LETTERATURA: “I compagni del fuoco” di Ernesto Aloia
19 Settembre 2007
di Paolo Cacciolati
E’ difficile capire, e poi spiegare, perché un libro come questo, I compagni del fuoco, di Ernesto Aloia, non abbia risposto alle mie aspettative.
Non intendo scimmiottare l’artiglieria della critica che appunto artiglia implumi prede (pratica peraltro sempre meno in voga, a favore di un generalizzato quanto soporifero laissez faire). Vorrei solamente provare a spiegare cosa non mi ha convinto di questo libro.
Forse è colpa mia che sono partito nella lettura un tantinello indisposto per il prezzo. 18 euri. Per carità, povero lo stesso anche senza i suddetti. Il fatto è che per un prezzo superiore alla media uno mercantilmente si aspetta anche un prodotto superiore alla media.
Poi, la carta di questi libri 24/7 mi pare piuttosto da edizione economica, leggerina, giallina, rasposina. Peccato per la Rizzoli, che mi piace già solo per il logo con quella erre che si allunga come un calzascarpa, quasi un invito a calzare con comodo la lettura del libro. Magari il prezzo è collegato alla lunghezza del romanzo: trecentonovantun compattissime pagine.
Ma ovviamente la questione non è il prezzo, la carta o la lunghezza, perché con novantun o cencinquantun pagine in meno il risultato, credo, sarebbe lo stesso.
E allora? Dov’è la questione? Forse nella trama? E’ debole, incoerente, non convincente? Può essere, ma non è questo ciò che non mi convince.
Al centro della vicenda l’autore pone un triangolo familiare. Il padre, Valerio, la madre, Miranda, il figlio, Sebastiano. Valerio e Miranda si sopportano, trascinano un menage coniugale saldato sulle periodica lontananza per lavoro. Seba invece i suoi proprio non li sopporta, come da prassi a sedici anni. Studia da talebano, lui. Il suo eroe è John Walker Lindh, detto il “talebano americano”, vissuto parte in California e parte in vari paesi islamici, detenuto in un carcere di massima sicurezza a Florence, Colorado, per sobillazione al terrorismo.
Un tipo retto e coerente, Seba, mica come quei rammolliti dei genitori impegnati in attività di progresso occidentale, Miranda avvocato esperta in diritti d’autore, Valerio coordinatore del Cingip (Centro Internazionale Non Governativo per una Iniziativa di Pace), ente che si occupa di rilevare l’Indice Conflittuale Globale (ospitato in prima pagina dal più letto quotidiano nazionale), lautamente sponsorizzato da varie compagnie finanziarie tra cui la Banca Cooperativa del Nord Ovest. Naturalmente i finanziatori non si esimono dall’utilizzare l’immagine umanitaria del Cingip per il lancio di un nuovo fondo d’investimento, il Fondo Etico Plus Bilanciato, con destinazione le Grandi Cause per la pace, l’ambiente, il terzo mondo. Patrimonio accumulato in tre mesi: duecento milioni di euro.
La trama procede tra filmati jihadisti di soppressione, litigi tra Valerio e Miranda su come riportare il figlio sulla retta e occidentale via, e la dura vita degli attivisti del Cingip, in quella che in questi casi si dice una girandola di situazioni e avvenimenti. Una girandola che a volte pare girar bene, come quando mette a fuoco certi personaggi dell’ambiente di Valerio, altre volte invece sembra girar poco, anche a vuoto.
Che poi ci sarebbero svariati elementi interessanti in questo romanzo. Non è niente male la riproduzione di un certo mondo che ingrassa con le sovvenzioni per le opere pacificamente ed eticamente corrette. Non è niente male la rappresentazione di certi personaggi coccodrilli di palude no profit. Non è niente male l’infiltrarsi della trama nelle propaggini caserecce del fondamentalismo islamico. Non è niente male la descrizione di molti luoghi di Torino, pur mai citata esplicitamente, ma suggerita con efficacia nelle tracce e sovrapposizioni che il tempo accumula nei luoghi della città (seppur la similitudine di pagina 217 con una donzella ristrutturata non è forse freschissima).
Però.
Colpa della mia immaginazione disturbata o forse solo di una momentanea propensione a interrompere la lettura per mettermi a fare qualunque altra cosa, però ho avuto l’impressione che i personaggi avessero voglia di interrompere l’azione o i dialoghi per domandarsi (e domandare al lettore): ma io che ci sto a fare in questo libro?
Insisto a chiedermi perché e come queste pagine rafforzino la mia propensione ad abbandonarle, e trovo una sola risposta. Non invitano al cumpatire, inteso come patire con, soffrire (o esultare o incazzarsi o provare qualunque altro genere di sentimento) insieme ai protagonisti dei libri, infilarsi sotto la loro pelle.
Mi viene in mente una canzone di De Andrè, Il ritorno di Giuseppe, contenuta nell’album La buona novella, dove in quattro righe si suggerisce la fatica di Giuseppe nell’attraversare il deserto per tornare da Maria.
Ai tuoi occhi, il deserto,
una distesa di segatura,
minuscoli frammenti
della fatica della natura.
Gli uomini della sabbia
hanno profili da assassini,
rinchiusi nei silenzi
d’una prigione senza confini.
Vero che De Andrè è De Andrè, vero che non si può comparare una lirica con un romanzo, però ne I compagni del fuoco non ho trovato traccia di questo. Non ho trovato immedesimazione o slanci nella narrazione o picchi di pathos che mi abbiano coinvolto emotivamente.
Questo è quello che manca, a mio parere, nel romanzo di Aloia, Il quale, pur essendo all’esordio come romanziere, non è certo autore di primo pelo (di lui sono uscite due raccolte di racconti per minimum fax, Chi si ricorda di Peter Szoke nel 2003 e Sacra Fame dell’oro nel 2006).
Come dicevo all’inizio, non credo che sia una questione di lunghezza dell’opera, e del resto non so quali siano i modi più efficaci per realizzare questo meccanismo. Ma auguro a Ernesto Aloia di svelarcelo nel prossimo libro.
Ernesto Aloia, I compagni del fuoco, Rizzoli 24/7. 18 euro.
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