Poggiani, Laura11 Novembre 2019 Il Comandante PippoManrico Ducceschi, “Pippoâ€: ai limiti della leggenda. Ci troviamo di fronte a un libro dedicato ad una delle figure più importanti della Resistenza, Manrico Ducceschi, conosciuto come Pippo, Comandante del Battaglione Autonomo XI Zona Militare Patrioti che operò nell’Appennino tosco-emiliano,“una delle poche formazione di partigiani che annovera vittorie e non subisce sconfitte militari.â€. La sua figura è ai limiti della leggenda. L’autrice Laura Poggiani è la nipote, figlia della sorella più piccola, Leila. È depositaria di molti documenti importanti, che con questo lavoro mette a disposizione dei lettori. Un libro atteso, necessario, dunque, e si deve alla sensibilità di Andrea Giannasi, editore di Tra le righe libri, la sua pubblicazione in una collana di scritti di guerra invidiabile e che quasi sicuramente diventerà presto la più completa in circolazione. Già rilevante il suo catalogo. Come si vedrà , questo autentico e appassionato protagonista di uno dei momenti più importanti della storia del nostro Paese, non ha ancora ricevuto in Patria il riconoscimento che gli è dovuto, e perfino la sua morte è avvolta da un inquietante mistero. Lo scopo del libro è manifestamente esposto con queste parole: “La questione, infatti, non è certo il carisma di Pippo, il suo valore o l’abilità di Comandante, accertata e criticata solo da quei pochi che erano motivati da distorsioni politiche. La questione invece è proprio la morte: chi o cosa l’ha causata? Come è realmente avvenuta? Per quale motivo? Come mai in tutti questi anni nessuno studioso si è mai attivato per cercare negli archivi statunitensi o britannici tracce dell’indagine che i servizi segreti alleati avevano prodotto, parallelamente ai servizi italiani? Seguiamo, dunque, questa storia, che già dall’inizio ci appare molto avvincente sia per le qualità di questo uomo buono e coraggioso, e amato dai suoi uomini ai quali dedicava un’attenzione solidale, e sia per la sua morte così misteriosa, ingiusta e atroce. “Manrico Ducceschi nasce l’11 settembre 1920 a Capua (Caserta) da Fernando Ducceschi e Matilde Bonaccio ed ha una sorella più piccola, Leila. La nascita a Capua è puramente casuale, avviene durante un viaggio della madre, infatti la famiglia è di Pistoia, città dove Manrico cresce e compie di studi, fino alla scelta di andare all’Università di Firenze, alla Facoltà di Lettere e Filosofia, che segue brillantemente. Ma l’autrice comincia dalla sua morte: “È il 26 agosto 1948, giovedì. Fernando è un po’ preoccupato per il prolungarsi del silenzio del figlio. Manrico, infatti, doveva partire per Roma e appena tornato occuparsi di una faccenda delicata, come lo è sempre una denuncia. Fernando si era raccomandato che il figlio lo avvisasse prontamente del suo ritorno ma, fino a quel momento, tutto taceva. Non solo, ma ci ricorda il clima internazionale farraginoso e inquieto di quel 1948, in cui Manrico fu trovato morto, un anno che vide molte lotte finalizzate alla conquista di posizioni tanto territoriali quanto ideologiche che ebbero protagonisti l’occidente e il comunismo sovietico. È anche l’anno in cui, il 14 luglio, “Palmiro Togliatti è gravemente ferito, con quattro colpi di pistola, dallo studente universitario Antonio Pallante.â€. È un clima, dunque, di resa dei conti, e si capisce bene che un partigiano come Manrico Ducceschi che, pur essendo di fede mazziniana, ha sempre rifiutato di accogliere qualunque ideologia nella sua Formazione, e che, per il ruolo svolto nella Resistenza, custodiva importanti segreti, stesse diventando un personaggio scomodo e ingombrante. Invece, va sottolineato il marasma ideologico che esplose con l’attentato a Togliatti, avvenuto appena un mese prima della morte di Manrico. I comunisti si erano scatenati, pronti a mettere il Paese a ferro e a fuoco, se non fossero stati fermati dallo stesso Togliatti, preoccupato per le conseguenze che questo marasma avrebbe avuto sulla situazione politica già fortemente compromessa dalla guerra civile. Un clima anche troppo surriscaldato. Già dopo il 25 aprile si era assistito, nel cosiddetto triangolo della morte del Nord Italia, alla eliminazione, da parte delle Brigate comuniste, di molti partigiani scomodi, che costituivano un ostacolo al programma prefissato della conquista del potere e della consegna dell’Italia all’orbita sovietica (si vedano le numerose denunce, mai smentite, presenti nei libri di Giampaolo Pansa). La morte di Ducceschi potrebbe dunque definita, con una forte dose di probabilità , un’appendice del biennio rosso seguito al 25 aprile e potrebbe ascriversi al rinveniente odio ideologico resuscitato dall’attentato a Togliatti. A guerra finita, gli Alleati assegnarono a Pippo la “Bronze Starâ€, una delle più alte onorificenze attribuibili ad un combattente straniero, che gli fu consegnata presso Palazzo Santini, sede del Comune di Lucca. Il 15 maggio del 1945, sarà assegnata anche a Enrico Mattei che la ricevette a Milano dalle mani del generale Mark Wayne Clark. Come nel libro già citato di Gabrielli Rosi, anche in questo, incontriamo testimonianze che confermano il valore militare e umano di Ducceschi. In una di queste, che l’autrice rende anonima utilizzando il nome fittizio di Giovanni, si legge: “Sulla Linea Gotica dove erano di stanza dei comandi tedeschi, mi venivano notizie anche sulle attività della formazione di Pippo, tanto da ritenere che il suo comandante fosse un ufficiale di carriera, esperto in addestramento al combattimento. Se si pensa che Ducceschi, essendo nato nel settembre del 1920, era un giovane studente universitario (come l’altro eroico capo partigiano lucchese Leandro Puccetti del “Gruppo Valangaâ€, alla cui memoria è stata assegnata la medaglia d’oro), le sue rilevanti doti di comandante e di stratega appaiono sorprendenti. Continua l’anonimo: “Incontrai Manrico e confesso che rimasi sorpreso di trovarmi davanti un giovane stempiato, non molto alto, che non aveva l’aspetto di un ufficiale di carriera e che era stato capace di comandare in combattimento centinaia di uomini.â€. E ancora: alla fine del 1946 “Venivano tutti da Manrico a chiedere, sia i familiari dei partigiani che di quelli ammazzati dai partigiani, e lui aiutava tutti. Manrico dimostrava una particolare sensibilità verso coloro che avevano partecipato alla lotta di liberazione.â€; “Mi rendevo conto che egli era un giovane comandante, dotato di altruismo, che non trovava adeguato aiuto nelle istituzioni. Penso che qui ci sia il perché sia stato assassinato o si sia suicidato. (…) Pippo era disorientato e forse non trovava nei grossi partiti un grande aiuto. È certo che, se invece di aver aderito al Partito d’Azione, sorto nel 1942 e disciolto nel 1947, di estrazione mazziniana, fosse stato aderente al Fronte Popolare o al Partito democristiano, può darsi che l’avvenire gli avrebbe riservato un altro destino.â€. L’anonimo propende per il suicidio, causato dall’isolamento in cui si era trovato Pippo, che nessuno voleva aiutare: “C’è chi crede alla tesi dell’omicidio. Io invece opto per il suicidio.â€; “escludo con certezza che possa essersi trattato di omicidio passionale.â€. Ai primi del 1948 si tengono alcune riunioni di partiti politici presso la sede dell’XI Zona, riunioni che mettono a fuoco contrasti con l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani (A.N.P.I.), di ispirazione comunista, alla quale Ducceschi scrive una dura lettera datata 12 maggio 1948, in cui insiste a voler rifiutare la sua adesione all’Associazione stessa. Una delle varie motivazioni che adduce, recita: “d) Il sistema, e non esagero a dirlo, prettamente fascista, usato infine sul piano pratico ed assistenziale nell’accaparrare l’esclusività ed il monopolio del partigianato; l’aver messo addirittura i partigiani di fronte ad una disparità di condizioni per le quali certi diritti concessi dalla Legge indiscriminatamente a tutti, sono stati invece di arbitrio e resi accessibili solo a coloro che hanno obbedito all’irreggimentazione del tesseramento obbligatorioâ€. È una lettera chiave per completare e rendere più chiaro il quadro di complicità , di diffidenza e di inimicizia in cui Pippo si trovava ad operare. Verso il termine la lettera è dirompente: “La morale della favola però è molto chiara: se i partigiani di concezioni politiche diverse da quella assunta dall’A.N.P.I. ivi compresi gli indipendenti, si sono scissi cercando di costruirsi un’altra casa sul piano associativo per loro più ospitale, se altri partigiani e fra questi anche una parte di quelli stessi che personalmente sono delle stesse idee politiche perseguite dall’associazione, per senso di onestà e di imparzialità manifestano apertamente il loro disagio, se abbiamo dato infine all’opinione pubblica italiana e in particolar modo ai fascisti un così bello spettacolo di unità partigiana, la colpa e la responsabilità grave ed imperdonabile è da ascriversi esclusivamente alla linea di condotta politicante dell’A.N.P.I. contro la quale non potrà mai sufficientemente riversare la mia amarezza ed il mio rammarico.â€. Già nel corso della Resistenza, anche all’interno della XI Zona erano comparsi dissidi tra comandanti dei vari gruppi e reparti, e sono riportate alcune interessanti testimonianze al riguardo. Una di queste, di Lindano Zanchi, narra del dissidio tra Pippo e Gianni La Loggia su a chi affidare in consegna le relazioni della XI Zona al termine, ormai prossimo, della guerra. Gianni propende per lasciarle a Randolfo Pacciardi, repubblicano, già Comandante delle Brigate Internazionali nella guerra di Spagna, ma trova la contrarietà risoluta di Pippo, che provoca la sua uscita di scena: “Gianni, montato su tutte le furie, accusando di essere stato mancato di rispetto e di riconoscenza, piantò tutti in asso e se ne andò uscendo definitivamente di scena. Sparirono anche Paolino e Cecco, ecc. Noi che restammo, Enzo compreso, eravamo rimasti esterrefatti e increduli. Interessante il seguente passaggio di Carlo Onofrio Gori, storico nato a Prato e pistoiese d’adozione, morto nel 2017, tratto da ‘Personaggi’ (articolo comparso sul n. 38 – nov./dic. 2004 – di “Microstoria”): vi si parla di Silvano Fedi, che fu un importante partigiano anarchico, ucciso dai tedeschi “in un’imboscata dai contorni poco chiari†che operava nell’area pistoiese: “Silvano, anche in seguito, destinerà sempre parte dei materiali ricavati dai suoi attacchi ai presidi nazifascisti di città e dintorni, condotti spesso senza spargimento di sangue, al rifornimento di altre formazioni partigiane pistoiesi, da quella di ‘Pippo’ (Manrico Ducceschi)i, a quelle del Partito Comunista e del Partito d’Azione … successivamente Silvano decise di avvicinare il pistoiese Licio Gelli (in tempi più recenti assurto alle cronache nazionali per la vicenda della Loggia P2), un tenente di 25 anni ufficiale di collegamento fra il fascio pistoiese e la Kommandantur tedesca che già da qualche tempo aveva offerto la propria collaborazione alla Resistenza. A Gelli molti anni più tardi viene fatta risalire da alcuni “esponenti del SISMI: Federigo Mannucci Benincasa e Umberto Nobiliâ€, “sue responsabilità nell’omicidio di Silvano Fedi e nella morte di Manrico Ducceschi, che il Mannucci non riteneva attribuibile ad un suicidio, ma anch’essa all’opera di Gelli.â€. Gelli era in realtà un doppiogiochista. Quando i tedeschi ravvisarono che aveva qualche relazione coi partigiani, egli cercò di sviare i sospetti organizzando per Silvano Fedi in una trappola mortale. Della cosa si era insospettito anche Pippo, e in una lettera a firma “anonimo†(in realtà compilata dal Nobili e dal Mannucci) inviata nel 1981 al Giudice Gentile della sede di Bologna, il quale stava svolgendo indagini su Gelli, si legge: “Pensi, Signor giudice, che quel Manrico Ducceschi, Partigiano di cui accennavo all’inizio di questo mio scritto, era a conoscenza della verità , tutta intera, nella vicenda Gelli-Fedi. L’autrice mostra di aver lavorato con tenacia e pazienza al fine di ricercare prove dell’omicidio contro lo zio, depositario di troppi segreti scomodi. La serie di documenti che stiamo analizzando grazie a lei, non ci hanno fatto trovare ancora quella che in materia di prove viene definita la “pistola fumanteâ€, ma certamente il lettore a questo punto ha già maturato molte perplessità ad aderire alla tesi del suicidio. Nella bella testimonianza su Pippo di Rolando Anzilotti, riportata a pag. 57 del primo volume dell’opera succitata di Carlo Gabrielli Rosi, si legge: “Si vede che il senso dell’umorismo, quello che non è altro che controllo di se stessi, che impedisce di dare troppa importanza e sopravvalutare fatti e persone, non l’ha abbandonato. Ed è bene. Perché sarebbe facile per un giovane di ventitré anni, con tanti uomini sotto il suo comando, tante responsabilità (sono km di fronte quelli tenuti dalla sua formazione), e tanto onore acquistatosi, sarebbe facile perdere l’equilibrio dell’uomo saggio, inorgoglirsi, assumere atteggiamenti e pose importanti da gran capo; molto più quando è capitato di crescere in tempi di dittatori sensibili agli appellativi roboanti, alle lodi sviscerate, e che amavano mettersi le mani sui fianchi con piglio severo e autoritario. E ci sarebbe davvero da montare in superbia per Pippo.â€. Pippo era arrivato a comandare ben 882 uomini! E più avanti, a pag. 59: “Un capo, poi, viene obbedito se ha prestigio, se riesce ad essere il migliore fra tutti gli altri in ogni cosa. La disciplina qui è basata tutta sull’esempio di quelli che comandano e sullo spirito generoso, volontaristico di quelli che eseguono. Perché credi che tanti uomini, spesso più anziani di lui abbiano voluto seguire Pippo per mesi e mesi? E ancora, a pag. 61: “Per chi fosse abituato a pensare agli uomini di guerra come a persone che torreggiano sugli altri, con un fascino tutto personale, gli occhi pronti a penetrare gli animi dei gregari, i gesti e le parole brevi e concise, Pippo credo che costituirebbe davvero una delusione. Questo era Pippo, e lo si vorrebbe morto suicida? Mi convinco sempre di più che la tesi dell’omicidio è la più convincente, quella che è meno esposta a dubbi e a critiche. Pippo sapeva troppe cose, e le sapeva a riguardo dei suoi nemici. L’autrice ritorna sulla pista Gelli, annotando questo particolare. Il 7 gennaio 1947, per i sospetti che gravano su di lui come filo nazista, viene sottoposto dal Ministero dell’Interno ad “attenta vigilanzaâ€. Ma 9 mesi più tardi, l’11 settembre, gli viene concesso il passaporto “per la Francia, Spagna, Svizzera, Belgio ed Olanda.†E quando arriviamo al 1948, l’anno della morte di Pippo, avvenuta, come si sa, il 24 agosto: “Il 9 luglio la vigilanza è ridotta da ‘attenta’ a ‘discreta’ per quanto concerne la posizione del Casellario Politico Centrale. Colpisce che questo allentarsi della sorveglianza, che rende indubbiamente Gelli più libero nei movimenti, avvenga ad appena un mese di distanza dalla morte di Pippo.â€. Si aggiunga che, finita la guerra, Manrico Ducceschi temeva il “pericoloso rossoâ€, ossia l’avvento dei comunisti al potere, i quali già avevano manifestato questo intento sia nel corso della guerra partigiana, sia nel biennio successivo con la sanguinosa resa dei conti nei confronti dei capi partigiani che vi si opponevano. Il già ricordato Giampaolo Pansa nei suoi libri ‘revisionisti’ fa vari nomi di queste vittime. A mio giudizio questa pista è tra le più credibili, visto ciò che era accaduto subito dopo il 25 aprile 1945, allorché furono eliminati pressoché i più importanti avversari dei comunisti. C’era, ovviamente, chi conosceva il lavoro di indagine sul “pericolo rosso†che Manrico stava compiendo e ne sapeva il contenuto esplosivo che avrebbe messo allo scoperto non solo il piano sovversivo, ma anche i nomi di coloro che lo sostenevano. Questa nota appare chiarificatrice: “La zona era fortemente monitorata dai servizi segreti alleati, i quali non si fidavano dei comunisti. Con ‘Pippo’ invece i rapporti si fecero sempre più stretti. Ciò non piacque affatto ai comunisti locali, fino al punto da interessare della questione lo stesso Togliatti, cui non sfuggiva affatto l’importanza strategica della zona. Il documento rinvenuto da Petracchi nei ‘National Archives’ a Suitland è illuminante: il Migliore informa di essere stato avvertito che ‘Pippo’ è al servizio degli Alleati e della monarchia, dalla quale sarebbe anche sovvenzionato, e nutre ‘sentimenti anticomunisti’. Il commento è chiaro: ‘La fedeltà della formazione ‘Pippo’ agli ordini anglo-americani è nociva alla nostra causa perché cattivandosi le loro simpatie e il loro appoggio non giova alla naturale inclinazione del partito verso l’Unione Sovietica’. Pertanto, raccomanda Togliatti, ‘è opportuno prendere adeguate misure perché la nostra propaganda s’infiltri nelle file degli uomini di ‘Pippo’ e ne disgreghi l’organizzazione’.”. A questo punto potrebbe anche essere messa sul tavolo l’ipotesi che il doppiogiochista Licio Gelli, partigiano e allo stesso tempo informatore dei tedeschi, abbia voluto rendersi amico il potente Partito Comunista Italiano, manifestatosi in tutta la sua forza e preparazione militare in occasione dell’attentato a Togliatti del 14 luglio, accaduto, ossia, appena poco più di un mese prima. Con ciò prendendo i classici due piccioni con una sola fava; vale a dire si liberava di un uomo che sapeva la verità sull’omicidio di Silvano Fedi e allo stesso tempo rendeva un grosso favore a Togliatti. In una sua deposizione Giuliano Brancolini, che fu collaboratore di Manrico, esclude che possa trattarsi di suicidio, poiché il Comandante “aveva in ispregio in maniera speciale due tipi di persone: i suicidi e i calunniatoriâ€, e si azzarda a fare due nomi sospetti, subito però attenuando la sua accusa. Brancolini continua ricordando che in casa di Manrico si trovava nascosto un deposito di armi, da utilizzare ove fosse stato necessario intervenire per sedare movimenti, quello comunista in specie, che attentassero alla libertà appena conquistata, visto che si era anche in tempi di sanguinosi regolamenti di conti. Quelle armi potevano dare fastidio, dunque, a chi avesse avuto intenzioni di muovere delle rivolte o addirittura delle insurrezioni. Brancolini precisa: “Chi era a conoscenza di tutti i depositi delle armi era il Franco Caramelli†e che, prima di concedergli la sua fiducia, Manrico aveva chiesto proprio a Brancolini di fare delle indagini sul suo conto; indagini che si conclusero positivamente, ma con qualche perplessità da parte dello stesso Brancolini: “Devo per la verità dire che l’esito del mio sondaggio confermò le impressioni che già precedentemente avevo su di lui. Solo verso il 18 aprile u.s., allorché il Com.te Pippo si schierò chiaramente contro l’A.N.P.I. e contro il Partito Comunista osservai che egli divenne molto silenzioso e cauto.â€. E più avanti: “Versando sempre nell’ipotesi dell’omicidio potrei pensare da quanto ho sopra detto che interesse a sopprimere il Com.te potrebbero aver avuto anche elementi del Partito Comunista Italiano e del Partito Comunista Slavo perché nel Com.te Pippo essi vedevano un serio ostacolo ai loro eventuali piani insurrezionali e ciò per il prestigio che il Pippo godeva tra i partigiani della montagna che come ho già prima detto, sono convinti assertori dei principi di libertà e di lotta contro ogni forma di totalitarismo e di rinascente fascismo.â€. Franco Caramelli, fra l’altro vicino di casa di Pippo, veniva sospettato di essere una spia dei comunisti. Continua Brancolini: “Preciso che di molte cose che venivano discusse in sede di Consiglio della Formazione ed anche di pratiche molto riservate che venivano trattate in quel momento di particolare contingenza dal Com.te veniva informato il Partito Comunista. I sospetti caddero, per esclusione, sul F. Caramelli. Inoltre egli si trovò coinvolto in una delicata questione di armi. Egli unitamente ad un tale Parducci si interessava di traffico di armi con elementi dell’Italia settentrionale. Inoltre all’insaputa di tutti unitamente a tale Perini Pilade si presentò alcuni giorni dopo la morte di Pippo a tale Capretto di Vicopancellorum invitandolo a consegnare loro le armi che aveva in deposito per venderle agli ebrei. Il Capretto osservò che egli non stava a tale proposta e chiese inoltre a chi sarebbero andati i denari provento della vendita. Il F. Caramelli rispose “ce li dividiamo tra di noi.”.†Brancolini ci fa anche sapere, dunque, che il Caramelli, all’insaputa di Pippo, insieme con altri aveva avviato un commercio di vendita di armi agli ebrei, e precisa: “Per quanto il Com.te Pippo avesse subito diverse pressioni da parte della formazione ebraica I.Z. di vendere delle armi egli si rifiutò sempre, ma non credo che questo sia elemento tale da giustificare un assassinio.â€. Però: “Preciso anche che il 24 agosto alla mattina, cioè quando il Com.te era già morto, il Franco Caramelli fu incontrato nel tratto da Piazza S. Michele a Piazza Napoleone dal Sig. Giannini. L’impressione da questi provata è che il Franco Caramelli fosse sconvolto come sotto una viva e profonda impressione provata. (…) Preciso pure, come la S.V. mi chiede, che il Franco Caramelli è stato spesso in possesso della chiave di casa di Pippo e che la finestra della camera di Pippo è contigua a quella del Caramelli.â€. Per chi non è lucchese, va detto che Manrico Ducceschi abitava proprio in Piazza San Michele, di fronte all’omonima e bella chiesa. Più avanti, nella deposizione resa da Franco Caramelli, che fu l’ultimo a vedere Pippo vivo, si legge: “Nego di aver compiuto commercio illecito di armi a favore di ebrei per mio personale lucro, solo ammetto di aver ceduto circa 10 casse ad ebrei per mezzo di Parducci Vasco. Di questa mia attività ne era al corrente anche Pippo, perché lui stesso si interessò della cosa insieme a me.â€, e poi: “Pippo mi invitò a salire nel suo appartamento dove mi trattenni fino alle ore 23.30 circa. Appena saliti ci recammo in cucina per fare una tazza di tè. Io mi limitai a buttare nella teiera il tè, poi portammo il tutto in salotto e deponemmo sulla stufa la sola teiera, mentre le tazze e lo zucchero sul tavolino. Fui io a versare il tè nelle tazze. Abbiamo già letto che il cadavere fu scoperto da Fernando Ducceschi, il padre di Manrico, che si accorge che qualcuno, che è in possesso delle chiavi, sta entrando nell’appartamento. Altri non è che il Brancolini, il quale crede di essere stato il primo, insieme con altri due, De Maria e Giannini, a scoprire il cadavere: “A rinvenire il cadavere fui io, il De Maria ed il Giannini i quali ci recammo a casa di Pippo a vedere ciò che era successo su consiglio del Maresciallo dei Carabinieri Carboni.â€. Evidentemente ad informare il Maresciallo era stato Fernando. A questo punto dobbiamo ritornare alla morte del partigiano anarchico Silvano Fedi, per il quale la responsabilità di averlo attirato in una trappola ordita dai tedeschi è attribuita a Licio Gelli. In campo, dunque, si susseguono ipotesi tutte interessanti ma, purtroppo, non così fortemente incisive e probanti, da poterne selezionare una del tutto esaustiva. Il libro non dà conclusioni ma permette a ciascuno di tirare le proprie. Per quanto mi riguarda, la mia impressione ne esce confermata, ossia che non si è affatto trattato di suicidio, ma di omicidio. Un omicidio perfetto, e lo è diventato nel tempo, a poco a poco, con il trascorrere degli anni e il decesso di tutti i testimoni. Non dimentichiamo che Franco Caramelli, nella sua deposizione, ci fa sapere, a proposito dei suoi rapporti con Pippo: “Preciso che l’amicizia diventò intima verso gennaio-febbraio 1948. Mi occupai insieme a Pippo di questioni interessanti la politica in vista delle elezioni del 18 aprileâ€. E che, come scrive l’autrice ricordando il libro del prof. Giorgio Petracchi: “Al tempo che Berta filavaâ€: “Pippo stava diventando sempre più una spina nel fianco dei comunisti disposti a prendere il potere con ogni mezzo nella neo-nascente Repubblica Italiana.â€. Il lungo ordine del giorno dell’8 marzo 1945, che ha tutto l’aspetto di uno Statuto della XI Zona, può offrire ulteriori spunti in questa direzione, laddove è raccomandata l’autonomia dei militanti da ogni partito politico; il non riconoscimento di un governo nato da “questo†CLN che “si è dimostrato assolutamente inefficiente, impotente e parziale di fronte alle necessità del periodo di dominazione passata e presente.â€, ma rispettando “nel modo più rigoroso le istituzioni che presiedano all’amministrazione della legge, all’ordine pubblico, all’amministrazione annonaria e finanziaria della popolazione civile.â€. Leggiamo anche, al punto 5, una motivazione di gran valore: “L’uomo prima di raggiungere una maturità politica, deve avere già raggiunto una maturità morale; prima di conoscere le leggi, con cui poter governare la società , deve acquistare la conoscenza di come governare se stesso; l’uomo dovrebbe essere prima uomo e poi cittadino. Nei ricordi d’infanzia che l’autrice ci consegna a conclusione del libro, eccone uno che mostra quanto la famiglia abbia corso seri pericoli per tutta la durata della guerra partigiana: “Se i tedeschi avessero individuato, avessero capito che eravamo i familiari di Pippo, ci avrebbero fatto del male e magari ucciso, pur di arrivare a lui. Un giorno quasi arrivarono a questo risultato, ma si riuscì a scappare, dentro un carro funebre, con tanto di bara, dove nonna faceva la madre del morto ed io… nascosta sotto la cassa. Per fortuna che era vuota!”. Questo, invece, è un aneddoto che riassume quanto Pippo fosse amato dai suoi uomini: “È il Natale del 1944. Qualcuno ha ottenuto la licenza per passare il Natale in famiglia. Vanno verso Arezzo, Roma, ecc. Arrivati a Firenze, però, si domandano: ‘Ma dove si va?’. Letto 628 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||