Ridateci un Falcone24 Maggio 2013 di Alessandro Sallusti Se io fossi un giornalista straniero (ma che dico: perfino italiano) mi soffermerei su questa storia degli sms di Dario Franceschini e delle reazioni che ne sono seguite. La storia è nota: il ministro per i Rapporti col Parlamento ha inviato dal suo cellulare privato un messaggio privato a una decina di amici privati romani per chieder loro di votare per la sua compagna Michela Di Biase, candidata al Consiglio comunale capitolino. Il messaggio è stato però inoltrato da qualche amico traditore al sito grillino, dove Franceschini è stato linciato con parole dementi e rozze dai moderni sanculotti che non si sa in base a quale imbecille principio pseudo etico lo hanno accusato di aver «raccomandato » la donna che ama e con cui ha cominciato da poco una nuova vita. Fin qui la cronaca dei fatti. Una posizione cretina, ma diffusa. Poi le reazioni. L’occasione l’ha sfruttata Daniela Santanchè schierandosi pubblicamente con Franceschini con una dichiarazione in cui dice che il ministro è stato «additato alla pubblica gogna per avere fatto ciò che qualsiasi uomo che ama veramente dovrebbe fare nei confronti della sua donna ». Il linciaggio grillino viene definito «da voltastomaco » e poi la Santanchè cala la carta vincente: quella dell’amore che riguarda tutti, di destra o di sinistra senza trascurare il centro, dicendo: «Mi sarei stupita da donna se il mio compagno si fosse comportato diversamente da Franceschini. Mi congratulo con lui e gli auguro di non cambiare mai ». Il fatto inatteso è che la dichiarazione a favore di Franceschini è stata immediatamente ripresa dalle edizioni online sia di Repubblica sia del Corriere e da altri giornali non di destra, che si sono trovati in un certo senso scavalcati e spiazzati. Daniela Santanchè come politico non è sempre considerata simpatica e anzi – per usare una parola banalizzata dalla moda – si può dire che sia piuttosto «divisiva », nel senso che sta sulle scatole a un sacco di gente anche se Michele Santoro l’ha elevata al rango di anti-Travaglio nell’ultima puntata di Servizio Pubblico. La notizia ha insomma preso un po’ tutti di contropiede sul fronte giornalistico, ma non si tratta soltanto di giornalismo. Ciò che questo episodio dimostra, a nostro parere, è il cambiamento di clima che si sta producendo: una specie di global warming nei rapporti umani che si ripercuote sulla politica. Ciò che Daniela Santanchè ha colto e trasmesso, è la possibilità di usare il tema dell’amore come tessuto cicatrizzante contro la pratica degli strappi brutali e delle ferite personali. Che cosa c’è di più comprensibile, lodevole e piacevole che un gesto di solidarietà di un uomo che cerca di dare una mano alla propria donna, e viceversa? E se ci si mette dalla parte della centralità della vita amorosa, si scopre che proprio di lì si può partire per scardinare la pratica del linciaggio. Il linciaggio è ormai diventato un sistema di comunicazione a media intensità : proprio Franceschini ne ebbe una brutta esperienza quando si trovò assediato dai sostenitori di Grillo mentre era in un ristorante. Ma la pratica della denigrazione, dello scherno, della distruzione dell’immagine dell’avversario (una pratica felicemente inaugurata da Goebbels nella Germania nazista, subito copiata ed esaltata in Unione Sovietica e di lì resa pratica comune nei processi politici) indica oggi non soltanto una inclinazione mentalmente violenta, ma illumina una parte politica di quella sezione della sinistra che punta al logoramento dei rapporti fra i partiti della coalizione e dunque del governo Letta per renderlo debole e liquidabile con una spallata finale. Ciò ha un fondamento logico: l’area del mal di pancia interno al Pd, quella degli occupy Pd, dei vendoliani e della frangia grillina che rappresenta i centri sociali, punta all’acutizzazione del dissenso per disfare l’alleanza di governo. Quell’area viene nutrita da chi come Zanda e Finocchiaro scommette su misure improponibili come la non votabilità dei 5 Stelle e l’ineleggibilità di Berlusconi. Ma c’è poi un’altra area nel Pd che invece punta sulla normalizzazione dei rapporti politici e umani fra destra e sinistra, sia perché il governo ne guadagna in salute, sia perché è un buon servizio pubblico con cui disintossicare la vita politica quotidiana dagli spurghi dell’odio e dei rancidi rancori. L’aggressione online nei confronti di Dario Franceschini per aver osato suggerire a dieci amici «votate per la mia compagna » non è soltanto un episodio sgradevole ma un gesto politico che punta al sacrificio umano, all’uccisione della personalità , quella che gli inglesi chiamano charachter assassination, per mantenere sotto pressione una linea politica. È a questo punto che la dichiarazione della Santanchè arriva sparigliando perché dice siamo proprio noi di destra a prendere pubblicamente le parti di Franceschini sul terreno dell’amore di coppia e dei profondi affetti che, avendo un valore universale, permettono di lanciare un collegamento trasversale. Siamo sicuri che mai e poi mai Dario Franceschini avrebbe potuto pensare a tali sviluppi quando inviò i famosi sms, ma la casualità della politica è anche la sua parte migliore. Dunque oggi sappiamo perché Silvio Berlusconi è stato condannato in appello alla galera e all’interdizione dai pubblici uffici nel processo per i diritti cinematografici. È tutto scritto nelle motivazioni, depositate ieri, della sentenza. I giudici ammettono che all’epoca dei fatti l’imputato non ricopriva alcun incarico in Mediaset in quanto già presidente del Consiglio, ma sostengono che è ovvio che lui continuasse a comandare in azienda, della quale frequentava abitualmente i vertici. Già apprendiamo una prima notizia, cioè che per la magistratura frequentare l’amico di sempre Fedele Confalonieri e il figlio Pier Silvio costituisce di per sé un grave indizio di colpevolezza. Ma la follia va oltre, ed è sintetizzata nella parola «ovvio », usata per coprire la mancanza di prove. Quindi da oggi il nostro codice penale si arricchisce di un nuovo reato, quello dell’ovvietà , cioè trasformare un teorema in verità senza bisogno di pezze d’appoggio. Non fare il furbo, è ovvio che tu sia colpevole. Perché? Perché lo dico io, ovvio. Se potesse leggere simili motivazioni, il giudice Falcone, ne sono certo, si rivolterebbe nella tomba nonostante il suo volto campeggi nel poster appeso all’ingresso del Palazzo di giustizia di Milano. Ed è ovvio perché. Il suo maniacale rigore investigativo lo induceva a evitare di portare a processo anche il più noto, e ovvio, dei mafiosi senza avere in mano prove schiaccianti. Al punto da non utilizzare a lungo, contro il parere dei suoi colleghi, le clamorose confessioni fiume di Buscetta (primo grande padrino pentito di mafia) perché il disgraziato aveva raccontato di aver frequentato la casa di un politico mafioso collocando nel salone un camino del quale nella realtà non c’era traccia. Se mente su un camino, ragionò Falcone, Buscetta potrebbe mentire su tutto. E non si fidò fino a quando scoprì che il camino esisteva davvero, era stato solo coperto nel corso di una ristrutturazione. Questo è un magistrato onesto e leale anche nei confronti dei cattivi a cui dava la caccia. Non arrestava neppure il peggiore dei criminali su teoremi, supposizioni o voci, ma solo su fatti precisi e circostanziati. Ovviamente, l’hanno ucciso. Per favore, ridateci un Falcone, cacciatore di camini e verità . Requiem per la destra Mai così marginale, ininfluente, inafferrabile dal secondo Dopoguerra a oggi. Così si offre la destra italiana allo sguardo di chi voglia misurarne il battito cardiaco dopo le elezioni politiche del febbraio scorso. Malgrado alcuni recenti, non disprezzabili tentativi di dilatarne la rappresentazione includendovi la ventennale vicenda berlusconiana (vedi Antonio Polito nel suo “In fondo a destraâ€, Rizzoli), la destra qui presa in esame è quella post fascista nelle sue più sottili ramificazioni, secondo la filiera che dal Movimento sociale italiano ha via via generato: Alleanza nazionale (1995-2008), un terzo del Pdl guidato da Gianfranco Fini (2008-2012), la Destra di Francesco Storace (2007) e Fratelli d’Italia (2012). La quota di ex missini rimasta nel partito berlusconiano e riconducibile a Maurizio Gasparri ha programmaticamente rinunciato a un collegamento esplicito con l’area politico-semantica della destra. All’inventario delle sigle va naturalmente aggiunta la formazione di Fini, Futuro e libertà (2011), disastrosa scommessa personale del più longevo e discusso leader nella storia post fascista. Quanto alle così dette forze residuali anti sistemiche presentatesi agli elettori, da CasaPound e Forza nuova alle innumerevoli fiammelle sparse, la totalità dei loro voti è appena superiore alla loro completa irrilevanza sulla scena. La novità del momento è questa: ammessa per ipotesi retorica che la temperie del Ventennio mussoliniano sia rappresentabile come una possente tempesta d’acciaio piombata sui cieli italici dal 1922 al 1945, a distanza di quasi settant’anni si stanno definitivamente prosciugando le pozzanghere di quella tempesta, gli acquitrini sopravvissuti al Fascismo. Come ha scritto il terzaforzista Gabriele Adinolfi, “adesso non veniteci a cantare la solita solfa della riunificazione. Il Msi è stato definitivamente sotterrato. Se non si riuscirà a immaginare e concretizzare un futuro peronista non si potrà che assistere al continuo declino per scissioni†(noreporter.org). Ma più che di declino è bene parlare di dissoluzione per sfinimento. E non è detto che sia un male. La scomparsa di cui stiamo parlando riguarda anzitutto una “classe dirigenteâ€: uomini e donne che autoproclamandosi “di destra†hanno progressivamente dissipato una rendita ben radicata nell’Italia del Novecento, dimostrandosi completamente inadatti a rappresentare le idee e le istanze delle quali s’erano improvvisati cantori e portavoce. A meno di ritenere, e non è così, che nel corredo genetico della destra siano contenuti come legge di natura l’insopprimibile tendenza al malgoverno e, in casi non rari, alla delinquenza. L’esperienza della destra di potere, appuntamento epocale reso possibile dall’affiliazione al berlusconismo, è al riguardo un banco di prova inoppugnabile. Messa più volte, dal 1994 a oggi, in condizioni di governare l’Italia da Palazzo Chigi, senza contare numerose regioni e altrettanto importanti enti locali, la destra si è sfarinata elettoralmente e ha rovinosamente perduto la sua credibilità politica. Il corredo di scandali, denunce per nepotismo e inchieste giudiziarie che ha accompagnato la fine della giunta Polverini nel Lazio e che accompagna ora l’ingloriosa fine-sindacatura romana di Gianni Alemanno vale come testimonianza plastica di una bancarotta morale non meno che strategica. Che tutto questo sia stato possibile è un fatto, per quanto stupefacente agli occhi del senso comune. Come tutto questo sia avvenuto è questione sulla quale dovrà soffermarsi chiunque si sentirà chiamato a ricostruire sulle rovine della destra. Che fai, mi cacci? Che fai, mi riprendi? Su tutt’altro fronte, quel che resta della Destra sociale di Gianni Alemanno ha combusto la propria immagine di forza alternativa allo strapotere berlusconiano, all’amletismo finiano, al tatticismo superficiale degli storici avversari interni Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri. La totale assenza alemanniana dal discorso pubblico innescato con la nascita di Futuro e libertà si è perfettamente combinata con il tentativo di procedere a un berlusconicidio pre elettorale sanzionato dal mondo clericale (da Comunione e liberazione in giù) con cui il sindaco di Roma è infeudato da sempre. In poche parole, dall’inverno scorso Alemanno ha cullato il sogno di un’iniziativa di conio popolare che procedesse alla rimozione dolce (ma nondimeno completa) dell’ostacolo Berlusconi. Receduto dall’azzardo, causa colpo di reni della vittima sacrificale, Alemanno è stato fra i primi a ritornare all’ovile proclamando nuovamente una fedeltà tanto palloccolosa quanto inane. Il che non è gli bastato, tuttavia, per riconquistare una dimensione nazionale degna della sua superbia, né per sfuggire alle conseguenze del suo disastroso quinquennio al Campidoglio. Una debolezza parallelamente meschina caratterizza l’operazione Fratelli d’Italia. Il volto non più acerbo della leader (ed ex ministro pidiellino) Giorgia Meloni è insufficiente a coprire il pizzetto consunto dell’ex berlusconiano d’acciaio Ignazio la Russa. Concepito come un disperato tentativo di differenziarsi dal declinante benefattore di Arcore, nell’auspicio di contenere l’emorragia di voti destinati all’astensione o al grillismo, il gruppo di Meloni è appassito prima ancora di germogliare per la semplice ragione che non aveva alcunché da offrire al suo potenziale elettore che non fosse già stato offerto in precedenza con l’etichetta del Pdl. Per quale ragione un cittadino che ha votato prima An e poi Pdl avrebbe dovuto premiare Fratelli d’Italia? E in effetti, a ben guardare la composizione di quel deludente uno-e-qualcosa per cento rimediato nelle urne, si comprende con facilità che la cifra origina nel pacchetto sempre più impoverito delle clientele militanti di una corrente (la Destra protagonista) un tempo egemone in An e dalla quale, con una coerenza che gli va riconosciuta, si è distaccato l’iper berlusconiano e mai fascista Maurizio Gasparri. Che fai, mi ignori? Requiem o palingenesi? Il testo riprodotto verrà pubblicato sulla Rivista di Politica diretta da Alessandro Campi, n. 2, aprile-giugno 2013, con il titolo: “La fine di un mondo. Come (e perché) si è dissolta la destra†in Italia Letto 1974 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||