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PITTURA: I MAESTRI: Michelangelo pittore

24 Febbraio 2008

di Salvatore Quasimodo
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1966]  

Comincia con oggi una serie di saggi – che pubblicheremo con una opportuna periodicità –  sui più noti pittori di tutti i tempi scritti da importanti narratori e poeti del Novecento. Grazie ad essi  potremo forse penetrare, o anche solo avvertire,  lo speciale  segreto che collega tra di loro i grandi artisti.

In Michelangelo Buonarroti, nato a Caprese nel Casentino ma meno ‘toscano’ di Dante per carattere e formazione, si incrocia sangue d’Emilia e di Lombar ­dia per parte dei Canossa con i quali aveva una lon ­tana parentela.
Questa nota, che nell’apparenza può sembrare marginale, pure non volendo sciogliere enigmi e nodi su certe zone della vita di Michelangelo o su vicende come quella del non richiesto segno sull’unghia del pollice – era l’uso per i forestieri – alla prima presa di contatto con le genti di Bologna, tende a stabilire un arco di memoria con la sua terrestre eredità ‘itali ­ca’, con i feudi venduti e comprati, e con i ‘castighi’ della storia.
Il Vasari e il Condivi videro nei Prigioni tutte le province sottomesse dalla Chiesa durante il papato di Giulio II, poco prima dell'”orribile sacco” che do ­veva travolgere Roma. Serenità oscillante, coscienza della tagliola preparata ad ogni passo dal mondo cieco.
Il profano non solo è entrato nelle sacre Scritture ma nelle scritture umane chiuse con sangue fraterno in servitù di parti avverse, crudeli nella natura e nell’obiettivo del reale-provvisorio.
In questa dilatazione d’istinto e architettura di pensieri, Michelangelo, più che isolarsi dal suo secolo, lo rivela. E lo rivela in modo originale, ribellandosi alle leggi arbitrarie che lo dominano con la stessa collera che accende la difesa dell’Alighieri per la condanna a Bruto e a Cassio.
Urto d’ira che, come gli altri suoi dissidi d’uomo scontento della piccola terra e ad essa grato per quanto di bello ogni giorno gli offre, va inteso “ora in sul destro, ora in sul manco fianco”.
Nello svolgersi dei secoli, dove suonano campane di critica superficiale, e l’odio e l’amore della sorte si confonderlo, certi furori michelangioleschi non han ­no trovato ancora il loro ciclo, l’esatta luce che l’ ‘esemplare’ del martirio – chiaro nella preghiera leonardesca: “Dio, tu ci vendi tutti li beni a prezzo di fatica” – dominò in una quinta dimensione spiri ­tuale che comprendeva tutte le altre: quelle dello scultore, del pittore, dell’architetto, del poeta. La di ­mensione del critico. Ecco allora il Buonarroti ‘in ­compreso’ : ossa, sangue, mente d’uomo del suo tem ­po, fare attuale un mondo d’eroi, di Profeti, di Sibille, anticipare in una degenerazione di modi stilistici la morte dell’arabesco, difeso poi da Baudelaire come “il più alto dei disegni”.
Eccolo, governatore delle fortificazioni di Firenze, nel 1529, raccogliere le furie di una dinamica inter ­na non rinascimentale che lo agitava fra turbe danna ­te, e pensare alla Francia come a un territorio di salvezza. Rimane, poi: e si pente di quel momentaneo progetto di fuga, conteso fra il limo plebeo della sua patria e ‘l’essere umano’ che egli scolpisce in una razza immaginaria, titanica e misteriosa.
Tutto prendeva corpo e si trasfigurava nelle profondità della sua anima, tanto che solo con un grande sforzo d’astrazione possiamo avvicinarci al percetti ­bile reale-irreale delle sue opere e della sua vita in ­tiera, all’inizio creativo del suo pensiero.
Per questo noi ci illudiamo di ‘vedere’ Michelangelo, e non è invece, la nostra, che un’esaltazione letteraria, il piacere di leggere nella retorica costruita da uomini, non sempre oscuri per fama, sul dramma violento del genio.

La densità del sentimento di Michelangelo apre un discorso particolare non solo sul linguaggio figurativo che – come Lisippo per i greci – egli traduce ‘in potenza’, diminuendo quindi gli effetti vistosi a vantaggio di una maggiore ricerca interna, ma sul lin ­guaggio, interpretazione di vita ” fatta scarsa ” dai neo ­platonici del Rinascimento con le loro fredde finzioni e l’accademia del Bembo e di Fracastoro. Dove è certo il legame che lo unisce alla cosmologia dantesca, ina ­sprita fino all’angoscia, quasi un anticipo alle teorie di Blaise Pascal e alla sua “dannata” solitudine.
Perché, se la solitudine di Dante, ‘geometra e filosofo’, fu naturale condizione dell’esistere e, per Bea ­trice, luce al suo cammino, quella di Michelangelo è dura, tremenda nell’amore terreno che lo combatte : sa l’impeto dello scalpello e il peso dei giorni.

Fuggite, amanti, amor, fuggite ‘l fuoco;
l’incendio è aspro e la piaga è mortale;
ch’oltr’a l’impeto primo più non vale
né forza, né ragion, né mutar loco.
Fuggite, or che l’esemplo non è poco
d’un fiero braccio e d’un acuto strale;
leggete in me qual sarà ‘1 vostro male,
qual sarà l’impio e dispietato gioco.
Fuggite, e non tardate al primo sguardo;
ch’i’ pensa’ d’ogni tempo avere accordo,
or sento, e voi ‘I vedete, com’io ardo.1

Vittoria Colonna non è Laura né Beatrice : e il Buonarroti le parla con parole ben temperate, in accordo con quelle da lui scritte per le figure delle tombe medicee.
Il movimento delle sue figure sanguigne, animate dal disprezzo per i contorni leziosi, riaffiora nelle Rime che non conoscono le tènere volute del petrarchismo. L’oggetto è il suo fine, non la proiezione che ne deriva : perché, se egli si piega alla statua della Bellezza, lo fa sempre con furia, schiavo alla presa del senso e alle sue leggi.
“E non stupirebbe se taluno, leggendo i versi di Michelangelo che, carico d’anni e affranto di salute, arde ancora e si consuma d’amore, chiamasse tutto il Canzoniere michelangiolesco un vaniloquio di un farneticante, straziato da assurdi, senili ardori. ” 2
In questo ‘vaniloquio’ l’artista è solo. Prima con la voce fisica, dopo con quella della morte. E non c’è spiraglio dal quale penetri raggio di grazia, eco ester ­na, anche se breve, di cronache o notizie come in Dante, che si sorprendeva spesso fuori dal proprio io a parlare d’ogni cosa, magari con ironia. Del resto

Nostri intensi dolori e nostri guai
son come più e men ciascun gli sente:
quant’in me posson, tu, Signor, tel sai.

In Michelangelo si fanno tumulto, groviglio segreto di pensieri e attrazione verso l’abisso.
Lo specchio nel quale i poeti del Rinascimento, compreso il Tansillo, riflettevano i loro giochi di parole gli è sconosciuto. Solo il Tasso delle Rime, ha qualche riflesso di vita che coincide con il suo: l’odioamore dell’uomo contrastato da alti terrori religiosi, le ingiu ­stizie terrene di cui subiva la parte che lo toccava intimamente, la sigla estranea ai moduli aristote ­lici della Gerusalemme e alla scuola degli Eterei con ­dotti dal Castelvetro, che trovava motivo d’arte nell’anticipo ai seducenti fregi del seicentismo.
Ma, se l’estetica del Tasso, anche di quello drammatico, prendeva figura dall’Ippia Maggiore di Piatone e da certe speculazioni su Piotino, quella di Michelangelo non si basa su schemi. Poeta “del Peccato e della Morte”, egli è in una zona sua, dove le antitesi spesso si incrociano in una trama ombrosa. E allora l’artista si consuma, osserva, anatomizza fino a concludere disperatamente: “La fonte è secha, bi ­sogna aspectar che piova”.
La siepe dell’Infinito leopardiano, nata dal distac ­co dell’esasperazione individualistica e da una ‘perdi ­ta’ totale della vita, scioglie di qui il suo ritmo dell’immenso, senza affetti o presenze nel cuore che – stret ­to da una insopportabile realtà conoscitiva – desidera, alla fine, solo il precipizio, la quiete del sonno nei moti più dissolti della psiche. Sono gli attimi in cui Michelangelo sembra smarrire anche se stesso, il metro della memoria e di ciò che ha liberato dalla materia informe:

Oilmè, oilmè,   pur reiterando
vo ‘l mio passato tempo, e non ritrovo
in tutto un giorno che sia stato mio!
Le fallaci speranze e ‘l van desio,
piangendo, amando, ardendo e sospirando
(ch’affetto   alcun   mortal   non   mi   è   più   nuovo)
m’hanno tenuto, ond’il conosco e provo:
lontan certo dal vero,
or con periglio pèro;
che ‘l breve tempo m’è venuto manco,
né saria ancor, se s’allungasse, stanco.

E se scrive, nasce qualche verso minore di tristezza. La fede lo aiuta, ma non si cancellano in lui le immagini di una Roma perversa, corrotta nei costumi e prossima ai bugiardi miti del paganesimo, una Roma che è quasi una Turchia dove

… si fa elmi di calici e spade,
e ‘l sangue di Cristo si vend’a giumelle.

Non a caso, durante la giovinezza, aveva ammi ­rato il Savonarola. E così anche ‘la ‘religione’ del Buonarroti batte le sue immense ali d’uccello notturno in un mondo di Titani più forti del loro creatore.
Se Michelangelo aveva fissato per le arti figurative “un canone empirico, indicando nell’osservanza di certo rapporto aritmetico il mezzo per dare movimento e grazia alle figure”,3 si può affermare che le sue radici, anche nel rinnovato amore della tra ­dizione mistica, risalgono al Medioevo in una teoria tutt’altro che ‘pedagogica’ dell’espressione. Di qui l’amore per Dante, la presa con una schiera immensa di allegorie e di simboli che non sfugge, anzi trova il suo Eden nel colore e nella scultura.

In un secolo di tirannia dialettica e di trionfo del formalismo, brucia l’individualità dell’artista che non desiderava essere interrogato sulla propria opera nemmeno dai pontefici : ai vangeli male interpretati, schiavi del fanatismo o del rumore del mondo, egli sostituisce 1′ ‘arroganza’ delle tempeste interne che lo scuotono, insolute; e la creazione dantesca in esse si rinnova. Questi versi, che potrebbero essere di Mi ­chelangelo come di Dante, escono dal tronco comune dell’Umanesimo:

Non posso altra figura immaginarmi,
o di nud’ombra o di terrestre spoglia,
col più alto pensier,   tal che mia voglia
centra alla tua beltà di quella s’armi.
Che da te mosse, tanto scender parmi
 ch’amor d’ogni valor mi priva e spoglia,
ond’a pensar di minuir mia doglia
duplicando la morte viene a darmi.

Vittoria Colonna non è Beatrice, abbiamo detto: così come la Sistina non è un commento della Commedia.
Vittoria Colonna è sempre presente, non divide con alcuno i viaggi d’anima del suo poeta. E la Sistina esce dal cerchio dello scientifismo dell’Alighieri quasi un urlo disumano, uno schianto di muscoli e di vene teso a rifare un nuovo universo più esasperato e or ­rendo di quello dantesco.
Michelangelo ha studiato con pazienza la Bibbia dell’altissimo poeta: e non da solo. Nelle pagine più diffìcili gli fu forse guida quel Cristoforo Laudino, segretario del partito guelfo, noto per i suoi studi sul poema dantesco pubblicati con illustrazioni del Botticelli.
Su Dante, il Buonarroti scrisse due sonetti: e, per qualche tempo, nel suo pensiero nacque l’idea di ri ­fare al “Ghibellin fuggiasco” una sepoltura degna, ornata di giganti di marmo.
Compiuto già il Giudizio, legge nel 1545 un saggio sulla Commedia scritto da un “tal lucchese”, e lo trova malvagio. Il suo Dante non è quello di tutti. Impenetrabile, lo ama come il modello di una scienza che in lui non cresce se non nelle zone dell’istinto, dalla collera che lo agita fuori dal suo tempo. Definita. unica memoria di un dialogo con l’eterno. E allora guardiamo al suo agire da un punto di osservazione che non sia soltanto cristiano.
Michelangelo vince gli spazi già arditi del Laocoonte, li lacera e li unisce; c’è un dio prometeo il cui spirito scuote la massa del marmo con più forza di quello che anima la spoglia di Cristo sulle ginocchia della Madre nella Pietà di San Pietro.
Torniamo a leggere le sue Rime e richiamiamone in prosa la sfumatura psicologica, l’Apocalisse terrestre dove uomo e donna si uniscono, mordono polvere e cielo, di nuovo si staccano per cercarsi ancora, pian ­gere su peccati veri o presunti, e

non vi si pensa quanto sangue costa. 4

Questo ‘ricadere’ di Michelangelo nella Commedia non è dettato da ragioni di morale: testimonia quell’avvolgersi a spirale di torsi, di gambe, di braccia nelle semilune della Sistina e negli schizzi, una febbre pessimista, solenne, che può fargli esclamare con Fichte: “Io creo Dio!”.
Grida di dolore giungono al suo orecchio e lo percuotono da terre nude: né il bello gli apparirà mai sotto forma di figura tonda e gentile (tranne la Leda), o ricordi di pace quale tregua di coscienza alle discordanze maschie della sua virtù creatrice. Non il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra, potenze ele ­mentari, determinano la scrittura dell’ ‘anacoreta’: non il coro salmodiante della teologia.
“L’apparizione di Michelangelo nell’arte italiana può essere comparata a un torrente irresistibile, le cui acque abbiano insieme fertilizzata e devastata una regione “: così il Wölfflin.5
II Bronzino, ispirandosi a Michelangelo, immagi ­nava Cristo signore di un Limbo ‘anatomico’. Ma lo stato permanente del Buonarroti è l’Inferno dante ­sco, la parte più eroica e più plastica del poema.
Solo un critico presuntuoso potrebbe pensare di chiudere in parole sinuose il mistero di Michelangelo, rischiarare una immensa catena di immagini enigmatiche e darne per certa la genesi. C’è una ‘dietetica dello spirito’ che non può essere spezzata, e lo sanno gli esegeti, quando discutono di ‘supposizioni’ aperte al colloquio e alla voce che sempre si libera dalle ope ­re dei grandi.
Perché il Lucifero del Giudizio era concepito bel ­lissimo? Scriveva a Michelangelo l’Aretino: “… io veggo in mezzo de le turbe Antichristo con una sembianza sol pensata da voi”. Un Satana rabbioso e felice dunque, del quale l’artista stesso ha il pudore della rinuncia: e lo confessa nella lettera di risposta a messer Pietro.
Ombre e silenzi senza fine, sfingi nate dal pensiero disperato dell’uomo puritano e peccatore, odio di sessi in agguato, tortura di passione gettata al fondo di una forma spirituale che rimette in esa ­me dogmi e rapporti di civiltà, scienza non distinta di attitudini. L’annuncio di un’arte nuova che sta tra la pittura e la poesia, l’arbitrario naufragio nelle cin ­ture buie di un orizzonte limitato da linguaggi tra ­smentali, si calmano solo nell’equilibrio geometrico delle cupole, negli interni delle chiese e delle sacrestie.
La ‘terza anima’ del Buonarroti sembra godere qui di una commozione estetica più vicina ai modi del Rinascimento: il simbolo cede a una comprensione grafica precisa. E la vita si fa schermo di angosce sopportabili, come nell’epistolario, bussola indispen ­sabile alla lettura dei tetri colori sviluppati in altri stadi.
Ma Michelangelo, “vissuto del proprio amore”, si rifiuta sempre all’arido valore d’uso caro a molti cronachisti contemporanei: se è vero che “Swift e Voltaire, Diderot e Rousseau, Lessing e Goethe han ­no strappato alla marea della barbarie borghese splen ­dide isole di umana civiltà”,6 non è questo il suo ca ­pitolo.
A brani staccati e successivi Michelangelo ha espresso un’idea d’amore rapida sui secoli, sia essa l’impeto per Vittoria o per l’arte, dissonanza di ar ­terie che infuriano o marmo tormentato, ed è felice, lui “il maledetto della sorte”, di esaurire i suoi giorni in questo fuoco:

Pure, amor, ti ringrazio
che in questa età, s’io muoio per tal sorte,
m’ancide tua mercede e non la morte.

Più in là, pudore di sensazioni e di esperienze, l’abisso che non bisogna corrompere.

1 M. Buonarroti, Rime (B.U.R., Milano 1954).
2 A. Rinelli, Michelangelo e Dante, Torino 1943.
3 B. Croce, Estetica, Bari 1965   (con riferimento a G. P. lomazzo).
4 Paradiso, XXIX 91.
5 H. Woelfflin, Die klassische Kunst, München 1899.
6G. Lukàcs, Il marxismo e la crisi letteraria, Torino 1964.

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