Romano, Livio7 Novembre 2007 Niente da ridere “Niente da ridere” (2007)Marsilio, pagg. 366. Dopo “Mistandivò”, una raccolta di racconti uscita per Einaudi nel 2001, e il primo romanzo pubblicato l’anno successivo da Sironi, “Porto di mare”, l’ultima prova letteraria dell’autore, edita in una nuova collana da Marsilio, era attesa quale conferma di una delle voci più interessanti del nostro Sud, attenta alle modificazioni sociali di quella parte del territorio che ancora oggi patisce più che altrove gli inserimenti quasi sempre violenti della modernità . Il cosiddetto progresso trova nella popolazione meridionale la cartina di tornasole di un malessere e anche di una follia che reca sempre con sé. Livio Romano a questo è attento e i suoi libri, accompagnati da una comicità amara, finiscono per essere una dura e ostinata denuncia contro l’ipocrisia, la mistificazione e l’inganno del vivere. In una conversazione rubata al web, e precisamente alla rivista vibrissebollettino, curata dallo scrittore Giulio Mozzi, l’autore scrive a Leonardo Colombati, nel momento in cui sta per uscire, di lì a pochi giorni (il 7 marzo 2007), il suo romanzo “Rio” per Rizzoli: “La critica, lo so già , si aspetta i fuochi d’artificio linguistici di Mistandivò. E anche in “Niente da ridere” continua a trovare la lingua ‘sincopata’, ‘rappata’, ‘espressionista’. Ma io ho fatto questo libro per raccontare una storia.” Si comincia con un incidente stradale che rovina le gambe al protagonista Gregorio Parigino, trentacinquenne, insegnante e giornalista free lance, il quale, ricoverato in ortopedia, in una cameretta dove c’è un solo paziente, un ragazzino con la testa fasciata per un intervento chirurgico, e che soprannomina Tutankamen, si mette a rinvangare il suo modo di vivere frettoloso e disordinato per il quale non c’è “niente da ridere.” La scrittura, moderna e piacevole, ha il ritmo frenetico della stessa vita che ci racconta, senza pause, in uno scorrimento che dà la sensazione reale dei secondi che scandiscono i gesti minimali e i pensieri minuti della nostra esistenza, la quale è in grado, attraverso l’usura della modernità , di trasformarci in esseri-marionetta dall’esilarante e malinconico destino. L’autore si trasforma così nello spettatore di questo teatrino di marionette, agitate da un perfido filo in mano altrui, e gioca con esse alla ricerca di una comicità che le riveli per ciò che sono diventate, e nello stesso tempo consente con la sua scrittura prensile di sedersi accanto a lui per assistere ad una esibizione la cui durata occupa tutto la spazio della vita. È ridendo, è divertendoci, infatti, che prendiamo atto malinconicamente di come siamo, assimilati alle povere marionette che ci zompano davanti, così che il nostro riso e il nostro divertimento si rivelano come l’incosciente rappresentazione di una sconfitta. Il protagonista, in effetti, pur riuscendo a fatica a destreggiarsi in un tale caos, ricorre continuamente alla “tonificante mandorla di Alprazolam”, un ansiolitico che lo calmi: “Lascia che sia oh sì lascia che sia.” I personaggi adulti hanno bisogno di farmaci che li aiutino ad affrontare le più disparate situazioni a cui la vita li mette di fronte. Niente da ridire, perciò, come suggerisce il titolo; piuttosto un bisogno di uscire dalla rete nella quale siamo stati imbrigliati per raccogliere i nostri pensieri e le nostre azioni e dare loro un senso più responsabile e più a misura d’uomo: “È la forza del senso che tiene vivi noialtri umani.” Quella in cui vive Gregorio è una famiglia del tipo pennacchiano, ma anche del tipo Casa Cupiello, in cui si va e viene trascinati dall’impellenza del vivere, che ha tradotto in macchietta la nostra vita. Delia, ufficiale veterinaria, è la moglie che deve badare, oltre che al marito e alle figlie, alla mamma di lui, alla mamma della mamma, ultracentenaria che si chiama Gregoria, e allo zio Filippo, che si è stabilito in casa loro, scacciato per debiti dalla moglie, nonché Rosina Giarricone, un’architetta “giunonica” amica di Delia, e “cinque bambine festanti che stanno demolendo un armadio.”, di cui due sono le figlie e tre le loro cuginette. Ma quella casa è anche un porto di mare ricco di estrosi personaggi, a cominciare dallo scalcinato zio Filippo, e da Quintino Todisco, “di anni sessantasette”, “Irrimediabilmente rincoglionito”, che milita nel partito dei Verdi e propone a Gregorio (“Non sapevo neanche che fossero approdati i Verdi nella mia città .”) di candidarsi nella loro lista. Come in “Porto di mare”, la società con i suoi irrisolti problemi e le sue contraddizioni trova in questa occasione il modo di palesarsi in un giudizio severo che tocca in primo luogo l’ipocrisia e l’incapacità inveterata dei governanti: “Come se non sapessi che chiunque vincerà saprà ben farsi gli affari propri prima ancora che quelli della civitas.” Un candidato, suo avversario, “gira con la Kefiah palestinese intorno al collo e falce e martello d’oro bianco appesi alla catenina della cresima insieme con Madonna di Lourdes e Padre Pio.” Mettersi in politica, tuttavia, può avere i suoi vantaggi anche per uno come Gregorio, visto che l’Onorevole Turchetti, “ex picchiatore, già passato per il partito di Togliatti indi per quello di Spadolini.”, gli promette mare e monti e un potere personale che può metterlo in vista agli occhi dei suoi, ed anche aiutarli a trovare una occupazione stabile. Lo stile scoppiettante, giovanilmente moderno, riesce a trasformare il dramma sociale in un’ironica e burlesca rappresentazione di ciò che l’uomo è capace di combinare quando la ragione è messa al servizio dell’interesse personale, dell’egoismo, della vanità e del desiderio di ricchezza. Il lettore, come nel teatro goldoniano, si diverte e nello stesso tempo apprende le inadeguatezze e le distorsioni della nostra vita. Quella di Romano è un’operazione riuscita, proprio perché tiene incollato il lettore alla sua storia mostrandogli come dietro il riso che si scatena in lui si celi una profonda e inattesa delusione. E tuttavia, l’autore sembra suggerire di non farne un dramma tale da indurci ad odiare la vita, ma di prendere la nostra esistenza come un gioco senza vincitori né vinti a cui siamo stati chiamati a partecipare. Dice la moglie Delia a Gregorio: “mi basterebbe riuscire a trascorrere una giornata al mare da soli noi due e le bambine, tutto qui.” Direi che c’è un’immagine efficace la quale rende il succo della storia, ed è quella del capellone “ecuadoregno”, detto anche “boliviano”, “guatemalteco”, “peruviano”, “tedesco”, “svizzero” e così via, raccattato da Rosina e portato in casa di Gregorio, il quale “ha un’andatura claudicante, direi proprio zoppa, è diosanto zoppo di una zoppia mai vista. Cammina sulla punta degli stivali e con gli arti superiori compensa lo squilibrio tenendoli piuttosto svolazzanti in avanti, preferibilmente verso le natiche di Rosina.” La parte centrale è rappresentata dalla campagna elettorale che Gregorio, con la sua gamba ancora ingessata, è costretto a fare su insistenza di Quintino. Le situazioni esilaranti non si contano. Eccone una: i due si recano da una famiglia il cui capo è un ferroviere che per passione si dedica alla “botanica, erboristica, alchimia, veleni, antidoti.” Domanda ai visitatori se vogliano acquistare un collirio che fa bene agli occhi, visto che li hanno stanchi e arrossati. Naturalmente rispondono di sì, perché “bisogna dar gusto agli elettori”: “A turno ci infiliamo nelle pupille tre o quattro gocce dell’intruglio che ci porta. Quintino dichiara di sentirsi un altro. Io comincio a non vederci più niente. Mi son messo negli occhi candeggina, altro che collirio. Peperoncino piccante, ortiche liquide, cosa cazzo mi son ficcato nei miei poveri occhi? Lacrimo e sento un prurito insopportabile. Faccio segno a Quintino di portarmi a casa. […] e sono pure mezzo ubriaco ché invece di vino il ferroviere ci ha versato acquavite a quaranta gradi, secondo me.” Durante questo periodo conosce Wanda, una bella “sventolona” che gira con un furgone e vende torrone. Intreccia una relazione con lei, perseguitato dai suoi sms ed e-mail accattivanti. Ma quando in campagna elettorale gli accade un increscioso infortunio, “Neppure l’sms di Wanda che proclama una mia somiglianza con Nicolas Cage mi fa riprendere.” Il romanzo affronta questa avventura politica per segnarne con umorismo gli intrallazzi, i compromessi, le bugie e via discorrendo, in modo tale da stabilire una connessione stretta tra il caos della vita familiare e quello dell’ambiente politico, senza che sarà mai possibile, però, stabilire una gerarchia di causa e di effetto, a tal punto che il disordine sociale diviene anche leggibile quale conseguenza generalizzata di un mutato ordine di valori. Così accade che il caos che imperversa ovunque e la frenesia dei tempi nostri, si avvolgono in una spirale sempre più vorticosa e pervasiva che comincia a lasciare dolorose ferite: “Dobbiamo imparare a chiudere gli occhi e lasciare che il mondo vada allo sfacelo.” Delia non ne può più di avere per casa tutta quella gente e se la prende con Gregorio, al quale scarica tutte le responsabilità fino a costringerlo ad abbandonare la casa. Altre peripezie attendono il protagonista che, uscito all’inizio del romanzo dall’ospedale con la gamba fratturata, ora vi deve far ritorno per il braccio, colpito da una palla da bowling: “Porto ancora le bende elastiche alla gamba sinistra e dopo un’ora dallo schianto con la palla rosso amaranto sono seduto sulla sedia a rotelle con questo braccio destro ingessato a L e issato a mo’ di saluto nazista.” La scelta dell’autore di passare in rassegna le sue giornate quasi minuto per minuto ed osservarle e metterle in risalto come se le vivesse attraverso una lente di ingrandimento, rende i paradossi che incontriamo talmente esilaranti e paradigmatici che il sorriso che si muove sulle nostre labbra è il sorriso di chi riconosce una realtà che gli appartiene. Gregorio siamo noi stessi immersi in quella specie di rivoluzione copernicana che percorre l’uomo moderno, non ancora arrivata a destinazione: un impasto incendiario che non sappiamo ancora se conduca alla distruzione o ad una rinascita: “La mia persona, questa piccola rotella a punzoni, cosa fa? Gira di nuovo a vuoto? Non ingrana con la grande ruota del mondo? Sfriziona di brutto?” Quintino, il vecchio professore “alto un metro e novanta” che lo ha trascinato alla candidatura, poi finita malamente, in un dialogo con il protagonista, che troviamo quasi al termine, dà indirettamente il senso di questa scrittura. Quintino sta scrivendo un romanzo e alle domande di Gregorio risponde: “Io sono un cronista, va bene? Io devo raccontare la vita delle persone. Di quelli come te, dei ragazzi che devono trovare un lavoro, dei vecchi come me che sognano ancora l’amore eterno, queste cose qua…” E ancora: “Non mi importa nulla dei posteri. Voglio vedere io stesso che reazione hanno quando leggono le mie storie.” Il romanzo evoca ogni tanto la figura del padre, che si pone come la sorgente di quella vita del protagonista che si sta srotolando nel disordine morale e materiale. Rude, distratto, freddo (“Tu tornavi e divoravi senza badare al sapore”), il padre, morto anni prima, è il rimando e l’alibi di una colpa, l’enigma freudiano la cui soluzione potrebbe d’un tratto ricomporre il tutto. La sua immagine si presenta ogni qualvolta la realtà intorno a Gregorio ammutolisce e si fa solitudine. Sembra che il padre, più ancora dell’adorata madre, sia il solo compagno capace di spronarlo nei momenti di smarrimento e di portarvelo fuori. Le colpe del padre, ossia, si trasformano in una vibrazione così forte da ridestarlo in tempo e proprio sulla soglia della sconfitta: “Io credo che gli uomini siano programmati per essere felici, come il resto degli animali.” E nel momento in cui Gregorio esce dal torpore e riacquista una lucidità prima smarrita, si fa sempre più intenso il ricordo della sua vita con Delia. Siamo ora a Londra, Delia e Gregorio hanno trovato un nuovo lavoro fuori dall’Italia. Sono tornati a vivere insieme; la vita sembra non dar loro ancora quella tregua che cercano, ma si preannuncia, come fosse una nuova primavera, il lento, dolce risveglio alla speranza. “Porto di mare” (2002)Sironi, pagg. 160. Euro 11,80 Nato nel 1968, l’anno dei grandi movimenti giovanili che volevano cambiare il mondo, Livio Romano, pugliese, ha sempre avuto un debole per la scrittura. Desiderava diventare giornalista e lo è diventato finché “Tutte le battaglie politiche, tutti i partiti in cui avevo militato, tutte le parole: mi parvero ad un tratto privi di senso. Inutili. La mia indignazione non riusciva più a trovare sfogo in articoli che avrebbe letto distrattamente e col sopracciglio alzato qualche centinaio di paesani.” Ha ventisei anni circa e ambisce a qualcosa di più. Insegna inglese in una scuola elementare ma ha le idee chiare: “Non sono un intellettuale. Non passo il mio tempo a leggere studiare pensare. La mia giardinetta è sporca di terra, piena di zappe e secchi di calce pennelli orci di olive. La mia compagna non sa chi sia Andy Warhol, e se ci penso credo proprio che ignori pure l’esistenza di Alberto Arbasino. Per diversi motivi sono spesso a contatto con tossicodipendenti, malati di mente gravi, sventurati d’ogni risma – non si scrive nulla se non ci si sporca un po’, nessuna vera scrittura nasce se non si è visitato l’inferno terrestre.” Queste cose, Romano le scrive nel suo sito web, dove ci racconta che quando ha inviato i suoi racconti a qualche editore è stato fortunato. Einaudi gli pubblica nel 2001 “Mistandivò” e Giulio Mozzi, per Sironi, appena l’anno successivo, il 2002, il suo primo romanzo: questo “Porto di mare”. Un gruppo di giovani meridionali discutono dei problemi della loro cittadina, cercando di difenderla dai raggiri e dalle speculazioni della politica e della finanza. Sanno di avere a che fare con forze collaudate ad ingannare e a prevalere, ma, anziché scoraggiarsi, trovano in questa disparità un ulteriore stimolo ad agire. I problemi non mancano, ovviamente, soprattutto in un paese del Sud, ed essi hanno costituito una “sezione”, dove si incontrano, discutono, fanno progetti. Questa volta c’è che due giovani fidanzati, “Valeria e lo zito suo”, che hanno fatto richiesta di una licenza in Comune per costruire “un piccolo stabilimento balneare a Serra Cicora”, che è una località in provincia di Lecce, quando stanno ormai per concludere l’iter burocratico, si vedono recapitare una lettera nella quale è scritto che la licenza non viene concessa, perché lo stabilimento insiste “su area interessata da altro progetto presentato in data antecedente al vostro.” Di che si tratta? “Si tratta di mega società edilizia che ha un mare di soldi e che è già proprietaria del villaggio turistico di Torre Brigante. Vogliono farci ‘sto mega porto per duecento imbarcazioni in modo da far attraccare le barche dei loro villeggianti.” La scrittura di Romano è sbrigliata, ricca di verve e di accenti di un parlato che trascina con sé tutto l’afflato e la carica di rottura di una gioventù che ha deciso di opporsi allo strapotere delle Istituzioni corrotte e prevaricatrici. Un Sud agguerrito, dunque, tutt’altro che rassegnato: “è evidente che è solo il primo passo verso la cementificazione di quell’area.” Qualcuno tergiversa, tuttavia, pensa al lavoro che ne deriverebbe per i giovani, e non solo: “potrebbe essere un volano per tutta la zona…” Ci si trova di fronte, così, ad una delle più ricorrenti scelte drammatiche che la società del cosiddetto mercato ci sottopone, tra il lavoro, ossia, che allevierebbe tante sofferenze, e la difesa di un ambiente incontaminato, che verrebbe deturpato per sempre. Il tema, dunque, è già delineato e risiede nella ricerca di una risposta da dare in modo risolutivo a questo subdolo dilemma. Non è facile. A qualcuno sembra perfino paradossale porselo, visto “che ci sarà stato un dibattito in consiglio comunale, chessò, da qualche parte sarà pure piovuta l’esigenza di ‘sto porticciolo…” Risponde un altro: “Un dibattito? Un’esigenza? Qua l’unica esigenza è la loro, di fare soldi.” Il mercato, quella forza dirompente e annientatrice di ogni opposizione, si delinea come il convitato di pietra di questo romanzo: “La cosa che più ti fa impazzire è che quando vai nelle segrete del Palazzo a chiedere lumi: questi travet malvestiti ti neghino l’accesso alle carte.” Non incontriamo solo un modo di agire tipico del Sud, no, la denuncia di Romano va molto più in là , e il lettore avverte che quella denuncia riguarda pure lui, perché le stesse cose succedono, eccome, anche dalle sue parti: “Siamo nel 2000, e questa è l’Italia, Paese membro dell’Unione Europea.” Del resto, l’autore si rivolge ad un interlocutore che è proprio il lettore stesso, al quale racconta un pezzo di cronaca di ciò che avviene dalle sue parti. Riconosci questo sistema? Non è così anche da te?, sembra suggerire; anche se la sua attenzione è rivolta al fatto concreto del suo paese, i dettagli di come vanno le cose al Sud, in realtà aiutano a trasformare il caso da locale ad emblematico di una situazione diffusa. La sua condanna va, soprattutto, al metodo seguito, alla segretezza che è stata adottata affinché nessuno ne sapesse niente, alla mancanza di un dibattito che mettesse sul tappeto i pro e i contro dell’operazione, soprattutto ora che si apprende che tutta questa operazione produrrà soltanto lavoro per “quattro dipendenti fissi con contratto di lavoro a tempo indeterminato e una ventina di stagionali.” Il caso rappresenta anche l’occasione per ritrovarsi insieme e contrarre nuove amicizie, dopo che “Erano decenni che non si vedeva una cosa del genere.” Ci si era abituati ad un andazzo in cui tutto procedeva “abbastanza” bene e al massimo si ascoltavano le canzoni di Luca Carboni che inneggiavano all’ “energia di chi sa scegliere bene i colori delle sue t-shirt.” A svegliare l’ambiente è anche una insegnante di italiano, una siciliana, “che portava i capelli biondi tagliati a zero e fumava Zenith col filtro di carbone una dietro l’altra”, odiata dai colleghi perché impone ai ragazzi di fare attenzione a ciò che accade nella realtà , e parla loro di “Bakunin, Corbière, Scott Fitzgerald, la storiografia marxista, l’economia delle repubbliche sovietiche”. Con altri quattro studenti, il protagonista si abbevera alla fonte di questo sapere che viene da una donna risoluta, che non si fa intimidire e che, quando è sottoposta a sabotaggi, non accenna mai all’accaduto ma tira avanti per la sua strada. Sono gli anni ’80, la politica era dominata dal C.A.F, ossia dal trio Craxi, Andreotti e Forlani, e i giovani pensavano più alla musica che alla politica. Ma il 1 aprile 1984 accade un fatto gravissimo e nuovo da quelle parti: una donna, Renata Fonte, “che lottava contro la cementificazione del Parco di Portoselvaggio”, consigliera comunale del partito repubblicano, di ritorno da una riunione politica, viene assassinata. Il delitto ha eco nazionale, eppure sul posto, a parte il solito sciopero delle scuole, “No, non sentivo indignazione in giro, nei bar.” Addirittura qualcuno sussurra che “quella s’era messa troppo dentro certi affari che non la riguardavano.” Il connubio tra politica e malavita fa la sua apparizione eclatante in Puglia, dunque. Renata Fonte ostacolava il progetto di cementificazione, e allora si decide di eliminarla, così che al suo posto sarebbe andato, come primo dei non eletti, qualcuno più malleabile. All’omicidio segue l’arresto rapido del colpevole, ma dei veri mandanti nessuna traccia e presto tutto cadrà nel dimenticatoio. Romano disegna con ammirevole precisione uno spaccato di vita che se ha avuto nel Sud, infestato dalla malavita, punte di più acuta tragicità , nondimeno esso può essere traslato un po’ dovunque, perché questo connubio diventerà presto il bubbone pestifero di un male che dilagherà per la penisola, al Nord come al Sud, provocando corruzione e miseria morale e materiale assai profondi. Quegli anni, infatti, ancora oggi producono i loro effetti paralizzanti, e la cronaca puntigliosa di Romano, come si è già detto, fotografa una realtà che ci appartiene. Il romanzo, con la sua cronaca, si fa interprete, in realtà , di una proposta che spazzi via il marcio in cui sguazzano i capitali dell’alta finanza e un po’ tutti i partiti, dai democristiani ai comunisti, che “passano e fanno finta che non ci siamo”. Addirittura l’architetto di questo progetto distruggiambiente è nientemeno che il candidato a sindaco proposto dal “PiPì” e dalla coalizione di sinistra. Ecco perché anche i “diesse” “nicchiano”, come i socialisti “ché in questa città ci sono ancora i socialisti e contano moltissimo”, al punto che il protagonista si domanda perché la sinistra non sia in grado di proporre “un candidato che ci rappresenti davvero”. Nel raccontare non mancano descrizioni di personaggi tipici di quel periodo e in quelle manifestazioni, come Jarry Condottiero, che “di mestiere fa il perito delle assicurazioni e di sera suona una batteria nera lucidissima”, o Pantaleo, che porta a spasso i suoi due marmocchi e quando è tempo “li carica entrambi alla ben’e meglio sulla carrozza e con le braccia del tutto stese sul manubrio e il corpo incurvato scavalla verso casa coi bambini che urtano le teste fra di loro come vasi in un carroccio. È il destino degli insegnanti.” O Carmelo, tesserato di Rifondazione Comunista, che “se ne appare con la sua borsa di cuoio costosissima finto-alternativa, e tutto serio tira fuori degli incartamenti, e invita il Comitato a fare un salto di qualità , ché la battaglia, adesso, non può che trasferirsi su un piano di stretta militanza politica”; e “delle volte da quelle borse di cuoio viene fuori il barbatrucco. Il tentativo di avocare tutto l’ “affaire” del porto sotto la giurisdizione del partito.” O Salvatore, dei diesse, che “mentre ci preparava la frisa con la ricotta e i capperi, fece andare un nastro di canti popolari cecoslovacchi a volume alto che rimase tale anche quando poi ci illustrò, a bassa voce, il progetto suo di istituire un centro di accoglienza per torturati politici.” Chi ha partecipato, come il sottoscritto, agli eventi che caratterizzarono il famoso ’68, non può fare a meno di notare che la fotografia di questi anni ’80 presa in esame da Romano, ha le sue radici ben piantate in quei moti non troppo lontani, e che la caratterizzazione, a volte divertita ed ironica, di taluni personaggi, risponde ad uno stereotipo che risale proprio ai tempi di quelle lotte. Ne è derivata, ossia, una ritualità e una simbologia che, mutatis mutandis, restano ancora significative e robuste. Appare chiaro che all’autore, che guarda con un certo sorriso all’entusiasmo militante di Pantaleo, o di Carmelo, o di Salvatore, interessano, più che i partiti (“Ognuno ha il suo immaginario di miti e stelline.”), i movimenti spontanei che nascono dalla gente, e nei quali si può rintracciare un convincimento forte e genuino, che manca ai politici. Naturalmente, Carmelo, che è di Rifondazione comunista, subisce l’insofferenza degli “iscritti ai diesse” e di quelli che ricordano che “eravamo partiti che lasciavamo fuori le sigle di appartenenza e adesso ci fai una proposta che non sta né in cielo né in terra.” Salvatore, infatti, porta nel Comitato tutto il suo peso di uomo dei diesse. La faccenda del porticciolo dà all’autore l’occasione di allargare lo sguardo alla società che si è formata in questi anni nella penisola salentina, dove troviamo oggi i figli che studiano, magari anche all’estero, poi ritornano a casa, e i genitori gli mettono su lo studio professionale. Ma a che cosa serve uno studio professionale, se mancano industrie e siamo in presenza di un’agricoltura che non si è mai sviluppata e ad un artigianato che sta per chiudere i battenti? Tutto questo livello di istruzione raffinato non giova a nessuno, perché l’ambizione resta limitata ad ottenere, quasi sempre dietro cospicue elargizioni, niente più che il “Posto Pubblico”. Ottenutolo, i genitori smontano la targhetta dello studio e si preparano ad affittarlo a qualche altro neolaureato. Si tratta quasi sempre di genitori che provengono dalla compagna, i quali sono riusciti ad avere un impiego pubblico ed ora ambiscono a che i loro figli diventino “dottori”, così che possano stare “a stretto di gomito con i figli dei ricchi veri”; si costruiscono la villetta al mare accanto a quella dei signori, poi la migliorano a poco a poco negli anni fino a che possono permettersi di rivestirla “in pietra leccese che furoreggia in questa fine di secolo e rende ormai irriconoscibili le case dei potenti da quelle dei pensionandi impiegati pubblici.” E questi figli, chi sono? Con la laurea in mano, si sentono dei padreterni, manca poco che si mettono a parlare in inglese (“da un momento all’altro mi aspettavo che la conversazione sarebbe proceduta in inglese”), se ne stanno sempre con l’orecchio appiccicato al cellulare e parlano con saccenteria di cose più grandi di loro. Le ragazze, poi, peggio degli uomini, per la loro vanità . Ironia e rabbia, accompagnano la scrittura di Romano, infastidito da questi atteggiamenti che non riescono a produrre nient’altro che una vuota esibizione di sé: “Questi miei coetanei che, mentre io ciondolo con la sigaretta fra le labbra, loro stanno nei loro studi a rendicontare, a esternalizzare, a redigere progetti, e quando hanno finito entrano nella Yaris e se ne vanno in palestra a rassodare il culo per il match sessuale del sabato.” Insomma, questi giovani “abitano lo stesso Pianeta mentale dei loro Padri”, non riescono a produrre nulla di nuovo e la loro fine sarà la stessa, ossia quella di guadagnarsi, con la raccomandazione ottenuta dai padri, il sempiterno Posto Pubblico. Nel frattempo, essi, i giovani, mimano “la vita vera”, “forse si potrebbe dire che i genitori gli stanno lasciando mimare la vita, giusto quell’anno o due prima di riuscirgli a trovare la collocazione nella burocrazia statale.”, al contrario di quanto avviene al Nord, ma basta fermarsi anche a Perugia – dove l’autore ha fatto un’esperienza di lavoro in una pizzeria – e si può constatare quanto lassù i giovani si adattino ad alternare il lavoro ambito e ottenuto a tempo determinato, con altri lavori di più umile condizione, nei momenti difficili: “Un’altra razza.” Quelli che ci tratteggia Romano, sono giovani del Sud anemici, con poca voglia di fare, in tutto dipendenti e succubi dei genitori. Si contrappongono ad essi i giovani antagonisti, che appartengono al mondo della contestazione, i quali, tuttavia, sono pochi: una “cinquantina di romanticoni che, invisi alla totalità degli indigeni, continuano a fare le loro battaglie, le loro scorribande, i loro campi-lavoro, i loro comitati contro gli scempi ambientali.”, e “almeno uno passeggia e ha l’impressione di un mondo a due colori”. È un seme ancora piccolo, ma è da questi giovani soprattutto che è nata quell’originalità leccese nei comportamenti, nell’arte, e specialmente nel cinema con Edoardo Winspeare, e nella musica con i Sud Sound System, tanto che si può parlare, anche se l’Industria Culturale non s’accorge del fenomeno”, di “Rinascimento Pugliese.” Ed ecco una dichiarazione significativa dell’autore: “questa è l’altra Lecce. Quella sana, secondo i pensieri che ho io da ghibellino, quella che mi piace frequentare e semmai prendere per il culo. Probabilmente uno dei due o tre motivi per cui ho scelto di tornare. Questo è il Salento che mi fa ancora ridere di gusto. Che mi fa dimenticare i commessi dei negozi di telefonia, e i commercialisti di ventisette anni in auto grigia metallizzata.” Che è anche una dichiarazione d’amore. A mio avviso, “Porto di mare” si inserisce a pieno titolo tra le migliori analisi di questa parte d’Italia che in questi ultimi tempi sono state espresse, per esempio, da due scrittori meridionali come Gaetano Cappelli, con “Parenti lontani” (2000) e, più recentemente, Raffaele Nigro, con “Malvarosa” (2005). I padroni del progetto “Porto turistico” non demordono. Di fronte al montare della protesta, che cosa fanno? Costituiscono anche loro un Movimento, chiamandolo “Movimento dello sviluppo possibile” e vanno a piazzare una loro tenda accanto a quella dei contestatori, mettendo in risalto anche la disparità dei mezzi dispiegati: computer portatili, tavolo di acciaio e cristallo, brochure in quadricromia, mega schermo a colori, “una ventina di ragazze tutte vestite di blù, venti bellone che si dividono: alcune si appostano sotto al gazebo, altre vanno in giro, quasi in fila, come in una sfilata, a distribuire le brochure di cartoncino, e hanno questo fare disinvolto, sanno avvicinare le persone, son tutte sorridenti, si passano le mani fra i capelli, invitano tutti ad avvicinarsi al bersò da dove proviene una musica diffusa da casse Bose, tenuta a un livello basso ma percettibile per almeno due chilometri.”. Manifesti ingannevoli in cui si mostra la costa senza e con il porticciolo vengono attaccati in tutta la città per dimostrare quanto il progetto non alteri affatto l’ambiente. Il protagonista si domanda se sarà mai possibile “battere un gigante che può disporre di mezzi così potenti.” Gli amici gli ricordano che nel ’70 un movimento di protesta riuscì a bloccare la cementificazione di Portoselvaggio e, dunque, si deve avere fiducia nel movimento. Ma gli anni ’70 – osserva il protagonista – vedevano partecipare “migliaia di persone”, erano tempi diversi, in cui il coinvolgimento e l’attenzione erano maggiori: operai e studenti prendevano parte in massa alla protesta; ora invece gli studenti sono attratti da fatui miti e gli operai difendono con le unghie il loro posto di lavoro sottopagato. E poi, la vittoria conseguita contro la cementificazione di Portoselvaggio non fu così assoluta, avendo dovuto accettare la costruzione di alcune attrezzature, oggi fatiscenti e inutili, oltre che ambientalmente orribili, per quello che fu chiamato Parco Regionale Attrezzato. A distruggere l’ambiente, ci si misero pure i cittadini con la mania della seconda casa; la sera non c’era nulla e al mattino spuntavano le mura di una casetta, che a poco a poco, con sacrifici durati anni, la famiglia sistemava negli arredi interni. “Poi nel 1985 arrivò Craxi e, si sa, condonò tutto”. Avrete già notato in alcuni dei brani riprodotti, che Romano, quando vuole far risaltare una situazione, si serve dei due punti anziché della virgola; cerca, ossia, il massimo della pausa perché il lettore assorba il suo concetto. Si potrebbero portare nuovi esempi, ma bastino questi due: “un bel giorno il latifondista sangue blù proprietario di tutto ‘sto bendidio: decide di vendere ai classici palazzinari che ci vogliono fare il classico scempio edilizio da smerciare a peso d’oro.”; e: “Ma ciò che più di tutti risultava sbalorditivo: era il profumo.” Lo stile continua ad essere gradevole, accattivante, scorrevole come un reportage, in cui il lettore si trova ad essere il compagno che sta a fianco del protagonista, trascinato dentro questo viaggio che ci mostra una parte della Puglia dove le ferite di uno scempio perpetrato dall’uomo si acuiscono nel momento in cui si rivelano inferte ad una bellezza superba e rimasta incontaminata per secoli: “già il panorama del golfo di Gallipoli è devastato da un grattacielo per decenni abusivo e adesso condonato che si erge sull’estrema propaggine della baia, un po’ prima dell’isola di Sant’Andrea, e che pare un arpione conficcato sulla coda della balena”. Per non parlare delle discariche inquinanti, dei “fusti radioattivi sepolti nello Ionio fra il Salento e la Calabria”, “la pesca con le bombe e lo sventramento del fondale a colpi di martello e scalpello operato dai pescatori di datteri marini”, nonostante la zona sia protetta dal Parco Marino, “i tantissimi ripetitori delle compagnie telefoniche”. Eppure di tutto questo degrado “non potrebbe fregare di meno a nessuno, delle antenne, del porto, delle discariche abusive.” Di chi è la colpa? Certo: della speculazione selvaggia, ma guardate il ritratto di questa madre che ci dipinge Romano che, lo ricordiamo, è insegnante di inglese in una scuola elementare. È la madre di Crocefissa, una bambina ritardata che ha bisogno del sostegno: “Al centro della fronte aveva un ciuffo mesciato di rosso carota identico a quello della figlia. Un chiodo di pelle nera le fasciava la pancetta quarantacinquenne. Si lamentava perché le insegnanti di sostegno hanno scritto sui verbali che Crocefissa, in quarta elementare, sta iniziando a distinguere le vocali dalle consonanti nonché a scrivere in corsivo le prime frasette. Eh no, dice lei, ché se continuiamo così le tolgono il sostegno, e questo significa che prima o poi mi tolgono anche la pensione d’invalidità che percepisco io per lei la quale rappresenta l’unico nostro mezzo di sostentamento. E poi se n’è andata, dalla finestra l’ho vista mettere in moto lo scooter 50 senza marmitta truccato a 125, indi accennare un’impennata con la ruota anteriore per poi sparire in una nuvola di fumo nerissimo.” Di persone così, si sa, è pieno il mondo, nei nostri tempi; perfino all’interno del Comitato che si è costituito per la questione del porticciolo, accadono cose strambe, come la fuga di Esmeralda, amica di Porfidia (Porfi), la donna del protagonista, che è sparita all’improvviso e con chi? Nientemeno che con “Salvatore dei diesse”, colui che ha avuto l’incarico dell’addobbo floreale della sala della Conferenza dei Servizi che si terrà l’indomani. Dice Porfidia: “ti rendi conto che quei due si amano davvero?” e “Che lei non immagina che ‘sto Comitato contro il porto è divenuto a sua volta un porto di mare e che dai porti partono le barche di salvataggio se qualcuno si perde al largo? Ok? Lei non immagina che venti persone la stiano cercando insieme ai suoi fratelli e a suo padre. Manca da ieri sera.” È, questa, la parte in cui il reportage si volge in romanzo, dando vita a una storia breve ma intensa, che penetra nella intimità dell’animo umano e imprime un significato assai profondo a tutta la vicenda. Fino a questo momento, infatti, i personaggi erano colti nella loro lotta esteriore, erano, le loro, manifestazioni corali di una protesta civile contro la prepotenza dei poteri forti; ora si rivelano individui con le loro paure e i loro sentimenti. Una scrittura malinconica accompagna questa penetrazione lenta e dolcissima. Esmeralda e Salvatore esprimono quel disagio esistenziale che ci può colpire pur in mezzo ad una lotta, farci smarrire la ragione, avvolgerci nelle spire di una disperazione desolata che cancella ogni sogno e ogni illusione. La Conferenza dei Servizi si terrà , sarà blindata; solo pochi ricevono l’autorizzazione a parlare, e si rivelerà l’espressione di una burocrazia formale aperta solo a chi conta, dimodoché si può dedurre che “la decisione finale non passi attraverso conferenze né attraverso organismi che discutono democraticamente, bensì si plasmi negli studi dei Potenti dopo aver consultato le norme sinallagmatiche dell’imperituro manuale Cencelli.” Qualcosa, però, non deve andar bene nella spartizione tra i potenti, perché ad un certo punto i partiti che stavano a guardare, ora si schierano, con sorpresa di tutti, con il Comitato, anzi cercano di prenderne in mano l’iniziativa, contro le proteste di alcuni componenti che sentono odore di bruciato. Si viene a sapere, addirittura, che il proprietario ha ritirato il progetto. Non è possibile, qualcosa non quadra. Non è possibile, ossia, averla avuta vinta contro quei furbacchioni. L’autore inserisce qui, e a proposito, il ricordo del suo matrimonio e delle furberie a cui andò incontro, che consistevano nello spillargli il massimo possibile di soldi da parte delle autorità ecclesiastiche per ottenere l’autorizzazione a sposarsi in chiesa. Un capitolo esilarante che è, tuttavia, allo stesso tempo, denuncia impietosa di una corruzione che ha pervaso ogni cosa, perfino quelle da cui meno te l’aspetti. La vita, insomma, è un continuo stare in guardia, una continua lotta, vedrete, e i potenti lo sono proprio perché non rinunciano, sono ostinati, non mancano di risorse e possono escogitare mille alchimie per realizzare i loro scopi. Ci si deve arrendere, allora? E perché mai? “Dobbiamo muoverci subito, […] non c’è altro da fare.” Letto 3014 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||