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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Platania, Federico

14 Novembre 2008

Buon lavoro – Dodici storie a tempo indeterminato
Il primo sangue

“Buon lavoro – Dodici storie a tempo indeterminato” (2006)

Fernandel, pagg. 160, euro 13.

Sembra che la frequentazione di it.cultura.libri porti fortuna ad alcuni. Soprattutto quando la partecipazione avviene in un momento in cui si susseguono contributi di ottimo livello, come è stato qualche anno fa. Anche Federico Platania fa parte di quel ristretto gruppo che ebbi la fortuna di conoscere a Milano, come accadde per Raffaele Mangano, in occasione di un raduno di iclini. Già allora si era messo in luce per la capacità di coniugare insieme chiarezza, piglio, briosità ed ironia, meritando l’apprezzamento di molti, tra i quali il sottoscritto.
Ora, l’editore Fernandel, alla cui omonima rivista collabora da tempo, pubblica il suo primo libro, “Buon lavoro”, che è – come dice il sottotitolo – una raccolta di dodici racconti, il cui filo conduttore è la vita che conduce un impiegato in un’azienda in cui si trova a lavorare con un contratto a tempo indeterminato. Oggi che nella società impera la legge del precariato, e sono fortunati coloro che riescono a trovare un lavoro della durata di qualche mese, se non di qualche settimana, sembrerebbe che il nostro si trovi a vivere una condizione privilegiata, e indubbiamente lo è rispetto a chi il lavoro lo vede solo da lontano, ma Platania, pur consapevole di ciò, ci vuole mostrare anche il lato perverso, assurdo e comico di chi in un’azienda ci trascorre gran parte della sua vita.
Il racconto d’avvio narra del primo giorno di lavoro di uno dei protagonisti, Daniele. Ma sia che si chiami Daniele, o Fioretti, Marco, Minnella, Marchini, Chierico, Fabio, Moretto, Iovine, Ciccio Tenore, Rubetta, e perfino i colleghi Garofalo, Nicola, Manfredi, De Marchi, Fabbri, Zabaglione, Partesano, Bonelli, Annalisa, Romoli, Bernocchi, Daniela, e così via, si tratta in realtà di un solo personaggio visto nelle varie sfaccettature in cui il lavoro si divide. Daniele si presenta, dunque, davanti all’edificio dove ha sede, in mezzo alla campagna, l’ azienda in cui sta per fare il suo ingresso come impiegato. Il racconto dà già la misura della chiave ironica con la quale faremo i conti nel corso dell’intera lettura. L’autore affine che subito mi è venuto in mente leggendo la scena che si svolge tra il portiere, il protagonista e il collega Vernaschi che lo sta accompagnando, è Giulio Mozzi allorché ci narra dei suoi viaggi in treno e delle assurde peripezie che deve superare ogni volta, affrontando dialoghi con contenuti di assoluta incomunicabilità tra gli interlocutori. Ma anche il Giuseppe Bonura de “La ragazza dalla luna storta”, del 1982. È un’ironia che riesce a smuovere il riso e a far scivolare piacevolmente su di noi la tristezza di una condizione umana che va sempre di più ridicolizzandosi.
Una denuncia, dunque, ma attenzione: nient’affatto sussurrata, anzi, feroce nel suo intento di mettere a nudo ciò che sta nascosto sotto quella che definiamo la società del progresso. Non è a caso, infatti, che Platania abbia scelto di raccontarci proprio una esperienza di lavoro tra le più ambite, quella ossia a tempo indeterminato, vero miraggio ai giorni nostri, come a suggerirci che se c’è alienazione fuori da questo rapporto, essa, in realtà, si annida ovunque, anche nelle situazioni più invidiate, come segno di un malessere radicato e diffuso di cui a noi tutti toccherà di rispondere.
Per dare conto della scrittura pulita, netta e del tutto consona all’obiettivo che l’autore desidera conseguire, riporto questo piccolo brano che riguarda il momento in cui al protagonista viene assegnata una stanza provvisoria, praticamente un buco nello scantinato, in attesa che sia sistemata quella definitiva. Ha una scrivania e una scalcinata sedia a rotelle. Ecco che cosa gli accade: “Mi sono seduto. La sedia traballava. Ho provato a infilarmi con la sedia sotto la scrivania, ma i braccioli cozzavano contro il piano del tavolo. Ho individuato la levetta sotto il sedile e l’ho azionata. Sono andato giù di colpo. Ho spinto e le rotelle hanno corso in avanti. Adesso ero praticamente incassato nella scrivania.” Troveremo in seguito altri esempi di questo modo serrato e analitico ad un tempo di descrivere le situazioni; che si rivela assai presto come un suggerimento ad osservare con attenzione i minuti gesti quotidiani che, per abitudine, non teniamo più sotto la nostra osservazione: essi sono la realtà con la quale la nostra superbia e la nostra ambizione fanno i conti in ogni momento.
I racconti si rivelano capitoli di un unico romanzo, tanto sono omogenei per stile e finalità, e ci accompagnano dando principio e fine ad una storia che narra di una omogenea esperienza di vita: infatti, come si è già scritto, anche se formalmente attribuita a nomi diversi, essa è pur sempre riconducibile ad un unico personaggio. Si vivono situazioni che si modulano vuoi su registri di assurdità che su registri di autentica allucinazione, tutti marcati da una ironia pungente che si trasforma talvolta in un tripudio di comicità. Non è raro ritrovarsi a dover smaltire una saporosa irrefrenabile risata come quella che ci prende nel terzo racconto, “Stanno arrivando”, allorché il nuovo assunto viene scambiato per il figlio di un pensionato dell’azienda, e nonostante i ripetuti chiarimenti del giovane (che è invece figlio di un impiegato delle poste), questi si ritrova alla fine a dover ammettere, per liberarsi dall’incubo, di essere il figlio di quel Fioretti pensionato. Non solo, ma siccome è stato destinato presso un collega, Bonanno, da tutti considerato “un pezzo di merda”, anche lui, pur non avendolo mai incontrato, ammetterà di conoscerlo e di considerarlo “un bastardo pezzo di merda”: “continuavo a ripetere io. Non mi fermavo più.”
Esilarante l’episodio degli ascensori che non funzionano, in uno dei quali rimane bloccato il protagonista, narrato nel capitolo “Le scimmie di Vergara”.
C’è un particolare che ricorre spesso e che evidenzia l’attenzione che l’autore mette nella sua scrittura, e riguarda il tipo di espressione che ogni tanto viene colta sul viso di un personaggio e che viene puntualmente descritta come “una smorfia che poteva significare qualunque cosa.” È una espressione che coglie esattamente l’atmosfera di allucinazione che gira intorno ai personaggi.
Anche il fatto ricorrente che alcuni di essi sostengono una cosa (per esempio: “Ma il citofono è rotto”) e altri l’esatto contrario (“Il citofono funziona benissimo!”) costituisce la conferma di una realtà considerata indecifrabile, opinabile, oltre che assurda e allucinatoria. Ci sono, ossia, affermazioni di verità diametralmente opposte, e tuttavia da ciascuno considerate inoppugnabili. Oppure verità che si rivelano fragili o addirittura inconsistenti. Racconti come quelli narrati nei capitoli “L’appuntamento con Leoni” e “Io sono Zabaglione” ci rappresentano una realtà che si manifesta non per quello che dovrebbe essere oggettivamente, bensì animata da un ghigno beffardo proteso a burlarsi della nostra facile e accomodante credulità. Nel descrivere situazioni di questo tipo, Platania si rivela un abile narratore. La calma con cui ci introduce a poco a poco dentro di esse è la prova di una tale padronanza: intelligente, sensibile, rastremata e controllata al massimo livello della sua efficacia.
Quando si arriva all’ultimo capitolo, “Salgono dalle fondamenta”, e assistiamo al paradosso che un impiegato, per avere una spillatrice nuova, deve fare una ordinazione di cancelleria per un intero anno richiedendo un quantitativo minimo per ogni voce (non saltandone, dunque, alcuna) contenuta nel modulo (“Zero non si può mettere”, gli dice la segretaria), e l’attesa per avere la spillatrice nuova, con tutto quel popo’ di materiale aggiuntivo e non necessario, sarà di oltre quaranta giorni, la denuncia di Platania ha fatto boom, ironizzando con garbo, seppure con intransigenza, su una realtà che – difficile com’è da cambiare – resterà quale indelebile marchio del genio italico. L’ultimo capitolo dà anche il senso di un’alienazione che non solo consuma e distrugge, ma conduce inesorabilmente alla follia.
Un libro agile, dunque, che si legge piacevolmente, che fa anche sorridere, di un sorriso molto amaro, però.

“Il primo sangue” (2008)

Fernandel, pagg. 120, euro 12.

L’autore ha già al suo attivo, sempre con Fernandel, “Buon lavoro. Dodici storie a tempo indeterminato”, uscito nel 2006.
A distanza di 2 anni esce il suo primo romanzo, una prova, dunque, più impegnativa.
In realtà, il romanzo è intrinsecamente strutturato in quadri, in cui sono narrate varie storie che accadono ad Andrea, uno dei componenti di un gruppo di lavoratori occupati per pochi soldi in una mensa aziendale. Anch’essi, come tanti altri, non se la passano bene e vivono, alcuni di illusioni, come Fabio, che si è comprato una casa, un “buco”, e deve sudare le sette camicie per pagare la rata del mutuo, altri di delusione e di impotente rabbia, come Andrea. Andrea è un punto di congiunzione, l’osservatore che mostrando ciò che vede, mostra in realtà se stesso. La povertà che lo circonda e lo coinvolge diventa il motivo ispiratore e scatenante del romanzo. La povertà, oltre che affamare, incrudelisce gli animi, ci fa diventare lupi e assassini. Andrea in qualche modo ha paura della povertà, se la sente addosso, anche se la mamma lo rassicura: Noi non siamo poveri.
Un barbone che rovista nel cassonetto della spazzatura, una zingara che ruba a quest’ultimo qualcosa che ha trovato; mosche, zanzare, cavallette, vespe, che si propagano dappertutto, sono i simboli dello squallore, anche morale, che accompagna l’esistenza dei più. Andrea, Fabio, Alessio e gli altri compagni sono giovani; il mondo che riescono a vedere con i loro occhi non lascia spazio alla speranza. Dovranno stentare, fare sacrifici, se saranno fortunati: nulla di meglio li attende.
Già nel primo libro, Platania era stato attratto dalla condizione di imprigionamento in cui l’uomo si trova costretto, anche se ha un lavoro. Qui, si scende ancora di un gradino e la realtà appare degradata ad un livello forse di non ritorno: “Una volta una persona che aveva passato la notte in un fosso la sapevi distinguere con un solo sguardo da una che aveva dormito bene nel suo letto. Adesso invece non si capisce più.”
Il protagonista fruga dappertutto e cerca invano in ogni avvenimento, se pur minimo, di trovare una risposta positiva che lo aiuti a rispondere alle sue molte delusioni: Senzanome, il cane “nero come la notte” che gli abbaia contro quando si reca al lavoro; il viaggiatore in pullman che insulta gli zingari; l’altro passeggero che, vestito da ricco signore, si scopre che non ha le scarpe, sono proiezioni delle sue paure e dei suoi interrogativi su di un futuro che già appare poco rassicurante. La realtà si presenta così come un grande oceano in cui si sta per annegare; l’acqua è arrivata alla gola, e sentiamo di non farcela: “Come è che si diventa così? Come è che arriva il giorno che ti senti così triste e povero che non capisci come ci sei arrivato? È questo posto dove sono cresciuto che mi ha ridotto così. Se vivi nella merda chi sei davvero non conta niente, sei sporco di merda. Fine.”
L’uomo con la mimetica, uno dei tanti ritratti colti dalla penna dell’autore, ha in sé una follia tragica imbevuta di un desiderio impossibile: pulizia e ordine in una società malata. È la figura che esprime il risultato di un tentativo caparbio che si è andato a frantumare contro le forze oscure della decadenza e dell’orrore: “l’uomo con la mimetica, là fuori, da solo, a combattere contro il caos.
La scrittura è sempre controllata, mai si fa travolgere dalla situazione drammatica nella quale è coinvolta. La strada   (“la mia strada”) e i due marciapiedi su cui, in tante occasioni, cammina il protagonista Andrea, passando a volte dall’uno all’altro marciapiede, per scansare un pericolo, diventano simboli di una direzione che non si riesce a trovare, di una indecisione dettata da allucinazioni e paure. Si disegnano proprio sui marciapiedi, infatti, situazioni e figure che sembrano sorgere più dalla mente dilatata e scossa di Andrea, piuttosto che dalla realtà.
I due che si picchiano, la coppia di novelli sposi attesi da un destino di debiti e di miseria, Francesco e la sua villa dove c’è il cane che abbaia, sono il piccolo mondo delirante che ha i connotati di un futuro che non riguarda solo il piccolo quartiere in cui Andrea vive, ma esprime già da ora l’universale che ha perduto la sua logica e la sua purezza originarie.
È un romanzo in cui i piani della realtà e della non realtà sembrano intersecarsi fino ad unirsi e confondersi. L’ansia di vivere, la paura, le delusioni, lo sconforto, il razzismo che si propaga sempre di più, hanno tanto mai pervaso la mente che quest’ultima si appresta a modellare una realtà in cui sono proprio l’ansia, la paura, le delusioni e lo sconforto a dettarne le nuove proporzioni e i nuovi confini.
Il libro possiede ed esala una tale carica di allucinazione e di stordimento. Tutto ciò che il protagonista vede è il frutto di una distorsione prodotta nella sua mente da una mancanza di futuro e anche da una scelta incompiuta tra vita e morte.
Rumeni, zingari, extracomunitari vi appaiono come fantasmi incombenti e temuti, che si vorrebbero scacciare quale emanazione di un male e di una corruzione dilaganti. L’autore sottolinea spesso, a tal riguardo, l’intolleranza che dilaga nella società: lo fa con sguardo fermo, e allo stesso tempo incredulo: essa probabilmente viene da lontano; chissà, forse risale alle stesse origini dell’uomo. Lo ha sempre accompagnato, anche nei momenti in cui non appariva, nascosta dal silenzio; i tempi nostri l’hanno rimossa dal nascondiglio, e portata alla luce con il suo colore torvo e pieno di minacce. Quasi a preparare una nuova notte dei cristalli: “Bisognerebbe metterli tutti insieme in una piazza e spruzzargli la benzina addosso. Poi si butta dentro un fiammifero acceso e buonanotte a tutti.”; “«I forni, le docce », dicono i pensionati col giornale sotto il braccio.”
Di contro troviamo Francesco, il figlio del padrone della villa del cane che abbaia. Il padre è un ricchissimo industriale. Francesco sembra uscito, con la sua noia, da “La dolce vita” di Fellini. È incredulo che Andrea possa vivere con novecento euro al mese: “E come cazzo fai?” Francesco è anche lui espressione di una follia che si è impossessata di tutti. La noia, il desiderio di appropriarsi della ricchezza di suo padre, alterano il suo equilibrio allo stesso modo della miseria patita dagli altri. Non se ne esce: tutti siamo dentro una prigione, nessuno è libero, e soprattutto nessuno è contento di se stesso. Difficile, dunque, non incamminarsi sulla strada ampia e seducente della follia. Accadrà anche a Andrea con il suo “primo sangue”, destinato ad avviare una serie infinita: “Il mondo è pieno di gente con i soldi che cerca qualcuno che gli faccia fuori i nemici.” Non ci può essere di peggio, e la nostra società, ci fa intendere l’autore, prima o poi ci condurrà a questo.


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Bart