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PITTURA: I MAESTRI: Vermeer: Invenzione della pittura d’oggi

16 Marzo 2019

di Giuseppe Ungaretti
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1967]

La sorte di Vermeer è tra le più straordinarie non tanto per la sua tarda comparsa nel campo della fa ­ma, quanto per la luce di gloria definitiva che gli è venuta dall’elogio di Marcel Proust. È noto che fino al 1866, fino alla segnalazione fattane da Théophile Thoré chiamato di solito Bürger, pseudonimo con il quale aveva firmato il saggio su Vermeer, l’opera di Vermeer non aveva suscitato molto clamore. Anche come uomo è straordinario che si fosse ingegnato a non lasciare di sé alle cronache altra traccia salvo quella derivata dal proseguimento con semplicità del ­le peripezie d’una vita di buon padre di famiglia e di rispettabile borghese di Delft. Il fatto più saliente accadutogli fu d’essere stato scelto dai suoi colleghi della ghilda a esercitare durante un anno le funzioni di decano. C’è chi pretende che fosse cattolico e, in quegli anni, poteva in Olanda non essere sempre fa ­cile tirare avanti con tranquillità a chi lo fosse; ma non trapela affatto dalla sua pittura né dalla sua bio ­grafia che problemi religiosi gli avessero recato di ­sturbo e nemmeno inquietudine.

Ma la sua pittura si manifesta come insolita ai suoi tempi e prima, insolita nei Paesi Bassi, e anche al ­trove. Dei pittori che in Europa lo precedettero o fu ­rono suoi contemporanei, solo un dipinto gli si può avvicinare. Si tratta della Madonna col Bambino di Piero della Francesca a Urbino. Me ne resi conto sor ­preso, tornando a visitare, alcuni mesi fa, la Galleria di Palazzo Ducale. Ora, leggendo, per dovere d’informazione, gli ultimi libri apparsi su Vermeer, m’ac ­corgo che, sino dal lontano primo saggio dedicato a Piero, Roberto Longhi aveva visto e segnalato quella precedenza, e, senza dubbio, per guardare pittura, nessuno ha occhi migliori.

L’impianto delle figure di Piero, in quel dipinto come altrove sempre, è oltremodo compatto e saldo, e, in ciascuna, nella concretezza del volume corporale, domina la maestà che le fa più alte delle loro condizio ­ni di persone umane. A destra di chi guardi, da una porta aperta, sono intravviste, in un’altra stanza, due finestre accanto, illuminate insieme, la cui luce, sulla parete dirimpetto riflessa, adagio, nel riflesso appare fettina di luce con la stessa virtù dell’ombra, la virtù d’essere d’una labilità inverosimile. Prima che arrivi la labile verticalità, il manto scuro sulla spalla destra del ­la Madonna, la recide e la nasconde. In quel dipinto di Piero, si scorge persine, all’estremità del lato opposto della stanza principale, al lato sinistro, in disparte, al disopra della testa di uno dei due angeli, su una scan ­sia, un canestro ricoperto da un panno. Sopra, dovrebb’esserci, quasi invisibile, una seconda scansia. Inoltre i rapporti delle tonalità sono ottenuti ricorrendo a tinte chiare come se il vigore netto dell’espressione non po ­tesse concederselo se non a patto e a furia d’essersi dato prova di possedere quella tenuità di tatto che esige continuo addestramento della sensibilità. Ne risulta un ambiente chiuso, d’un raccoglimento al colmo del si ­lenzio. Tutti elementi che Vermeer non dimenticherà.

In Vermeer le figure non hanno né pretendono di avere maestà. Sono persone che per abitudine non escono da quei limiti prefissi a un vivere di medio ce ­to, e, tutt’al più, potrebbero arrivare a eleggersi quei limiti ambiti da chi sia molto semplice in tutto, e lo sia quindi anche nel sentire e nell’immaginare. Ciò non toglie nulla alla profondità, può dare anzi all’espressio ­ne una giusta profondità, la giusta misura della profon ­dità, quella misura che è indispensabile aiuto nel rag ­giungimento di un vero che non superi le misure della persona umana, che anzi si trovi, nei limiti stessi della persona umana, presente, ad affermare la indetermina ­tezza della poesia persuadendola ad emergere. È un la ­to da esaminare meglio, quello dal quale Vermeer vede e attesta, tra l’imperversare del verismo degli altri ‘pic ­coli maestri’ olandesi, la negazione di quel loro veri ­smo, e d’ogni altro verismo, rimanendo fedele al vero.

Un’osservazione mi viene in questo momento in mente, e la noto subito in margine. A volte, i visi delle figure di Vermeer quasi s’imbambolano, ma dev’essere successo in seguito allo scempio compiuto da restau ­ratori privi d’ogni riguardo verso inermi velature. Pos ­so dirlo. Ho visitato più volte, a distanza di anni, mo ­stre di Vermeer, e i musei d’Olanda, e, purtroppo, mi è stato facile rilevare con amarezza, nella recente mostra di Parigi, quanto alcuni dipinti fossero stati menomati, ridotti a non apparire se non in un’incer ­tezza dove una volta il colore, prima che lo spellassero, era colore, quel trionfo del colore che Vermeer, nel ­l’opera sua, non ha mai trascurato né cessato di con ­seguire. La parentesi è chiusa.

Subito Vermeer appare come un antagonista dei ‘piccoli maestri’. Un antagonista forse inconsapevole. Esporre visibili alla gente che passava, dai vetri del-1 ampia finestra che dava sulla strada, stoviglie di ra ­me lustro appese alle pareti, coperte di cuoi cordovani, sedili accuratamente scolpiti nelle loro parti di legno raro, mobili e ogni altro oggetto, specie se esotico o prezioso, era uso in Olanda, rimasto vivo, per osten ­tazione del proprio benessere. Compito del ‘piccolo maestro’ era di dipingere, come se fosse un passante, quell’ambiente chiuso solo dai vetri, eppure impene ­trabile se non dagli occhi, a chi non fosse della stessa casta o della medesima setta. Il ‘piccolo maestro’ di ­pingeva con una meticolosità e un tormento da bigot ­to, con non altro in testa se non di fare somigliante, di fare meglio di come farebbe oggi la fotografia, ma con la speranza di non fare più di quanto avrebbe più tardi fatto la fotografia.

Anche se dei ‘piccoli maestri’ Vermeer adotta lo scopo principale che è quello di dedicarsi agli interni, alla cosiddetta pittura di genere, in effetti cerca altro.

Lo dicono il pittore della luce. Dicono che cercasse la luce.

Difatti cercava la luce. Si veda coni’essa vibri, per lui, dai vetri, com’essa muova l’ombra, ombra della luce, ombra quasi impalpabile di ciglia mentre lo sguardo amato si socchiude, sguardo quasi â— nel suo protrarsi nella memoria e nel desiderio â— imitasse il segno dell’ombra. Bisogna però stare attenti nel par ­lare di luce. Forse, cercando la luce, Vermeer trovava altro, forse la meraviglia sublime della sua pittura è nell’avere trovato altro.

Tanti pittori hanno cercato di fermare la luce.

Caravaggio impone alla luce di sconquassare e di ridurre in pezzetti il vero, per servirsi poi di quei pez ­zi luminosi, con pazze rabbia e gioia dei sensi, ad eri ­gere un’architettura di un vero diverso.

Rembrandt da ad intendere d’avere ottenuto il pri ­vilegio di disporre a suo talento della pietra filosofale, può invocare una luce d’alchimia, colta quando il sole colpisce vetri e mattoni delle case con una stanchezza inverosimile, eppure in segreto oltre misura brutale. Il piombo allora si squaglia, e l’oro scoppia e divora come una lebbra.

Poussin e Corot hanno perpetuato in diverso mo ­do, ma l’uno e l’altro attoniti e rapiti, l’esatta restitu ­zione, in dipinti, dei boschi albani popolosi di fauni e di ninfe, coperti da un ciclo d’un azzurro illibato, che staccia e va diffondendo, sotto, la sua luce giusta di paradiso non ancora perduto.

Cézanne considerava la luce in modo drammatico. Ha cercato di affermare, a dispetto e con rispetto del ­la luce, il volume degli oggetti, gli sviluppi volume ­trici che l’intelletto e la fantasia d’un pittore possono farsi suggerire dagli oggetti.

Seurat costruisce il poderoso volume di una figura puramente scomponendo la luce che avvolge la figu ­ra, in minuscoli punti di colori complementari del ­l’iride.

In verità, salvo Seurat, tutti i pittori che abbiamo citato, trovavano altro, non più la luce, anche se la luce era stata d’aiuto indispensabile nel trovare altro.

Potremmo andare avanti sino alla consumazione dei secoli in quest’elenco di pittori che si siano avvalsi delle risorse ad essi offerte dalla luce. In fondo in fon ­do, senza la luce non ci sarebbero oggetti, non essendo stato possibile identificarli e nominarli prima che una persona umana li avesse visti, visti con i suoi occhi.

Vermeer più che la luce ha trovato altro, ha tro ­vato il colore, un colore vero, dato nella sua assolu ­tezza di colore. Se in Vermeer la luce conta, è perché anche la luce ha un colore, il colore di luce, e quel colore lo vede come un colore per se stesso, come lu ­ce, e ne vede, e ne isola, anche, se è vista, l’ombra, vincolo indissolubile della luce. Nemmeno i volumi contano per lui, intrisi di luce, macerati dalla luce, balzati in avanti, protesi ventri gravidi, con tanto pudore, con tanta ansia, con tanto dolce trepidare da lui ritratti. Conta il colore. Sono dunque fantasmi quelle persone, la moglie, o una figlia, o lui stesso, quelle persone familiari ritratte, quegli oggetti consueti, evocati? È possibile. Il vero resta nella giusta sua misura, pure scappandone e divenendo metafisico, facendosi idea, forma immutabile, per non divenire alla fine se non puro colore, o meglio, accorta, misu ­rata distribuzione di puri colori, l’uno nell’altro com ­penetrandosi, l’uno dall’altro isolandosi.

Una volta, portato a ragionare del rapporto del ­l’arte con la natura, mi era avvenuto di chiamare in ballo Giovanni van Eyck. Capisco si tratti di un pit ­tore che ha lavorato circa due secoli prima di Vermeer, e si tratti d’un pittore fiammingo. I secoli val ­gono fino ad un certo punto per quello che sto per dire. Le Fiandre sono certo diverse dall’Olanda; ma cugini, Olandesi e Fiamminghi, almeno lo sono. Ec ­covi, nel museo di Bruggia, la Madonna del canonico Giorgio van der Paele, Sono cinque figure, quattro â— un vescovo, un guerriero, la Madonna col Bam ­bino â— restano nel quadro volutamente immaginarie.

Quando, per esempio, Piero della Francesca pensa a un santo, non dimentica mai che, per giustificarlo nel sentimento umano, dovrà trovare, dipingendolo, un rapporto fra l’idea di santità e una persona vera, di carne ed ossa.

Nel caso del canonico, van Eyck non si cura in ­vece che del contrasto fra vero e fantasia; ma non rag ­giunge nessun contrasto, le due parti del quadro es ­sendo in tutti i sensi inconciliabili fra loro, essendoci assoluta incompatibilità e nemmeno la minima par ­cella di dramma. È il tipico caso dell’incomunicabili ­tà. La fantasia non sa minimamente moderarla, rag ­giunge risultati di somma finezza, ma tale che non pare abbia più rapporto con l’essere umano, e che, se soggioga chi guarda, per virtuosismo e trasporto mi ­stico, non riesce umanamente a toccarlo e a persua ­derlo. In quanto al vero, è come se quel tanto assurdo spreco di fantasia che dedica alle prime quattro figure, lo dicevo un minuto fa, non fosse lì, proprio davanti agli occhi del canonico, a dirgli ch’era insensata illusione crederci.

La figura del canonico, il donatore, il quinto per ­sonaggio, è invece di fatto così esterna al dipinto che sembra esserne stata inevitabilmente espulsa. Niente affatto pia, ginocchioni di lato, quasi a livello del ­l’impiantito dov’è collocata, è poderosa, compatta, prepotente, stentorea tra il via vai dei visitatori : di ­fatti il suo altolà è tale che ci paralizza. Lasciamo andare gli occhiali e il breviario e tutta la congerie delle minutaglie non di pertinenza organica della figura, e osserviamo la faccia, che è dipinta, all’op ­posto delle altre, con uno spasmodico scrupolo dia ­gnosticò: ogni ruga le è imposta con spietata sicu ­rezza, come a una terra restia, il solco dell’aratro. Il pittore poi si tratterrà a lungo, come se non potesse staccarsene, dietro gli intrecci delle vene della fronte. (Soffriva d’arteriosclerosi il canonico?). Il pittore è ormai arrivato attorno agli occhi e vi tormenta (si vede bene che è per lui una delizia) zampe d’oca e borse.

Ecco, tormentare, scrutare, tormentare quella po ­vera carne finché, avendoci voluto mettere tanta na ­tura, non gli rimanga altro, a van Eyck, se non una rete farraginosa di segni dove l’uomo s’impigli come una mosca.

Saranno i ‘piccoli maestri’ partiti da questo vero, o da questa ‘natura’ di van Eyck? Natura e vero sono due vocaboli per dire la stessa cosa. In ogni caso, i contrasti tra vero e idea non li cercano nemmeno. nemmeno ne sanno nulla, dipingono solo il vero, e fanno bene, il vero essendo inseparabile dall’idea, e mancando l’idea è meglio non fare, come aveva fatto van Eyck quella volta, connubi mostruosi.

Per farmi meglio intendere dirò che nella Lezione d’anatomia di Rembrandt, l’idea (la morte) e la na ­tura (il cadavere frugato dai medici) sono insupera ­bilmente, indissolubilmente unite nella medesima persona, e anche, a quella morte s’unisce l’idea di lotta (vana) dell’uomo (il suo sapere in progresso incessan ­te) contro la morte. Altrove, nella Fidanzata ebrea, ci sarà la natura, in quella prosperosa fanciulla dagli ab ­bagli, e l’idea dell’effimero, reso tanto sensibile nella caducità del bel corpo avvolto in uno sfavillìo trionfa ­le, ma non più durevole d’un attimo.

L’equilibrio in Vermeer è costante, è raggiunto senza alcuna fatica, senza alcuna stanchezza, d’ac ­chito, spontaneamente, per semplice, immediata con ­giunzione dell’ispirazione alla forma, d’un lampo im ­medesimata nella forma.

La Merlettaia è china sul suo lavoro. È sguardo che si concentra, è assenza da tutto il rimanente che non sia quel lavoro, quel moto di dita che i fili anno ­dano in trame leggiadre. Dita e sguardo non cesse ­ranno mai di muoversi, di quel loro moto che si muo ­ve fermo per sempre. L’idea dell’infinità, d’una fami ­liarità con il silenzio, solida, indissolubile e infrangi ­bile; l’idea d’un’esistenza immutabilmente, felicemen ­te quotidiana, semplicemente semplice; l’idea d’una solitudine tutta sola, e tutto il resto muto; questa è l’idea. Può darsi che non sia della stessa proporzione, alla sua altezza, alla stessa profondità, allo stesso li ­vello, dello stesso segreto della pittura che la mani ­festa? No, nessuno lo potrebbe dire, nessuno. Alcuni esempi?: Donna che scrive una lettera. Che cosa mai avrà da raccontare? La fronte spaziosa s’è volta un po’ di lato, china verso gli occhi riflessivi. Cerca di connettere. Le si affollano in mente, in troppi, i pen ­sièri. Le dita si affusolano intanto mostrando la gra ­zia delle mani carezzevoli che posano, un pochinino grassottelle, una in abbandono sul foglio, l’altra trattenendo la penna impaziente di tornare a vergare care frasi.

Come sarebbe meglio possibile di arrestare per sempre l’idea dell’assenza? Non un’idea angosciosa. Un’idea d’infinita tenerezza. Con appena un soffio di malinconia. È la ricchezza della solitudine d’una gio ­vine persona umana femminile, d’una giovine, donna che guarda senza alcuna fissità né fissazione; ma con un dolce slancio salito dall’anima, l’assente persona, invocandola, senza disturbare il silenzio, accrescen ­dolo all’infinito.

Forma e contenuto hanno mai assimilato fonden ­dosi, una maggiore giustezza di metro umano?

Se dovessi ricapitolare ciò che, alla buona, sino qui ho detto di Vermeer, direi che potremmo avere già qualche nozione sui motivi che lo separano dai ‘piccoli maestri’, suoi contemporanei; sull’importanza che la luce ha per lui, considerandola a sé, come essa stessa un colore, e reputandola, lo provano i suoi di ­pinti, anima d’ogni colore; sull’equilibrio e l’imme-desimazione che sempre raggiunge nei suoi dipinti, tra arte, idea e natura, rispettando nel vedere, sentire e fantasticare, le persone e gli oggetti secondo le natu ­rali apparenze del loro vero.

Occorrerà ch’io riprenda a discorrere del colore. Proust non era forse un impeccabile uomo di gusto, agli occhi nostri. Viveva nei dintorni di Montesquiou, andava matto per i vetri di Gallé, era fautore del li ­berty fino alla nausea, fino ad esserne ossesso, e rife ­riva di musica come uno che oggi lapideremmo. Ma ai suoi tempi, la bruttissima belle époque, aveva in ­dubbiamente più gusto di tutti gli altri. Cito alcuni passi di Proust: ” Avete visto certi quadri di Vermeer, vi rendete conto che sono i frammenti d’un medesimo mondo, che è sempre, quale sia il genio che li ha ri ­messi al mondo, la stessa tavola, lo stesso tappeto, la stessa donna, la stessa nuova e unica bellezza, enigma, a quell’epoca dove nulla le somiglia né la spiega, se non si cerchi di apparentarla ricorrendo ai soggetti, ma di svincolarne invece l’effetto particolare che il colore produce.

“Un critico avendo scritto che nella Veduta di Delft, quadro che Bergotte prediligeva e credeva di conoscere benissimo un brano di muro giallo (non se ne ricordava) era dipinto tanto bene, che era, se lo si guardava da solo, d’una bellezza che bastava a se stessa…

” Si ripeteva [l’agonizzante Bergotte]: Brandello di muro giallo con una tettoia sotto, brandello di mu ­ro giallo”.

Il sommo pittore Vermeer era scoperto, il precur ­sore, quello che stava aspettando la pittura informale. quello che doveva avere pazienza sino alla seconda metà del Novecento per essere capito e seguito dai pittori.

Come avrà fatto Proust ad avere, in questo caso. intuizione e maggior gusto, non dico solo dei suoi con ­temporanei, ma anche di quasi tutti noi che viviamo quasi mezzo secolo dopo la sua morte?

Guardate La viottola, o La stradina se così vi piaccia di chiamarla. Quella sua fattura piatta piat ­ta, con le lastre che si sovrappongono di granato e grigio, ed è solo nella diversità tonale l’indicazione della loro ora, il loro stato, l’apparenza, fattasi im ­mutabile per mano dell’arte, in quel momento effi ­mero di quel giorno. Bellezza nuova e terribile d’una casa.

Nel Concerto è l’apparizione del giallo. La fan ­ciulla è alla spinetta. Il giallo lo modulano le pieghe del vestito. C’è il dorso di cuoio d’una sedia, rossastro cuoio, è un’isolata assolutezza di colore come nel fa ­moso giallo del brandello di muro. Per l’assolutezza del colore, si osservi anche l’andirivieni, l’annuvolarsi, l’abbuiarsi delle lastre bianche e nere del pavimento, nello stesso dipinto. Le direi lastre di marmo; ma la memoria potrebbe questa volta, e chissà quante altre volte è avvenuto e avverrà, non essermi fedele.

Dovrò citare il giallo, il sulfureo giallo del giac ­cone della Donna che scrive una lettera, dipinto già nel presente scritto da me citato, e si tratta di giallo invadente, di prepotenza del giallo. Lo stesso giallo e con lo stesso giaccone si ripete nella Donna e la sua servente, e ancora il medesimo giaccone appare nella Collana di perle.

Ci sarebbe da parlare anche dell’azzurro, di sva ­riate intensità, un colore non meno importante del giallo nella tavolozza di Vermeer.

E che cosa può dirsi del rosso? Per esempio di quel rosso della Dama dal cappello rosso? È un rosso scarlatto, un rosso sangue, un rosso fuoco. Sono piu ­me, lievi, furenti, piume che s’inquietano e s’agitano al minimo soffio, e quale splendore invade, per loro virtù, il dipinto.

Un ventaglio di rossi vivi, un ventaglio di azzurri vivi, un ventaglio di gialli vivi, e, quando occorra, nel vivo, insinuazione di grigio o di marrone. Vermeer è tutto qui. L’inventore della pittura più valida d’og ­gi, è tutto qui. Ma mi pare che quel ‘qui’ sia una vastità.

 


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Bart