fa e di poter raggiungere l’armonia.

400. – Nuenen, aprile 1885.

A mio modo di vedere, Millet, come uomo, ha indicato ai pittori una strada che Israëls e Mauve, per esempio, i quali vivono in una discreta abbondanza, non indicano. Perciò lo ripeto: Millet è ‘papa Millet’, vale a dire il consi ­gliere, la guida dei giovani pittori in tutto. La maggior parte di quelli che conosco (ma non ne conosco molti) dovreb ­bero essergli grati di questo. Per ciò che mi concerne, la penso come lui e credo incondizionatamente a ciò che dice.

402. – Nuenen, aprile 1885.

C’è, credo, una scuola di impressionisti, ma non ne so gran che. Quello però che so benissimo è chi sono i pittori veri, originali, intorno ai quali i pittori di contadini e di paesaggi devono girare come intorno a un asse: Delacroix, Millet, Corot e gli altri. È una mia impressione personale, non esattamente formulata.

Voglio dire:   esistono (più che persone) regole, princìpi, verità fondamentali sia per il disegno che per il colore, cui bisogna evidentemente arrivare, se si scopre che hanno qual ­cosa di vero.

Per ciò che concerne il disegno, per esempio, esiste il problema di disegnare in tondo, vale a dire, per le figure, basando il disegno su piani ellittici. È quanto gli antichi greci sentivano già e che resterà vero sino alla fine dei tempi.

Ma per ciò che concerne il colore, esistono problemi eterni, per esempio quello che per primo Corot pose a Franí§ais, quando Franí§ois (il quale si era già fatto un nome) domandò a Corot (il quale invece non aveva ancora nessuna fama, se non negativa o decisamente cattiva), quando Franí§ais, ripeto, si recò da Corot per porgli alcune domande: “Ma che cos’è un tono spezzato? Che cos’è un tono neutro?”.

Il che si può meglio dimostrare su una tavolozza che formulare con parole. Ebbene, ciò di cui voglio convince ­re … è appunto la fede solida, sicura, che ho in Delacroix e negli antichi.

E che è pure vero, per esempio, che il quadro al quale sono inchiodato è tutt’altra cosa dell’illuminazione a mezzo di lampade di un Dou o di un van Schendel. Non è forse superfluo richiamare l’attenzione sul fatto che una delle più belle scoperte dei pittori di questo secolo è stata la pittura dell’ombra che è ancora colore.

404. – Nuenen, aprile-maggio 1885.

Ho voluto, lavorando, far capire che questa povera gen ­te che alla luce di una lampada mangia patate servendosi dal piatto con le mani, ha zappato essa stessa la terra dove quelle patate sono cresciute; il quadro, dunque, evoca il lavoro manuale e lascia intendere che quei conta ­dini hanno onestamente meritato di mangiare ciò che man ­giano.

Ho voluto che facesse pensare a un modo di vivere com ­pletamente diverso dal nostro, di noi esseri civili. Non vor ­rei assolutamente che tutti si limitassero a trovarlo bello o pregevole.

405. â— Nuenen, maggio 1885.

Per ciò che concerete le attuali pitture più chiare, ne ho vedute talmente poche, in questi ultimi anni.

Ma, per quanto riguarda il problema, ho ancora riflet ­tuto parecchio. Corot, Millet, Daubigny, Israëls, Dupré, altri ancora, dipingono anch’essi quadri chiari, vale a dire che ci si può vedere attraverso, in tutti gli angoli, a tutte le profondità, per quanto profonda sia la gamma dei colori. Eppure, tra quelli che ho testé nominato, non ve n’è nes ­suno che dipinga, alla lettera, il tono locale: seguono la gamma dalla quale hanno incominciato, seguono la loro idea come colore, come tono e come disegno. E che le loro luci, considerate a parte, siano quasi sempre dei grigi schietti, che per contrasto danno al quadro l’impressione di esser chiaro, è una verità che tu devi avere l’occasione di osser ­vare ogni giorno.

406. â— Nuenen, maggio 1885.

Trovo interessante quello che mi scrivi del Salon. Vedi che hai capito che cosa intendevo dire per colori spezzati. l’arancione spezzato dal blu e viceversa … . Vi sono anche altre combinazioni, ma quella dell’arancione sovrapposto al turchino è logica, così come il giallo al lillà; e lo stesso vale per il rosso al verde.

408.â— Nuenen, maggio 1885

In questi giorni, disegnando una mano e un braccio. ho messo in pratica il precetto di Delacroix: “Non par ­tire dalle linee di contorno, ma dal centro”. Questi soggetti offrono buone occasioni di prendere come punti di partenza delle ellissi. Ciò che cerco d’imparare così non è il disegnare una mano, ma un gesto; non una testa matematicamente esatta, bensì il profondo della sua espressione. Per esem ­pio, lo zappatore che annusa il vento quando alza un atti ­mo il capo o parla. Insomma, la vita.

409.- Nuenen, maggio 1885.

Che cosa ha detto Portier dei Mangiatori di patate? So benissimo che la tela ha dei difetti, ma, renden ­domi conto che le teste che dipingo adesso sono sempre più vigorose, oso affermare che I mangiatori di patate, assieme alle tele che dipingerò in avvenire, resteranno.

L’anno scorso i colori mi hanno spesso gettato nella di ­sperazione, ma ora lavoro con maggior sicurezza.

410. – Nuenen, 1 ° giugno 1885.

Mi capita a volte di morire dal desiderio di rivedere il Louvre e il Lussemburgo, e un giorno dovrò studiare la tecnica e il colore di Millet, di Delacroix, di Corot e di qualche altro.

Ma non è urgentissimo, mi sembra. Più lavoro, più que ­sto studio mi sarà vantaggioso, se un giorno potrò consacrarmici. Il fatto è che si ha bisogno sia della natura sia dei quadri. Rifletto tutti i giorni soprattutto sulla gamma. cromatica, sull’intensità e sul contrasto dei colori delle tele

418. – Nuenen, luglio 1885

Sono talmente nauseato da tutti i quadri esotici dipinti in studio! Ma andate un po’ a sedervi fuori! Dipingete sul posto! Vi capiteranno ogni sorta di avventure. Per esempio. sulle quattro tele che riceverai ho dovuto togliere almeno un centinaio di mosche, forse anche di più; senza contare la polvere, la sabbia eccetera, e senza contare inoltre che quando si sono portate delle intelaiature per due ore attra ­verso la brughiera e le siepi, passando, un ramo o qualcos’altro avrà graffiato la tela eccetera.

Senza contare che si rientra, dopo aver portato tutta. quella roba e dopo una camminata di un paio d’ore, stan ­chi, accaldati; che i modelli presi a caso non stanno fermi

come i modelli di professione, e che infine l’effetto cambia con il cambiare delle ore della giornata. …

Di’ a Serret che sarei disperato se le mie figure fossero buone; digli che non le voglio accademicamente esatte, di ­gli che intendo dire che, se si fotografasse un uomo che zappa la terra, è garantito che non zapperebbe. Digli che trovo splendide le figure di Michelangelo, anche se le gam ­be sono decisamente troppo lunghe e le anche e le cosce troppo larghe. Digli che a parer mio Millet e Lhermitte sono dei pittori veri per il fatto che non dipingono le cose quali sono, aridamente analizzate e scrutate, ma quali le sentono i Millet, i Lhermitte e i Michelangelo. Digli che la mia grande aspirazione è d’imparare a dipingere tali ine ­sattezze, tali anomalie, tali alterazioni, tali trasmutazioni della realtà, che ne escano, perché no, delle menzogne, se vogliamo, ma più vere della verità letterale. …

Dipingere il personaggio contadino in azione: ecco, lo ripeto, ciò che è essenzialmente moderno, il nocciolo stesso dell’arte moderna, una cosa che non hanno fatto né i greci, né il Rinascimento, né la vecchia scuola olandese. Ecco la cosa alla quale penso tutti i giorni.

Questa differenza fra i grandi e i piccoli maestri di oggi (i grandi: per esempio Millet, Lhermitte, Breton, Herkomer; i piccoli: per esempio Raffaëlli e Régamey) e le vec ­chie scuole, devo dire che non l’ho trovata spesso vera ­mente e apertamente espressa negli articoli sulle belle arti.

Pensaci un po’ e dimmi se non ti pare che ho ragione.

Il personaggio del contadino e dell’operaio, lo si è in ­cominciato a dipingere come un ‘genere’; ma oggi, con Millet per maestro eterno, è al centro stesso dell’arte mo ­derna, e vi resterà.

Individui come Daumier bisogna venerarli, perché so ­no tra i pionieri.

R 55. – Nuenen, agosto 1885.

Ad Anthon van   Rappard.

Credo nondimeno che, anche se seguito a produrre ope ­re nelle quali si potranno ritrovare difetti, volendole con ­siderare con occhio critico, esse avranno una vita propria e una ragion d’essere che supereranno i loro difetti, per coloro soprattutto che sapranno apprezzarne il carattere e lo spirito. Non mi lascerò facilmente incantare, come si crede, nonostante tutti i miei errori. So perfettamente qua ­le scopo perseguo; e sono fermamente convinto di essere, nonostante tutto, sulla buona strada, quando voglio dipin ­gere ciò che sento e sento ciò che dipingo, per preoccu ­parmi di quello che gli altri dicono di me.

Tuttavia, a volte questo mi avvelena la vita, e credo che molto probabilmente più d’uno rimpiangerà un giorno quello che ha detto di me e di avermi ricoperto di ostilità e d’indifferenza. Io paro i colpi isolandomi, al punto che non vedo letteralmente più nessuno.

426. – Nuenen, ottobre 1885.

Questa settimana sono andato ad Amsterdam e quasi quasi ho avuto soltanto il tempo per vedere il Museo e nient’altro. …

Non so se ricordi che a sinistra della Ronda di notte. di riscontro dunque ai Sindaci dei drappieri, c’è un quadro (fino ad oggi mi era sconosciuto) di Frans Hals e P. Codde [La magra Compagnia]: una ventina di ufficiali in piedi. Ci hai fatto caso? Ebbene, per quel solo quadro (specie per un colorista) vale la pena che si faccia il viaggio appo ­sta ad Amsterdam. C’è un personaggio, quello del porta ­bandiera, nell’angolo tutto a sinistra, contro la cornice, una figura che, dalla testa ai piedi, è dipinta con un grigio, chia ­miamolo grigio perla, di un tono neutro caratteristico, otte ­nuto apparentemente mescolando dell’arancione e del tur ­chino in modo che questi due colori si neutralizzino reci ­procamente; facendo variare questo tono fondamentale, fa ­cendolo qui un poco più chiaro là un poco più scuro, tutto il personaggio da l’impressione di essere dipinto con un solo grigio: nondimeno, le calzature di cuoio sono di un materiale ben diverso da quello delle uose, delle pieghe dei calzoni, del giustacuore; tutto ciò è in colori diversi, ep ­pure tutto è fatto con dei grigi che appartengono a un’uni ­ca famiglia.

Stammi bene a sentire. In questo grigio egli si prepara ora a mettere del turchino e dell’arancione, e un po’ di bianco; il giustacuore ha dei nodi di nastro di raso di un azzurro delicato divinamente dolce; la sciarpa e la ban ­diera sono arancione, il colletto bianco.

Arancione, bianco, turchino, come i colori nazionali di allora, l’arancione e il turchino a fianco a fianco, combina ­zione stupenda, su un fondo grigio; i due colori, sapiente ­mente mescolati, li chiamerò dei poli di elettricità (sem ­pre in materia di colore), ravvicinati in modo che si di ­struggano a vicenda accanto a quel grigio e a quel bianco. Altrove, nel quadro, altre combinazioni di arancione accan ­to a un altro bianco; ancora altrove, dei neri meravigliosi accanto a dei bianchi squisiti. Le teste, sono una ventina, sprizzanti vita e spirito, e fatte con un sol colore ! Le forme superbe di tutti quei personaggi in piedi!

Ma il pezzo d’uomo arancione, bianco e turchino, nel ­l’angolo sinistro del quadro: raramente ho veduto un per ­sonaggio più divinamente bello. È unico.

Delacroix ne sarebbe impazzito; io sono rimasto lette ­ralmente inchiodato sul posto. …

Il quadro dei Sindaci è perfetto, è il più bel Rembrandt; ma La sposa ebrea (calcolata di minor valore), che quadro intimo, di dolcezza infinita, dipinto con una mano di fuo ­co! Vedi, Rembrandt, nei Sindaci, è fedele alla natura, benché anche in questo caso, e sempre del resto, si elevi sovrano alle massime altezze, all’infinito. Nondimeno, era anche capace di altro, quando non provava il bisogno di essere letteralmente fedele alla natura come in un ritratto, quando era libero di ‘idealizzare’, di essere poeta, cioè crea ­tore. Ed è questo che egli è nella Sposa ebrea.

429. – Nuenen, ottobre 1885.

In questo preciso momento la mia tavolozza è in fase di disgelo, la sterilità degli inizi è finita.

Mi capita ancora, e spesso, di cozzare la testa contro i muri quando incomincio qualcosa, ma i colori seguono quasi da se stessi; e prendendo un colore come punto di partenza, ciò che ne deriva, e come mettervi vita, mi si presenta chia ­ramente allo spirito. …

I veri pittori sono quelli che non fanno il colore locale: è quanto dicevano un giorno Blanc e Delacroix.

Da questo non posso forse chiaramente dedurre che un pittore fa bene se parte dai colori che sono sulla sua tavo ­lozza, invece di partire da quelli della natura?

Voglio dire che quando, per esempio, si deve dipingere una testa e si guarda attentamente la natura che si ha da ­vanti, si ha il diritto di pensare: questa testa è un’armonia in rosso bruno, violetto, giallo, ma tutto è spezzato. Io metto dunque sulla mia tavolozza un violetto, un giallo e un rosso bruno, e li spezzo gli uni con gli altri. Della na ­tura conservo una certa sequenza, una certa esattezza per quanto concerne il posto dei colori, e la studio per non commettere sciocchezze, per restare ragionevole; ma che il mio colore sia alla lettera esattamente fedele, questo con ­ta meno per me, purché sulla mia tela appaia bello come nella vita. …

Supponiamo che io debba dipingere un paesaggio au ­tunnale, degli alberi con foglie gialle. Bene. Che differenza fa se lo concepisco come una sinfonia in giallo, e che il mio giallo fondamentale sia o no il giallo delle foglie? Ciò ag ­giunge o toglie ben poco: molto dipende, e direi anzi che tutto dipende, dal sentimento che provo dell’infinita va ­rietà di toni di un’unica famiglia.

Secondo te questa è una pericolosa inclinazione verso il romanticismo, un tradimento nei confronti del ‘realismo’; ti sembra che sia ‘dipingere chic’ il provare più amore per la tavolozza del colorista che per la natura? Ebbene, sia! Delacroix, Millet, Corot, Dupré, Daubigny, Breton e altri trenta non rappresentano forse il cuore e l’anima di questo secolo in fatto di arte pittorica? Tutti costoro non hanno forse le loro radici nel romanticismo, anche se lo hanno tra ­sceso? Il romanzo e il romanticismo rappresentano tutta la nostra epoca: il pittore deve avere immaginazione e sen ­sibilità.

439. â— Anversa, dicembre 1885.

Ho voluto scriverti di nuovo per dirti che ho seguitato a lavorare con il modello. Ho fatto, a titolo di esperimento, due teste piuttosto grandi, come ritratti. Anzitutto il vec ­chio di cui ti ho già parlato e che ha una testa sul tipo di quella di Victor Hugo, e poi anche uno studio femminile.

Per il ritratto di donna, ho usato nella carne toni pii. chiari, un bianco tinteggiato di carminio, di vermiglio, d. giallo, e ho messo un fondo chiaro di giallo grigio, dal qua ­le il volto è separato soltanto dalla capigliatura nera. Nelle vesti, dei toni lillà.

Rubens esercita su di me un’impressione fortissima. Tro ­vo i suoi disegni strepitosi: alludo ai disegni di teste e di mani.

Per esempio, sono completamente incantato dal suo mo ­do di disegnare un volto a colpi di pennello, con tratti di un rosso puro; o, nelle mani, di modellare le dita con tratti analoghi, con il pennello.

Vado ancora qualche volta al Museo e guardo ben poco d’altro all’infuori delle teste e delle mani di Rubens e di Jordaens. So benissimo che Rubens non raggiunge l’in ­timità di un Hals o di un Rembrandt; ma tutto ciò che fa vive, e le sue teste vivono di vita propria. Forse trascuro di guardare quelle più universalmente ammirate. Io cereo piuttosto i particolari come, per esempio, le teste bionde della Santa Teresa al Purgatorio.

Proprio a causa di Rubens, sono alla ricerca di un mo ­dello biondo. …

Quello che tanto ammiro in Delacroix è che ci fa sen ­tire la vita delle cose, l’espressione, il movimento, al punto che ci si trova di colpo al difuori del piano del colore, non si tiene più conto del colore.

444. – Anversa, gennaio 1886.

Nelle sue espressioni, specie degli uomini (e sempre eccezion fatta per i ritratti propriamente detti …), Rubens è superficiale, vuoto, ampolloso, e in conclusione convenzionale come un Giulio Romano o, peggio, ancora, come i pit ­tori della decadenza.

Nonostante questo, mi entusiasma, proprio perché è il pittore che   cerca di esprimere l’allegrezza, la serenità,     i! dolore,   e rappresenta questi sentimenti in modo veritieri grazie alle sue combinazioni di colore, anche se i suoi per ­sonaggi sono talvolta vuoti eccetera. …

È estremamente interessante studiare Rubens, propri perché è tanto semplice nella sua tecnica, tanto stupenda ­mente semplice, o meglio sembra esserlo, dipingendo e so ­prattutto disegnando con così poco, con mano così veloce e senza alcuna esitazione. Il ritratto, le teste femminili, i personaggi, ecco il suo forte, è in questo che è profondo e intimo. …

Se l’impressionismo ha già detto la sua ultima parola (per     conservare   questo     termine     ‘impressionismo’),     seguito a pensare che, appunto nel modo di dipingere il personag ­gio, si può ancora fare molto di nuovo; e mi auguro sempre più che, in tempi difficili come quelli attuali, si cerchi la propria salvezza in una penetrazione più profonda dell’arte, nella sua accezione più alta. Esiste infatti nell’arte un campo relativamente alto o relativamente basso: l’uomo è più in ­teressante del resto, e anche, oltre a tutto, molto più diffi ­cile a dipingersi.

445. – Anversa, gennaio 1886.

Sono già due sere che disegno laggiù [all’Accademia], e devo dire che credo come proprio per fare, ad esempio, delle figure di contadini, sia utilissimo disegnare dall’antico; a patto, per l’amor del ciclo, che questo non avvenga come si fa di solito. I disegni che vedo fare, li trovo decisamente brutti, fatti tutti di traverso. E so che i miei sono tutt’altra cosa. Chi ha ragione? Lo dirà l’avvenire. Il sentimento di quello che è una statua antica, non ce l’ha nessuno di loro, perdio!

Io, che da tanti anni non vedo un buon calco dall’an ­tico (e quelli che ci sono qui sono bellissimi); io, che du ­rante questi anni ho sempre avuto davanti agli occhi il modello vivo, rimango stupefatto, ora che li rivedo con calma, di fronte alla scienza onnipossente, alla precisione di sentimento degli antichi.

Insomma, bisogna nondimeno prevedere che i signori dell’Accademia mi accuseranno di eresia; ma me ne in ­fischio.

447. – Anversa, gennaio 1886.

È strano osservare, quando paragono i miei studi con quelli degli altri, che tra i miei e i loro non c’è quasi nulla in comune.

I loro hanno pressappoco un color carne; di conseguen ­za, visti da vicino, sembrano precisissimi, ma, se si guar ­dano a distanza, producono un’impressione penosa e sem ­brano scipiti: tutto quel rosa, quel giallo delicato eccetera, gradevoli in sé, producono un effetto fastidioso. Quello che io faccio sembra rosso verdastro, se lo si guarda da vicino: grigio giallastro, bianco, nero, molte sfumature neutre, molti colori che sarebbe impossibile definire. Ma quando ci si sposta un poco, questi colori non si distinguono più, si di ­stingue allora lo spazio e come una luce vibrante. E, inol ­tre, anche la più infima particella di colore di cui ci si è serviti per raggelarla si mette a parlare.

Ma quello che mi manca è la pratica; dovrò dipin ­gerne una cinquantina, e allora credo che avrò raggiunto qualcosa di più o meno valido. Adesso ho ancora molta difficoltà a stendere i colori perché non ho ancora abba ­stanza esperienza; mi tocca cercare troppo, fare cioè molti sforzi mutili. Si tratta di dipingere per un po’ senza per ­dersi di coraggio; a mano a mano che conoscerò meglio il mestiere, le mie pennellate diventeranno sempre più pre ­cise al primo colpo. …

Qui trovo il cozzo di idee che cerco, vedo le mie opere con sguardo più chiaro, scorgo meglio i punti deboli, sono in grado di correggerli, e ottengo così dei progressi.

459 a.     â—     Parigi,     estate-autunno 1886.

Al pittore H. M. Levens.

Qui ci sono molte cose da vedere; per esempio Delacroix, per citare un solo maestro. Ad Anversa non sapevo neppure che cosa fossero gli impressionisti; adesso li ho ve ­duti, e pur non facendo ancora parte del loro clan ho molto ammirato alcuni dei loro quadri: un nudo di Degas, un paesaggio di Claude Monet.

E adesso una parola circa quello che ho fatto io. Mi è mancato il denaro per pagare dei modelli, altrimenti mi sarei completamente dedicato a dipingere la figura. Ho di ­pinto però una serie di studi di colore, semplicemente dei fiori, papaveri rossi, fiordalisi, miosotis, rose bianche e rosa, crisantemi gialli, cercando contrasti di blu con arancione, di rosso con verde, di giallo con violetto, cercando toni spez ­zati e neutri per armonizzare la brutalità degli estremi, ten ­tando di rendere colori intensi e non un’armonia in grigio.

Dopo questi studi, ho fatto recentemente due teste che, oso dirlo, sono migliori, come luce e come colore, di quelle che avevo fatto prima.

Insomma, come dicevamo una volta, “nel colore cer ­cando la vita”. Il vero disegno consiste nel modellare con il colore.

Ho fatto anche una dozzina di paesaggi decisamente ver ­di o decisamente blu.

A questo modo lotto per vivere e per fare dei progressi nell’arte. …

Da quando ho veduto gli impressionisti, Le assicuro che né il Suo colore, né il mio, nella nostra interpretazione, sono esattamente uguali alle loro teorie.

W1. – Parigi, estate-autunno   1887.

Alla sorella Wilhelmina.

Esercito un mestiere che è sporco e difficile: la pittura. Se non fossi quello che sono, non dipingerei; ma, essendo quello che sono, lavoro spesso con gioia, e intravvedo la possibilità di fare un giorno dei quadri dove ci sarà un po’ di freschezza, di gioventù, essendo la gioventù una delle cose che ho perduto.

Se non avessi Theo, mi sarebbe impossibile raggiungere con il mio lavoro ciò che voglio; ma, avendo Theo per amico, credo che farò ancora dei progressi, che riuscirò ad affermarmi.

Il mio progetto è di andare, non appena lo potrò, a tra ­scorrere un po’ di tempo nel Mezzogiorno, dove c’è più colore, più sole.

Ma ciò cui soprattutto spero di arrivare, è di dipingere un buon ritratto. Finalmente. …

Quello che penso del mio lavoro è che le scene di con ­tadini che mangiano patate, che dipingevo quando ero a Nuenen, sono ancora, dopotutto, il meglio che ho fatto. In seguito, mi è mancata disgraziatamente l’occasione di trovare dei modelli; viceversa, ho avuto la possi ­bilità di approfondire il problema del colore. Più tardi, quan ­do ritroverò dei modelli per le figure, spero di far vedere che quello che cerco è ancora diverso dal dipingere fiori o paesaggi verdeggianti. L’anno scorso ho dipinto quasi esclu ­sivamente fiori, per abituarmi a servirmi di colori che non fossero soltanto il grigio: vale a dire a usare il rosa, il ver ­de, pallido o crudo, l’azzurro, il violetto, il giallo, l’aran ­cione, un bel rosso.

Quest’estate, mentre dipingevo alcuni paesaggi ad Asnières, ho visto più colore di prima. Adesso cerco di fare dei ritratti. E devo dire che non per ciò dipingo peggio; forse perché potrei dirti molto male sia dei pittori sia dei loro quadri, con la stessa facilità con cui potrei dirtene bene.

W 3. – Arles, aprile   1888.

Alla     sorella     Wilhelmina.

La natura di questo paesaggio meridionale non può es ­sere resa precisamente con la tavolozza di un Mauve, per esempio, che appartiene al Nord e che è un maestro e ri ­mane un maestro del grigio. La tavolozza di oggi è assolu ­tamente colorata: celeste, arancione, rosa, vermiglio, giallo vivissimo, verde chiaro, il rosso trasparente del vino, violetto.

Ma, pur giocando con tutti questi colori, si finisce con il creare la calma, l’armonia. E si ottiene qualcosa di ana ­logo a ciò che accade per la musica di Wagner la quale, anche se eseguita da una grande orchestra, non resta per questo meno intima. Solo, si scelgono di preferenza effetti di sole, effetti di colore, e nulla impedisce di pensare, a volte, che in futuro molti pittori andranno a lavorare nei paesi tropicali. Puoi farti un’idea dell’evoluzione che sta accadendo nella pittura pensando, per esempio, alle stampe colorate dei giapponesi che si vedono dappertutto, paesaggi e figure. Theo e io, di queste stampe, ne possediamo cen ­tinaia.

B 3.   – Arles,   aprile     1888.

Al pittore Émile Bernard.

Attualmente sono preso dagli alberi da frutto in fiore: peschi rosa, peri bianco-gialli. Non seguo alcun sistema di pennellatura: picchio sulla tela a colpi irregolari che lascio tali e quali.

Impasti, pezzi di tela lasciati qua e là scoperti, angoli totalmente incompiuti, ripensamenti, brutalità: insomma, il risultato è, sono portato a crederlo, piuttosto inquietante e irritante, affinché non faccia la felicità delle persone con idee preconcette in fatto di tecnica. …

Pur lavorando sempre direttamente sul posto, cerco di cogliere nel disegno ciò che è essenziale; poi gli spazi, limi ­tati da contorni espressi o no, ma in ogni caso sentiti, li riempio di toni ugualmente semplificati, nel senso che tutto ciò che sarà suolo parteciperà di un unico tono violaceo, che tutto il ciclo avrà una tonalità azzurra, che le verzure saranno o dei verdi   blu o   dei verdi gialli,   esagerando   di proposito, in questo caso, le qualità gialle o blu.

Insomma, mio caro amico, in ogni caso niente ‘trompe-l’oeil’.

476. – Arles, aprile 1888.

Tutti i colori che l’impressionismo ha messo di moda sono cangianti: ragione di più per impiegarli arditamente crudi; il tempo penserà anche troppo ad addolcirli.

Perciò tutta l’ordinazione che ho fatto, cioè i tre cromi (l’arancione, il giallo, il limone), il blu di Prussia, lo sme ­raldo, le lacche rosso robbia, il verde Veronese, la grafite arancione, tutto questo non si trova certo sulla tavolozza olandese di Maris, Mauve e Israëls.

Si trovava soltanto sulla tavolozza di Delacroix, che aveva la mania dei due colori maggiormente condannati, e per giusti motivi: il limone e il blu di Prussia. Eppure, mi pare che con i blu e i gialli limone abbia fatto cose splen ­dide.

477 a. – Arles, aprile 1888.

Al pittore John Russell.

Considerando il semplice scenario che ispirò Monticelli, sostengo che questo artista ha diritto a un pubblico, benché sia stato apprezzato troppo tardi. È innegabile che Monti-celli non ci da, né pretende del resto darci, un colore lo ­cale, e neppure una verità locale. Ci da però qualcosa di appassionato e di eterno: un colore opulento, la ricchezza del sole del glorioso Mezzogiorno, seconda la maniera di un vero colorista, paragonabile alla concezione del Mezzo ­giorno quale è in Delacroix; un Mezzogiorno rappresen ­tato da un contrasto simultaneo di colori, dei loro derivati, delle loro armonie, e non da forme o da tratteggi aventi il proprio valore in sé, come hanno fatto in passato con la sola forma gli antichi quali i greci e Michelangelo, oppure con il solo disegno quelli quali Raffaello, Mantegna e i primitivi veneziani: Botticelli, Cimabue, Giotto, Bellini.

Il contrario di ciò che hanno intrapreso il Veronese e Tiziano: il colore. Bisognerebbe proseguire l’opera primi ­tiva di Velázquez e Goya; e più pienamente di essi, o me ­glio più universalmente, grazie alla conoscenza più uni ­versale che noi abbiamo dei colori dello spettro solare e delle loro proprietà.

482. – Arles, 5 maggio 1888.

In quanto a me, lavorerò, e qui o là qualcosa del mio lavoro resterà; ma quello che è Claude Monet nel paesaggio. chi lo farà nella figura dipinta? Eppure tu devi sentire co ­me me che è nell’aria. Rodin? Lui non fa il colore, non può essere lui. Il pittore dell’avvenire sarà un colorista come ancora non ve ne sono stati. Manet gli ha aperto la strada, ma tu sai bene che gli impressionisti hanno già fatto del colore più forte di quello di Manet. Questo pittore dell’av ­venire, non so figurarmelo a vivere in piccoli ristoranti, a lavorare con parecchi denti finti, e a frequentare come me i postriboli degli zuavi.

489. – Arles, maggio 1888.

Se crediamo alla nuova arte, agli artisti dell’avvenire, questo presentimento non c’inganna.

Quando il buon papà Corot diceva, qualche giorno prima di morire: “Stanotte ho veduto in sogno dei pae ­saggi con cicli tutti rosa”, ebbene, non sono forse venuti, nel paesaggio impressionistico, questi cicli rosa, e gialli e verdi per soprammercato ? Ciò per dire che vi sono cose che si sentono nel futuro e che si avverano realmente. …

C’è un’arte, nell’avvenire; e dev’essere così bella, così .giovane, che se adesso è vero che noi vi lasciamo la nostra giovinezza, non possiamo che guadagnarne in serenità.

B6. – Arles, giugno 1888.

Al pittore Émile Bernard.

In un’altra categoria di idee, quando si compone un motivo di colori che esprimono per esempio un ciclo giallo di sera e il bianco crudo e duro di un muro bianco contro di esso, a rigore lo si esprime, e in modo strano, con il bian ­co crudo attenuato con un tono neutro, poiché il cielo stesso lo colora di un delicato tono lillà. Ancora:   in questo paesaggio così ingenuo,   che dovrebbe rappresentarci una ca ­panna tutta imbiancata a calce (compreso il tetto) posta su un terreno logicamente arancione, il cielo del Mezzogiorno e il Mediterraneo azzurro provocano un arancione tanto più intenso quanto più violenta di tono è la scala dei blu; la nota nera della porta, dei vetri, della piccola croce sul colmo del tetto     fa sì che vi sia un contrasto simultaneo di bianco e di nero gradevole all’occhio quanto quello del blu con l’arancione. Per prendere un motivo più divertente, immaginiamo una donna vestita di un abito a quadri bianchi e neri nello stesso paesaggio primitivo di un ciclo turchino e di una terra arancione: sarebbe piuttosto buffo, immagino.
Proprio ad Arles si portano spesso scacchi bianchi e neri.

Basta che il bianco e il nero siano anch’essi dei colori; e in molti casi possono essere considerati come tali, in quanto il loro contrasto simultaneo è originale come quello del verde e del rosso, per esempio.

500. – Arles, giugno 1888.

Adesso che ho visto il mare, qui, capisco tutta l’impor ­tanza di restare nel Mezzogiorno e di sentire che bisogna rendere il colore ancora più violento, con l’Africa così vi ­cina. …

Vorrei che tu passassi un po’ di tempo qui; avvertiresti dopo poco che la visione cambia, si vede con occhio più giapponese, si sente diversamente il colore.

Perciò sono convinto che, dopo un lungo soggiorno qui, libererò la mia personalità.

Il giapponese disegna in fretta, molto in fretta, come un lampo, perché i suoi nervi sono più affinati e il suo sen ­timento è più semplice.

Io sono qui da appena qualche mese, ma vediamo un po’ se a Parigi avrei eseguito in una sola ora il disegno delle barche !

W 4. – Arles, giugno 1888.

Alla sorella Wilhelmina.

Questa ventina di pittori che chiamano impressionisti, benché qualcuno di loro sia diventato discretamente ricco e sia piuttosto bene accolto in società, sono per la maggior parte soltanto poveri diavoli che vivono al caffè, alloggiano in stamberghe da pochi soldi, campano alla giornata.

Ciò non toglie che, in una giornata, i venti pittori di cui ti parlo dipingano tutto ciò che gli capita sotto gli occhi meglio di tanti signori del mondo artistico con un gran nome e una gran fama.

Dico questo per farti capire quale legame mi unisca ai pittori francesi che chiamano impressionisti, per dirti che ne conosco personalmente molti e che li amo.

E anche che, nella mia tecnica personale, ho le stesse idee circa i colori, e che già in passato, in Olanda, pensavo come loro.

Dei fiordalisi con dei crisantemi bianchi e qualche calen ­dola, motivo in turchino e arancione; eliotropi e rose gialle, motivo in lillà e giallo; papaveri o gerani rossi in un fo ­gliame di un verde compatto, motivo in rosso e verde: sono basi che si possono ancora suddividere, che si possono per ­fezionare e completare, ma ciò basta per farti vedere, pur senza quadri, che esistono colori che si fanno valere, che si sposano, che si completano come l’uomo e la donna.

Svilupparti tutta la teoria esigerebbe un lungo scritto, ma sarebbe una cosa da farsi.

57. – Arles, giugno 1888.

Al pittore Émile Bernard.

Continuo a rimproverarmi di non avere ancora fatto delle figure, qui.

Ecco ancora un paesaggio: sole calante? sor ­gere di luna? Sole estivo, in ogni caso.

Città violetta, astro giallo, ciclo verde blu. Il grano ha tutti i toni dell’oro vecchio, del rame, dell’oro verde o ros ­so, dell’oro giallo, del giallo bronzo, del rosso verde. … L’ho dipinto in pieno mistral, avevo fissato a terra il cavalletto con paletti di ferro, sistema che ti consiglio. Si conficcano nel terreno i piedi del cavalletto, poi, accanto, si conficca un paletto di ferro lungo cinquanta centimetri, e si lega tutto con delle corde. È possibile così lavorare anche con il vento.

Ecco ciò che ho inteso dire per bianco e nero. Prendia ­mo Il seminatore. Il quadro è tagliato in due, una metà è gialla, l’alto; il basso è violetto. Ebbene, il calzone bianco riposa l’occhio e lo distrae nel momento in cui lo ir ­riterebbe il contrasto simultaneo eccessivo tra giallo e viola.

PARTE SECONDA

504. – Arles, luglio 1888.

Devo prevenirti che tutti troveranno che io lavoro trop ­po in fretta.

Non ci credere affatto.

Non è forse l’emozione, la sincerità del sentimento del ­la natura che ci guida? E se queste emozioni sono talvolta così forti che si lavora senza accorgersi che si lavora, quan ­do a volte le pennellate vengono con un seguito e dei rap ­porti fra loro come le parole in un discorso o in una lettera, bisogna allora ricordarsi che non è sempre stato così e che nell’avvenire ci saranno pure, purtroppo, giorni grevi, sen ­za ispirazione.

Bisogna perciò battere il ferro mentre è caldo e mettere da parte le sbarre fucinate.

511. -Arles, luglio 1888.

L’arte giapponese è qualcosa come i primitivi, come i greci, come i nostri vecchi olandesi, Rembrandt, Potter, Hals, Vermeer, Ostade, Ruysdaël e infiniti altri.

B12. – Arles, luglio   1888.

Al pittore Émile Bernard.

Conosci un pittore di nome Vermeer, il quale, per esem ­pio, ha dipinto una bellissima dama olandese incinta [Don ­na in blu, del Rijksmuseum]? La tavolozza di questo stra ­no pittore è: blu, giallo limone, grigio perla, nero, bianco. Certo, nei suoi rari quadri vi sono, a rigore, tutte le ric ­chezze di una tavolozza completa; ma la disposizione giallo limone, azzurro pallido, grigio perla è in lui caratteristica come lo sono per Velázquez il nero, il bianco, il grigio, il rosa. …

Rembrandt e gli olandesi non avevano alcuna immagi ­nazione o fantasia, ma un gusto enorme e la scienza della composizione….

Rembrandt ha dipinto degli angeli. Fa un ritratto di sé [San Matteo e l’angelo, del Louvre], vecchio, sdentato, grin ­zoso, il capo coperto da un berretto di cotone, quadro secondo natura, in uno specchio. Sogna, sogna, e il suo pen ­nello ricomincia il suo ritratto, ma di testa, e l’espressione ne diventa più straziata e più straziante. Sogna, sogna ancora, e perché e come non so, ma allo stesso modo che Socrate e Maometto avevano un genio familiare, Rembrandt, dietro quel vecchio che ha una rassomiglianza con lui, di ­pinge un angelo soprannaturale dal sorriso alla Vinci.

Ti ho indicato un pittore che sogna e che dipinge di fantasia, e incominciavo con il sostenere che la caratteri ­stica degli olandesi è che non inventano nulla, che non hanno né immaginazione né fantasia.

Sono illogico? No.

Rembrandt non ha inventato niente, e quell’angelo e quel Cristo misterioso, è che lui li conosceva, li sentiva là.

Delacroix dipinge un Cristo con l’inatteso di una nota limone chiaro: e quella nota colorata e luminosa è nel quadro ciò che è la misteriosità ineffabile e il fascino di una stella in un angolo di firmamento; Rembrandt lavora con i valori allo stesso modo che Delacroix con i colori.

Ora, corre una grande distanza fra il procedimento di Delacroix e Rembrandt e quello di tutto il resto della pit ­tura religiosa.

520. – Arles, agosto 1888.

Trovo che ciò che ho appreso a Parigi se ne va, e ch’io ritorno alle idee che mi erano venute in campagna, prima di conoscere gli impressionisti.

Non mi stupirei se fra poco gli impressionisti trovassero a ridire sul mio modo di lavorare che, più che dalle loro idee, è stato fecondato da quelle di Delacroix.

Infatti, anziché cercar di rendere con esattezza ciò che ho sotto gli occhi, mi servo del colore nel modo più arbitra ­rio, per esprimermi con maggior forza.

Ma lasciamo tutto questo da parte, in quanto a teoria: e ti darò un esempio di ciò che intendo dire.

Vorrei fare il ritratto di un amico artista, che sogna so ­gni grandiosi, che lavora come l’usignolo canta, perché così è la sua natura. È biondo; e io vorrei mettere nel quadro l’ammirazione, l’affetto che sento per lui.

Lo dipingerò dunque tale e quale, il più fedelmente possibile, per incominciare. Ma così il quadro non è finito: per finirlo dovrò diventare, adesso, un colorista arbitrario.

Esagero il biondo della capigliatura, e arrivo ai toni arancione, ai cromi, al limone pallido.

Dietro la testa, anziché dipingere il muro banale del misero appartamento, dipingo l’infinito, faccio uno sfondo

semplice del turchino più intenso, più violento che posso fabbricare, e con questa semplice combinazione la testa bionda illuminata sullo sfondo turchino cupo ottiene un ef ­fetto misterioso, come una stella nel profondo azzurro.

522. – Arles, agosto 1888.

Adesso abbiamo qui un calore stupendo, intensissimo, senza vento, che fa proprio al caso mio. Un sole, una luce che in mancanza di meglio non posso che chiamare gial ­la, gialla zolfo pallido, limone oro pallido. Com’è bello il giallo! E come vedrò meglio il Nord!

527. – Arles, agosto 1888.

Devo dirti che in questi giorni mi sforzo di trovare un impiego del pennello senza ‘pointillé’ o altro, soltanto la pen ­nellata variata. Ma un giorno vedrai.

528. – Arles, agosto 1888.

La pittura, qual è adesso, promette di diventare più sottile – più musica e meno scultura -: promette, insomma, il colore. Purché mantenga questa promessa… I girasoli pro ­seguono, ce n’è un nuovo mazzo di quattordici fiori su sfondo giallo verde: è dunque esattamente il me ­desimo effetto, ma in formato più grande … di una natura morta di cotogne e di limoni che tu hai già. Però nei gira ­soli la pittura è molto più semplice.

Ti ricordi che un giorno abbiamo visto all’Hí´tel Drouot un mazzo di peonie di Manet? I fiori rosa, le foglie verdissime, dipinti a pasta piena, e non a vernice come quel ­li di Jeannin, che si staccavano su un semplice sfondo bian ­co, credo.

Una cosa veramente sana.

Per il ‘pointillé’, per aureolare eccetera, la trovo una vera scoperta; ma si può già prevedere che questa tecnica non diventerà più di un’altra un dogma universale. Ragione di più perché La Grande Jatte di Seurat, i paesaggi a grossi tratti punteggiati di Signac, la barca d’Anquetin diventino con l’andare del tempo più personali, ancora più originali.

531. – Arles, settembre 1888.

Ah, mio caro fratello, a volte so talmente bene quello che voglio. Perciò nella vita e nella pittura posso benissimo fare a meno del buon Dio, ma non posso, nella mia soffe ­renza, fare a meno di qualcosa di più grande di me e che è la mia vita: la potenza di creare.

Che se, frustrato fisicamente da questa potenza, uno cerca di creare pensieri invece di figli, resta ancora nel ­l’umanità, nonostante tutto.

In un quadro io vorrei dire qualcosa di consolante co ­me una musica. Vorrei dipingere degli uomini o delle donne con un non so che di eterno, il cui simbolo era una volta il nimbo, e che noi cerchiamo mediante l’irradiazione di per sé stessa, mediante la vibrazione dei nostri colori.

Il ritratto così concepito non diventa un Ary Scheffer solamente perché dietro c’è un ciclo azzurro come nel San ­t’Agostino. Poiché, colorista, Ary Scheffer lo è proprio poco, Andrebbe, piuttosto, d’accordo con ciò che Delacroix cer ­cava e trovava nel suo Tasso in prigione e in tanti altri qua ­dri raffiguranti un uomo vero.

Ah, il ritratto con dentro il pensiero, l’anima del model ­lo: questo mi sembra talmente che debba venire! …

Sono sempre preso fra due diversi pensieri: primo, le difficoltà materiali, girarsi e rigirarsi per crearsi un’esisten ­za; poi, lo studio del colore. Ho sempre la speranza di tro ­varci qualcosa.

Esprimere l’amore di due innamorati con un matrimo ­nio di due complementari, la loro mescolanza e i loro con ­trasti, le vibrazioni misteriose dei toni ravvicinati. Esprime ­re il pensiero di una fronte con la radiosità di un tono chia ­ro su un fondo scuro.

Esprimere la speranza con qualche stella. L’ardore di un essere con un’irradiazione di sole calante. Non si trat ­ta certo del ‘trompe-l’oeil’ realistico, ma non è forse una cosa che esiste realmente?

W7. – Arles, settembre 1888.

Alla sorella Wilhelmina.

Theo mi scrive che ti ha dato delle giapponeserie. È si ­curamente il mezzo più pratico per riuscire a comprendere la direzione che ha preso oggi la pittura colorata e chiara.

In quanto a me, qui non ho bisogno di giapponeserie, perché mi dico sempre che qui sono in Giappone e che di conseguenza non ho che da aprire gli occhi e dipingere di ­ritto davanti a me ciò che mi colpisce.

553. – Arles, settembre 1888,

Ho vegliato a dipingere per tre notti di seguito, corican ­domi durante la giornata. Spesso mi sembra che la notte sia molto più viva e moltissimo più colorata del giorno.

Ora per ciò che concerne riavere il denaro pagato all’af ­fittacamere per la mia pittura, non insisto, perché il quadro è uno dei più brutti che io abbia fatto. È l’equiva ­lente, benché diverso, dei Mangiatori di patate.

Ho cercato di esprimere con il rosso e il verde le terri ­bili passioni umane.

La sala è rosso sangue e giallo opaco, un biliardo verde in mezzo, quattro lampade giallo limone a irradiazione arancione e verde. C’è dappertutto una lotta e un’antitesi dei più diversi verdi e rossi, nei piccoli personaggi di fur ­fanti dormienti, nella sala triste e vuota, e del violetto contro il blu. Il rosso sangue e il verde giallo del biliardo, per esempio, contrastano con il delicato verde tenero Lui ­gi XV del banco, dove c’è un mazzo rosa.

Il vestito bianco del padrone, che veglia in un angolo di questa fornace, diventa giallo limone, verde pallido e lumi ­noso.

Ne faccio un disegno con toni all’acquerello per man ­dartelo domani, affinché tu ne abbia un’idea. …

Il Caffè di notte continua il Seminatore, come pure la testa del vecchio contadino e del poeta, se riesco a fare anche quest’ultimo quadro.

Non si tratta però di un colore localmente vero dal pun ­to di vista realistico del ‘trompe-l’oeil’, ma di un colore che suggerisce una qualsiasi emozione di un temperamento ar ­dente.

Quando Paul Mantz vide all’esposizione che anche noi abbiamo visitato, agli Champs-Elysées, lo schizzo violento ed esaltato di Delacroix La barca del Cristo, se ne allontanò gridando nel suo articolo: “Non sapevo che si potesse es ­sere così terribili con del blu e del verde”.

Hokusai ti fa lanciare lo stesso grido, ma mediante le sue linee, il suo disegno, come quando nella tua lettera tu dici: “Quelle onde sono artigli, la nave vi è imprigionata, lo si sente”.

Ebbene, se si adoperasse soltanto il colore o soltanto il disegno, non si procurerebbero simili emozioni.

538. – Arles, settembre 1888.

Tu sei buono verso i pittori e, sappilo bene, più ci ri ­fletto, più sento che non vi è nulla di più realmente arti ­stico dell’amare il prossimo. Tu mi dirai allora che sarebbe bene fare a meno dell’arte e degli artisti. In principio è vero; ma, dopo tutto, i greci, i francesi e i vecchi olandesi hanno accettato l’arte, noi la vediamo sempre risuscitare dopo le decadenze fatali, e non credo che si sarebbe più virtuosi per il solo motivo di avere in orrore e gli artisti e la loro arte. Per il momento non trovo ancora i miei quadri abbastanza buoni, in rapporto ai vantaggi che ho avuto da te. Ma quando saranno abbastanza buoni, ti assicuro che tu li avrai creati quanto me: il fatto è che noi li fabbrichia ­mo in due.

539. – Arles, settembre 1888.

Mai ho avuto una tale possibilità; qui la natura è straor ­dinariamente bella. Dappertutto e in ogni luogo la cupola, del ciclo è di un azzurro mirabile, il sole ha una radiosità di zolfo pallido ed è dolce e incantevole come la combina ­zione dei celesti e dei gialli dei Vermeer di Delft. Non rie ­sco a dipingere altrettanto bene, ma mi concentro talmente, che mi lascio andare senza pensare ad alcuna regola. …

Ho deciso) adesso, per partito preso, di non tracciare mai più un quadro col carboncino. Non serve a nulla: biso ­gna attaccare il disegno con il colore stesso, per disegnare bene. …

Che cosa fa Seurat? Non oserei mostrargli gli studi che ti ho spedito, ma quelli dei girasoli, dei cabarets e dei giar ­dini vorrei che li vedesse; penso spesso al suo sistema anche se non lo seguirei affatto, ma lui è un colorista originale, e lo stesso vale per Signac, però in un grado diverso: i puntinisti hanno trovato del nuovo, e debbo ammettere che mi piacciono molto.

Nondimeno, e lo dico francamente, io ritorno piuttosto a ciò che cercavo prima di venire a Parigi: non so se qual ­cuno ha parlato prima di me di colore suggestivo, ma Delacroix e Monticelli, pur non avendone parlato, lo hanno fatto.

In quanto a me, io sono ancora come ero a Nuenen, quando ho fatto uno sforzo vano per imparare la musica, talmente già sentivo fin da allora i rapporti che esistono fra il nostro colore e la musica di Wagner.

Adesso, è vero, vedo nell’impressionismo la risurrezione di Delacroix; ma, poiché le interpretazioni sono divergenti e in certo modo inconciliabili, non sarà neanche l’impressionismo a formulare la dottrina.

Per questo resto fra gli impressionisti, perché non dice nulla e non impegna a nulla: non ho bisogno, in mezzo a loro, di diventarne un compagno.

542. – Arles, settembre 1888

Se si studia l’arte giapponese, vi si vede un uomo inne ­gabilmente saggio, filosofo, intelligente, che passa il tempo a far che cosa? A studiare la distanza dalla terra alla luna? No. A studiare la politica di Bismarck? No. Si limita a stu ­diare un unico stelo d’erba.

Ma quello stelo d’erba lo porta a disegnare tutte le pian ­te, poi le stagioni, i grandi aspetti dei paesaggi, infine gli animali e da ultimo la figura umana. Così trascorre la vita. e la vita è troppo breve per fare tutto.

Vediamo, non è forse quasi una vera religione ciò che c’insegnano questi giapponesi così semplici e che vivono nel ­la natura come se fossero essi stessi dei fiori?

Non si potrebbe studiare l’arte giapponese, mi sembra. senza diventare molto più sereni e più felici: debbiarne, ritornare alla natura, nonostante la nostra educazione e il nostro lavoro in un mondo convenzionale. …

Invidio ai giapponesi l’estrema nitidezza che tutte le cose hanno presso di loro. Nulla vi è mai noioso, né mi sembra mai fatto troppo in fretta. Il loro lavoro è semplice come respirare: essi fanno una figura mediante pochi tratti sicuri, con la stessa disinvoltura come se si trattasse di una cosa semplice quanto abbottonarsi il panciotto.

Ah, bisogna che riesca a fare una figura con pochi tratti. Questo mi terrà occupato tutto l’inverno; e una volta che ci sarò arrivato, potrò affrontare i boulevards, le strade e un sacco di motivi nuovi.

553 a. – Arles, settembre-ottobre 1888.

A Gauguin.

Trovo eccessivamente banali i miei concetti artistici ri ­spetto ai Suoi.

Ho sempre dei grossolani appetiti da animale.

Dimentico tutto per la bellezza esteriore di cose che non so rendere, perché nel mio quadro la rendo brutta e grosso ­lana, mentre la natura mi sembra perfetta.

Adesso, tuttavia, lo slancio della mia carcassa ossuta è tale che va diritto al segno. Ne deriva talvolta una sincerità forse originale in ciò che sento, se il movente riuscisse ad abbellire la mia esecuzione brutale e inabile.

W 8. – Arles, settembre-ottobre 1888.

Alla sorella Wilhelmina.

Qui non faccio che pensare a Monticelli.

Era un uomo forte – un po’ tocco, anzi molto – che sognava il sole, l’amore, l’allegria, pur sempre tormentato dalla miseria, con un gusto estremamente raffinato di colo ­rista; uomo di razza rara che continuava le migliori tradi ­zioni antiche. Muore malinconicamente a Marsiglia, attra ­versando probabilmente un autentico Getsèmani. Ebbene, io sono sicuro di continuarlo qui come se fossi suo figlio o suo fratello. …

Monticelli è un pittore che ha reso il Mezzogiorno in giallo pieno, in arancione pieno, in zolfo pieno. La maggior parte dei pittori, non essendo coloristi propriamente detti, non vi vedono questi colori e giudicano pazzo il pittore che vede con occhi diversi dai loro. Tutto ciò è naturalmente previsto. Per questo io ho già pronto apposta un quadro in giallo pieno di girasoli (14 fiori in un vaso giallo e su fondo giallo, e ancora uno diverso dal precedente, con 12 fiori su fondo verde blu). E intendo un giorno esperio a Marsiglia. E vedrai che ci sarà un marsigliese o un altro il     quale si ricorderà di ciò che ha detto e fatto in passato Monticelli.

B 19. – Arles, ottobre 1888.

Al pittore Émile Bernard.

Non posso lavorare senza modello. Non dico che non volgo decisamente le spalle alla natura, nel trasformare uno studio in quadro, sistemando il colore, ingrandendo, sem ­plificando; ma ho molta paura di allontanarmi dal possi ­bile e dal giusto, per quanto riguarda la forma.

Forse potrà avvenire più in là, dopo altri dieci anni di studi, non dico di no; ma, parola d’onore, ho tale e tanta curiosità di ciò che è possibile e realmente esistente, che sento poco il desiderio e il coraggio di cercare l’ideale fa ­cendolo scaturire da studi astratti.

Altri possono avere per gli studi astratti maggiore intel ­ligenza di me, e sicuramente anche tu potresti essere del numero, così come lo è Gauguin… forse io stesso, quando sarò vecchio.

Ma, nell’attesa, mi sfamo sempre alla natura. Esagero, cambio talvolta l’intenzione; però, in definitiva, non invento mai l’intero quadro, lo trovo al contrario già fatto, ma da sbrogliarlo nella natura.

W9. – Arles, novembre 1888.

Alla sorella Wilhelmina.

Non so se capirai che si può fare una poesia solo dispo ­nendo sapientemente dei colori, così come si possono dire cose consolanti in musica.

Allo stesso modo, alcune linee bizzarre, scelte e moltiplicate, serpeggianti in tutto il quadro, non devono dare un giardino nella sua rassomiglianza volgare, ma disegnarcelo come veduto in sogno, nel tempo stesso reale, eppure più strano che nella realtà.

590, – Arles, maggio 1889.

Sento dire dai giornali che ci sono cose buone, al Salon. Ascolta, non diventare un impressionista assolutamente esclu ­sivo: se c’è del buono in qualcosa, non perdiamolo di vista. Certo, il colore è in progresso proprio grazie agli impressio ­nisti anche quando vi si smarriscono, ma Delacroix è già stato più completo di loro.

E, perdiana, Millet, che non ha colore: quale opera, la sua!

Per questo la follia è salutare, perché si diventa forse me ­no esclusivi.

Non rimpiango di aver voluto conoscere un po’ tecnica ­mente questa questione delle teorie coloristiche.

Come artisti si è soltanto un anello di una catena; e, che si trovi o non si trovi, ci si può consolare. …

Ah, dipingere delle figure come Claude Monet dipinge i paesaggi! È questo che resta da fare, nonostante tutto, e prima di vedere, a rigore, negli impressionisti, il solo Monet.

Poiché, in definitiva, in fatto di figura Delacroix, Millet e vari scultori hanno fatto bene quanto gli impressionisti; perfino J. Breton.

Insomma, mio caro fratello, siamo giusti …: pensiamo, ora che ci stiamo facendo troppo vecchi per schierarci fra i giovani, al fatto che in passato abbiamo amato Millet, Bre ­ton, Israëls, Whistler, Delacroix, Leys.

596. – Saint-Rémy, 25 giugno 1889.

Ho un campo di grano molto giallo e molto chiaro, forse la tela più chiara che io abbia mai fatto.

I cipressi mi preoccupano sempre, vorrei farne una cosa come le tele dei girasoli, perché mi stupisce che non li ab ­biano ancora fatti come li vedo io.

Un cipresso è bello, in quanto a linee e a proporzioni, come un obelisco egizio.

E il verde è di una qualità così raffinata.

È la macchia nera in un paesaggio assolato, ma è una fra le note nere più interessanti, fra le più difficili a centrarsi che io possa immaginare.

Ora bisogna vederli qui contro il blu, nel blu, per me ­glio dire. Per fare la natura, qui come dappertutto, bisogna restarvi a lungo. Perciò un Monthénard non mi da la nota vera e intima, poiché la luce è misteriosa, e Monticelli e Delacroix lo sentivano. Pissarro ne parlava benissimo, una volta, e io sono ancora molto lontano dal poter fare come egli diceva che si dovrebbe.

601. – Saint-Rémy, luglio 1889.

Questa nuova crisi, fratello mio caro, mi ha colto nei campi e mentre stavo dipingendo durante una giornata di vento. Ti manderò la tela che ho terminato ugualmente.

Era appunto un tentativo più sobrio, di un colore opaco senza apparenza, verdi spezzati, rossi e gialli ferruginosi d’ocra, così come ti dicevo che a volte provavo il desiderio di ricominciare con una tavolozza come nel Nord.

602. – Saint-Rémy, agosto 1889.

Grazie ancora di quella bella acquaforte tratta da Rembrandt; vorrei tanto conoscere il quadro e sapere in quale periodo della sua vita lo ha dipinto. Rientra, con il ritratto di Fabritius a Rotterdam, il Viaggiatore della Galleria Lacaze, in una categoria speciale dove il ritratto di un essere umano si trasforma in qualcosa di luminoso e consolante.

E come ciò è infinitamente diverso da Michelangelo o da Giotto, benché quest’ultimo vi si avvicini, tuttavia; co ­sicché Giotto forma l’unico legame possibile tra la scuola di Rembrandt e gli italiani.

604. – Saint-Rémy, settembre 1889.

Fratello mio caro – è sempre in un intervallo di lavoro che ti scrivo â—, fatico come un vero ossesso, provo più che mai un furore sordo di lavoro, e credo che questo contribuirà a guarirmi. Forse mi succederà una cosa come quella di cui parla Delacroix: “Ho trovato la pittura quando non avevo più né denti né fiato”, nel senso che la mia triste malattia mi fa lavorare con un furore sordo, molto lentamente, ma dal mattino alla sera senza interruzione; ed è questo, pro ­babilmente, il segreto: lavorare a lungo e lentamente. Che ne so, ma credo di avere in corso un paio di tele non troppo male, prima di tutto il falciatore tra le spighe gialle e il ritratto su fondo chiaro: saranno per la mostra dei Vingtistes, se però si ricorderanno di me al momento buono; ma mi sarebbe assolutamente uguale, se non prefe ­ribile, che mi dimenticassero.

607. – Saint-Rémy, settembre 1889.

Ho attualmente sette copie sulle dieci dei “Lavori dei campi” di Millet. Posso assicurarti che m’interessa enormemente eseguire delle copie: non dispo ­nendo per il momento di modelli, questo mi aiuterà in ogni caso a non perdere di vista la figura. …

Che il copiare sia il vecchio sistema, non m’importa as ­solutamente niente. Copierò anche Il buon samaritano di Delacroix. …

Be’, dato soprattutto che adesso sono ammalato, cero di fare qualcosa per consolarmi, per mio piacere personale.

Poso davanti a me, come motivo, il bianco e nero di Delacroix o di Millet o dei loro seguaci, e poi v’improvviso sopra del colore; però, beninteso, non essendo completa ­mente io, ma cercando qualche ricordo dei loro quadri â— il ricordo, la vaga consonanza di colori che sono rimasti nel sentimento anche se non giusti; ed è, dunque, una mia interpretazione.

Un sacco di gente non copia, moltissimi altri copiano: io mi ci sono messo per caso e trovo che il farlo insegna e soprattutto consola, a volte. Così il pennello mi corre fra le dita, allora, come un archetto sul violino, e assolutamente per il mio piacere. …

Adesso, nella cattiva stagione, farò molte copie, perché bisogna veramente che mi applichi di più alla figura.

È lo studio della figura che insegna a cogliere l’essenziale e a semplificare.

617. – Saint-Rémy, dicembre 1889.

Sembra probabile che non farò più cose impastate: è il risultato della vita calma di reclusione che conduco, e mi ci trovo meglio. In fondo, non sono poi così violento come pare, e mi sento più io nella calma. Te ne accorgerai, forse, anche dalla tela per la mostra dei Vingtistes, che ho spedito ieri, il campo di grano al sole nascente.

626 a. – Saint-Rémy, febbraio   1890.

Al critico d’arte Albert Aurier.

Nel prossimo invio che farò a mio fratello, aggiungere uno studio di cipressi per Lei, se vorrà farmi la cor ­tesia di accettarlo in ricordo del Suo articolo. In questo momento vi lavoro ancora, poiché desidero inserirci una figurina.

Il cipresso è così caratteristico del paesaggio provenzale, e Lei lo sentiva quando diceva: “persino il colore nero”. Fino ad ora non ho potuto renderli come li sento: le emo ­zioni che mi assalgono davanti alla natura vanno in me fino allo svenimento, e ne deriva allora una quindicina di giorni durante i quali sono incapace di lavorare. Eppure, prima di partire di qui, conto di tornare ancora una volta alla carica per attaccare i cipressi. Lo studio che Le ho destinati ne rappresenta un gruppo all’angolo di un campo di gran ci durante una giornata estiva di mistral. È dunque la nota di un certo nero inespressa in un turchino mosso dalla grande aria che circola, e fa contrasto a questa nota nera il ver ­miglio dei papaveri. …

Quando lo studio che Le manderò sarà completamente asciutto anche negli impasti, senza dubbio non prima di un anno, penso che farebbe bene a passarvi una forte mano di vernice.

E nel frattempo bisognerà lavarlo più volte con acqua corrente per toglierne completamente l’olio. È dipinto con blu di Prussia pieno, colore di cui si dice tanto male, e di cui nondimeno si è tanto servito Delacroix. Credo che quan ­do i toni di blu di Prussia si saranno bene asciugati, verni ­ciando Lei otterrà i toni neri, nerissimi, necessari per far risaltare i vari verdi cupi.

614 a. â— Auvers-sur-Oise, maggio 1890.

Al critico d’arte J. J. Isaacson.

Vede, il problema, al mio spirito, si presenta così: quali siano gli esseri umani che abitualmente abitano gli oliveti, gli aranceti, le limonaie.

Il contadino di questi luoghi è altra cosa dall’abitante dei grandi campi di grano di Millet.

Millet ci ha riaperto le idee per vedere l’abitante della natura; ma non ci hanno ancora dipinto l’essere meridio ­nale di oggi. Però quando Chavannes o un altro ci mostrerà quell’essere umano, torneranno a noi con un senso nuovo parole antiche: beati i poveri di spirito, beati i puri di cuore: parole di tale portata che noialtri cresciuti nelle vec ­chie città del Nord, confusi e disfatti, ci dobbiamo fermare a grande distanza dalla soglia di quelle dimore. Allora, per quanto convinti possiamo essere della visione di Rembrandt, ci si chiede: ma Raffaello lo capiva, e Michelangelo, e Leonardo? Io non lo so, ma credo che il meno pagano Giotto, gran malaticcio che ci resta familiare come un con ­temporaneo, sentisse di più.

W 22. â— Auvers-sur-Oise, prima quindicina del giugno 1890.

Alla sorella Wilhelmina.

Ciò che mi appassiona di più, molto, molto di più di tutto il resto, nel mio mestiere, è il ritratto, il ritratto mo ­derno.

Io lo perseguo mediante il colore, e non sono certo il solo a cercarlo per questa strada. Vorrei â— vedi, sono lungi dal dire di poter fare tutto questo, ma infine vi aspiro â—, vorrei fare dei ritratti che di qui a un secolo, alle genti future, possano sembrare come delle apparizioni. Perciò, non cerco di ottenerlo con la rassomiglianza fotografica, ma tramite le nostre espressioni appassionate, usando come mezzo di espressione e di esaltazione del carattere la scienza e il gusto moderni del colore.

649. – Auvers-sur-Oise, luglio 1890.

Mi sono rimesso al lavoro, anche se il pennello quasi mi casca dalla mano; e, sapendo perfettamente ciò che volevo, ho ancora dipinto … tre grandi tele.

Sono immense distese di grano sotto cicli tormentati, e non ho avuto difficoltà per cercare di esprimere la tristezza, l’estrema solitudine.

650. – Auvers-sur-Oise, luglio 1890.

In quanto a me, sono totalmente preso da questa infi ­nita distesa di campi di grano su uno sfondo di colline, gran ­de come il mare, dai colori delicati, gialli, verdi, il viola pallido di un terreno sarchiato e arato, regolarmente chiaz ­zato dal verde delle pianticelle di patate in fiore: tutto sot ­to un ciclo tenue, nei toni azzurri, bianchi, rosa, violetti.

Sono completamente in una condizione di calma per-sino eccessiva, proprio nello stato che occorre per dipinge ­re ciò.

652. â— Auvers-sur-Oise:     lettera trovatagli addosso il 29 luglio 1890.

Per il mio lavoro, io rischio la vita, e la mia ragione vi è quasi naufragata …

 

 


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Bart