ROMANZO: Tosca Pagliari: “Nivek, il Segreto dell’Erba Tagliata” #6/613 Marzo 2010 (parte sesta e ultima)  – Non hai ancora finito. Disse il bambino dai capelli rossi mentre se la rideva sfacciato da dietro lo specchio rotto. – Non si vede più nulla. Rispose l’altro, deluso della sparizione e curioso di sapere il seguito. – Passa ad un altro specchio. – Ma se lo Specchio del Vero era uno solo, tutti gli altri non possono rivelare alcuna verità . – Lo Specchio del Vero era solo quello che hai rotto perché io sono il presente vivo e reale. Negli altri specchi c’è il passato che corrisponde alla certezza di ciò che è stato, ma i ricordi hanno tante sfumature, intensità diverse, sovrapposizioni e , a volte, inesattezze. Sono inesattezze dovute agli inganni della memoria e, soprattutto, al bisogno che ognuno ha di riportare alla coscienza i fatti che più gli aggradano e che più possano soddisfarlo. Tuttavia non c’è scampo, per interpretare il presente bisogna conoscere i legami del passato. Guarda in tutti gli specchi, uno dopo l’altro, quando avrai finito sarai di nuovo di fronte a me. Nivek si pose davanti ad un altro specchio che si accese d’immagini all’improvviso. La donna bionda entrò nella piccola chiesa semibuia con un incedere diverso da quello tipico della sua andatura. La sua figura non aveva più nulla di solenne. La sua bellezza era offuscata. Nel suo animo c’era rimasta la solitudine a far compagnia al dolore. Accese una candela. Pregò. Ne accese un’altra e tante altre ancora. L’altare era tutto sfavillante. La donna mesta, in ginocchio, con gli occhi offuscati dal pianto osservava l’ondeggiare delle numerose fiammelle. Sembravano tante creature ardite che puntavano verso l’alto piene di promesse. Rasserenata la donna si alzò. La sua aria era pur sempre dimessa, ma un po’ di sgomento pareva esserle sparito dallo sguardo dove tornava a riapparire, anche se debole, qualche guizzo di audacia. Adesso aveva in mente pensieri nuovi, ma sapeva anche di dover fare tutto da sola. Uscì dalla chiesa ombrosa e la violenta luce del giorno la colpì in pieno viso come uno schiaffo, come una scheggia negli occhi chiari, ma lei non si degnò neanche di schermarseli con gli occhiali, se li lasciò sui capelli dove li aveva tirati su appena era entrata. Tutto quel bagliore le dava energia. Nivek si mise d’istinto l’avambraccio davanti al volto per proteggersi dai violenti lampi di luce che aveva preso ad emanare lo specchio. Quando lo riabbassò tutto era cessato. – Si è spento! Gridò indispettito. – Ce ne sono ancora tanti altri. Lo consolò il bambino dai capelli rossi e poi continuò: – Non ti fermare più. Vai avanti uno dopo l’altro. Alla svelta. Non si può più perdere molto tempo. Potrebbe anche perdere la pazienza. – Chi? – Vai, presto, non chiedere altro. La donna era a casa nella stanza del ragazzo e frugava dappertutto. La camera, che era rimasta a lungo chiusa come per un sacrale rispetto, adesso veniva violata. Ogni cosa veniva tirata fuori alla rinfusa con l’animosità di chi ha fretta di scovare degli indizi. L’uomo entrò. Era alto, imponente, inutile. – Cosa cerchi? – Non lo so! – Rovisti apparentemente tra le cose, ma, invece, è nella tua coscienza che frughi disorientata. Non sai nulla di lui. Non hai mai saputo nulla, adesso non potrai sapere null’altro. Se tu lo avessi conosciuto, non avresti avuto modo d’assoldare inconcludenti persone per chissà quali ipotetiche informazioni. – Il suo cellulare, non lo aveva addosso quel maledetto giorno, lì potevano esserci dei numeri utili. – Non me lo riesco ad immaginare un ragazzo che esce di casa senza il cellulare. Chissà dove sarà finito, ma di sicuro non si troverà in questa stanza. La donna si voltò, la sua voce era pacata e crudele: – Non sei certo di grande aiuto. – Lo so. Rispose l’uomo e continuò a dire: – Ti stavo cercando per salutarti quando ti ho trovata qui in questo trambusto. Ho già prenotato il volo. Ho provato ancora una volta a rimanere in questi ultimi anni. Credevo che la mia presenza servisse a qualcosa. Ormai è finita. Siamo due dolori e due solitudini che non si sfiorano neanche. Ho bisogno di tornare alla mia vita di prima. Stare qui non ha alcun senso. A differenza di te non sento alcuna smania di cercare, di rovistare, di sapere a posteriori. Quel che è stato è stato. La donna gli si avvicinò calmissima, ma era un atteggiamento vero, ormai non riusciva più a studiarseli per poi metterli in scena. Lo accarezzò sulla guancia, come si fa con i bambini. Gli posò un bacio leggero sulle labbra e disse soltanto: – Vai pure. Avrebbe voluto congedarlo con dei ringraziamenti e degli auguri, ma non lo fece. L’uomo ricambiò il bacio ed uscì. A lei sembrò improvvisamente di aver perso del tempo prezioso e tornò a devastare armadi e cassetti. Nulla di rilevante sembrava venir fuori e la sua calma, pian piano, prima si tramutò in insoddisfazione, poi in frenesia, infine in furore. Buttò tutto in aria, afferrò e strappò. Con un’assurda esasperazione disfece il letto, scaraventò a terra il materasso, con il tagliacarte prese a pugnalarlo, a lacerarlo. Aveva uno sguardo allucinato e assassino di chi sta per uccidere la vigliacca delusione.  Dalla ferita del coprimaterasso, da quella intimità violata sbucarono coloratissimi ed inattesi capolavori. Le sembrò un segno prodigioso il fatto che fossero rimasti miracolosamente illesi dalla sua furia e, come inebetita, li sparse su tutto il pavimento lastricandolo della ritrovata essenza di suo figlio. La stanza della mostra era affollata. Erano stati invitati critici d’arte e personalità varie, ma l’organizzatrice aveva voluto che l’ingresso fosse libero a tutti. I sontuosi lampadari di cristallo accesi illuminavano le opere sapientemente incorniciate. I visitatori entravano e ne restavano ammirati. La donna bionda elegantissima, tornata al suo fascino ed al suo  atteggiamento sicuro, sorrideva e ringraziava. Soprattutto origliava. Origliava i discorsi dei critici e della gente comune. Una parete accoglieva un unico quadro. Faceva parte a se stante perché aveva uno stile particolare, diverso dagli altri, surreale, affascinante. E perché era l’ultima opera della serie visto che portava la data del giorno precedente al tragico evento. – Un embrione umano che prende vita da dentro il calice di un fiore, è tenerissimo. – Sembra scaturito da un sogno. – La tecnica cromatica è davvero suggestiva. – Sensazionali sono le volute del cordone ombelicale che fuoriescono dal calice per avvilupparsi alla fine dello stelo e trasformarsi in radici. – E’ qualcosa di unico, mai visto prima. – Chi sarà mai questo autore? – Il titolo della mostra è “AUTORE SCONOSCIUTOâ€. – Lo fanno per creare un alone di mistero ed attrarre maggiormente. Vedrai che appena avrà successo verrà fuori. – Certo che potevano fare anche a meno d’esporre tutto il resto, diventano delle banalità al confronto di questo. – E’ tutto studiato apposta. Era molto tardi quando le ultime persone se ne andarono. La stanza era rimasta vuota, le luci accese, la donna bionda continuava ad avere stampato un sorriso anche tra le labbra socchiuse perché aveva capito che nulla capita a caso nella vita, neanche la gioia e il dolore. Era giorno inoltrato, quando la cameriera si permise di bussare col vassoio della colazione ed il giornale. – Signora, mi scusi, ma non resistevo più dalla voglia di farglielo vedere. La donna dispiegò il quotidiano ed ebbe un fremito di gioia. In prima pagina c’era il quadro a colori con il titolo: “Autore sconosciuto rivela un capolavoroâ€. Seguiva un articolo ed alla fine, come concordato, c’era l’indirizzo della sua E-mail. Adesso non doveva fare altro che qualcuno la contattasse, era un modo per ritrovare qualcosa di suo figlio, lei sperava in qualcosa di molto importante. Provava una sorta d’euforia, non si sentiva più perduta, ma, per non rischiare delusioni, pensò d’aspettare qualche giorno prima di accendere il computer. Finalmente, con molta apprensione, si decise a farlo. Si aspettava qualcosa di grande, d’improbabile, così come quando, pazza di dolore, aveva cercato di contattare Dio in quell’assurdo modo. Eppure se aveva permesso all’umanità di raggiungere tali stadi di conoscenza doveva pur esserci uno scopo, fosse anche quello d’inventare un mezzo per comunicare in modo meno trascendentale. Stava di nuovo vaneggiando e non voleva, doveva essere lucida e concreta, ma che si aspettava di preciso? Ebbe molto di più di qualunque azzardata presupposizione. Dopo aver letto decine e decine di invii elettronici di congratulazioni, commenti e ringraziamenti, dovette trattenere il fiato. La mail diceva: – L’autore sconosciuto è qui con noi e sta bene. Dio le aveva risposto! Ma, no che andava pensando! Non poteva ammattire nuovamente e continuò a leggere, ma con stupore: – Molte opere, del genere di quella dell’embrione col fiore, stanno tappezzando le pareti di una stanza della nostra “Casa Feliceâ€. Seguiva un indirizzo, che repentinamente segnò sulla propria agenda. Dopo di che non ebbe più alcuna voglia di aprire le altre mail. Si vestì. Si vestì tutta d’azzurro, era tanto che non lo faceva, si vestiva sempre d’azzurro nei momenti di gioia. Dopo aver visto tanto azzurro, Nivek non aveva più voglia di vedere altro, era il suo colore preferito, l’unico che lo rasserenava veramente. Si mise le mani davanti agli occhi, non voleva andare a guardare altri specchi. Il bambino dai capelli rossi cantilenava e lui rimpianse di non avere altre mani per tapparsi anche le orecchie. – Nivek non capisce nulla, non capisce nulla, non capisce nulla … – Basta! Non ti voglio stare a sentire! Impertinente l’altro continuava: – Nivek è un bambino strano, bambino strano, bambino strano … – Perché? – Perché ha paura di guardare, ha paura, ha paura … – Non è vero! E per sfida si tolse le mani dagli occhi. La donna bionda era già sull’auto, ma ridiscese frettolosa e tornò in casa.  Nel salone la servitù stava ancora rimettendo in ordine. Chiese perentoriamente che le staccassero il quadro dalla parete. Lo tolse dalla cornice, lo avvolse e lo portò con sé. La “Casa Felice†si trovava in periferia, in una zona circondata dal verde. Non era squallida, ma lei si era aspettato qualcosa di più considerando la pretenziosità del nome. Entrare e farsi ricevere dagli addetti fu cosa di poco conto per le maniere a cui era abituata. Il resto fu un’esperienza tutta nuova. Venne condotta in una stanza, dove non seppe capacitarsi se lì dentro c’era qualcosa di stupendo o d’inquietante. Comprese che ambedue le definizioni non erano in antitesi l’un l’altra. Tutte le pareti dall’altezza dei mobili al soffitto erano ricoperte di meraviglie. Trasse quella che aveva con sé e, a caso, la mise accanto alla prima che le capitò a tiro. Meraviglia accostata a meraviglia, sì erano state eseguite dalla stessa  mano, non poteva essere altrimenti. – Sono i capolavori di un nostro ospite. Disse la distinta signorina in camice bianco. – Ci chiediamo soltanto come faccia ad averne uno lei. – Io mi chiedo invece come fate a possedere tutti questi voi. Quando e da chi li avete ottenuti? – Da un po’ di tempo si può dire che ne aggiungiamo quasi uno al giorno. Adesso però pare  che non ci sia più spazio sufficiente, bisognerà trovare un accordo con l’autore, che caparbiamente si ostina a volerli tutti qui. – E’ impossibile che ci sia l’autore di tutti questi dipinti. – Come sarebbe a dire? Mi scusi, ma lei che pretende di sapere! La donna girò il cartoncino che aveva portato con sé. – Legga pure. Questa è l’ultima data, dopo di che ha cessato d’esistere. Nella sua voce c’era un’impercettibile tremito di pianto per la pena di quanto aveva asserito, per l’umiliazione di sentirsi incompresa ed inadeguata. – E’ vivo e vegeto, glielo assicuro. Da poco ha persino imparato a scrivere il proprio nome anche se lo scrive, proprio così come questo che mi mostra lei, all’incontrario. Alla donna bionda diede fastidio che quell’altra avesse letto tutta la frase: “Lo voglio, adesso ho capito che lo voglio con tutto me stesso.â€Peggio ancora che si fosse resa conto dell’originalità di mettere la firma solo del proprio nome scritta al rovescio. Nivek era di fronte all’ultimo specchio. Il bambino dai capelli rossi gridò: – Aspetta, non guardare! – Perché proprio adesso, visto che prima hai insistito tanto? – Non è ancora il momento. Questo è l’ultimo specchio. Quel che accadrà non lo so. Adesso sono io ad aver paura, non desidero più che tu lo faccia. – Io invece non ho più paura e tu non mi fermerai. – Sì invece, io posso tutto su di te! Prese a guardare Nivek con i suoi magnifici occhi verdi e così lo tenne come stregato, paralizzato per mettersi di fronte all’ultimo specchio. In un’altra dimensione le cose andavano avanti da sole. – Insomma chiariamo questa storia una volta per tutte! Ordinò la donna bionda, abituata com’era a prendere il dominio della situazione. – E no signora, dipende da quel che avrà da riferirmi lei sei io dovrò ritenerla in diritto di conoscere altro. – Va bene, purché si ponga fine a tanto inopportuno mistero. Ho poco da aggiungere, ma sarò più chiara. La sua voce non era più la sua, nonostante si sforzasse di riappropriarsene , era quella di una donnetta qualunque che si apprestava a narrare un fatto che sembrava quasi banale. – Mio figlio era un ragazzo di buona famiglia che si era perso dietro ad una ragazzetta di poco conto. Si era fatto incastrare da una scomoda gravidanza. Alla fine sembrava convinto di rimediare al tutto con ragionevolezza ed anche la ragazza pareva persuasa. Finché una mattina uscì di casa tutto esaltato, come se dovesse andare a compiere una missione. La donna aveva una gran voglia di piangere, ma fece appena in tempo a riprendere il controllo. – Un incidente con la moto l’ha tenuto in coma per diversi anni. Quando non c’è stato più niente da fare mi sono resa conto dell’inutilità della mia vita. Assurdamente ho cominciato a cercare un bambino, che di certo non sarà mai nato, per sostituirlo con lui. Ho impiegato tutti i miei mezzi e la mia tenacia. Nel frattempo mi sono resa conto di quanto ben poco sapessi di mio figlio. Non conoscevo i suoi amici, né personalmente la ragazza. Non conoscevo neanche i suoi hobby. Me li nascondeva e adesso so anche il perché, aveva paura di sentirsi incompreso. Manteneva quell’atteggiamento sfacciato e disincantato perché aveva imparato a copiare il mio. Lui, invece, era solo se stesso, unico ed irripetibile. Il sapere che avesse desiderato il bambino non era una novità , me lo aveva gridato quando era partito all’impazzata. Non sapevo però del tormento dei giorni precedenti e delle sue riflessioni che sono rimaste impresse su questo dipinto. Vorrei tanto tornare indietro per dirgli: sì hai ragione, ci andiamo insieme. Aspetta, prendo la macchina, tu sei troppo stravolto, guido io. Piangeva. Ed il trucco diventava un pasticcio sui suoi lineamenti raffinati, ma non gliene importava un gran che. Con tono calmo e forzatamente professionale chi aveva raccolto tutta quella confessione rispose: – Lei è una persona istruita ed intelligente, lo sa che questa è una casa per bambini. Per bambini con storie difficili, bambini con una natura diversa dal comune. Le meraviglie su quelle pareti, i paesaggi da sogno, gli esseri fantastici tra il tenero e l’orrido, i colori dosati con tutta la sapienza di un artista sono di un bambino che non comunica in altro modo, che non parla quasi mai, che non dice più di una parola alla volta e spesso la sua rara parola viene fuori al contrario. C’è un fascicolo alto così sul suo conto. Qui abbiamo del personale qualificato e tutti gli vogliono un gran bene, ma è come se dentro di lui ci fosse qualcosa di rotto, d’inaccettabile fin dalla nascita. Dal punto di vista organico è perfettamente sano, attraverso i suoi disegni sta emergendo una genialità a lungo sommersa. Speriamo che sia una pista per giungere ad ulteriori miglioramenti. Chi si aspetti che sia questo bambino adesso? Miracolosamente il figlio di suo figlio? – Potrebbe. Quanti anni ha? Adesso c’è il test del DNA. – Vada con calma. Occorreranno autorizzazioni dal tribunale dei minori. – Io posso pagare i migliori avvocati. – Noi, stia pur certa, useremo tutti i migliori mezzi per far sì che non vengano lesi gli umani diritti del bambino. – Il diritto all’identità è uno dei diritti supremi. Se mi appartiene devo saperlo. – Deve? E’ certa di volerlo veramente? Sarebbe veramente un beneficio per il bambino? Sembra che lo pretenda come se fosse una roba. Non ha ancora chiesto neanche di vederlo, d’abbracciarlo, ammesso che lui glielo lasci fare. – Certo che desidero vederlo, non ve l’ho chiesto perché so che atteggiamenti così improvvisi possono essere traumatici. – Se intende darci degli insegnamenti se li risparmi. In quanto a vederlo per ora lo faccia solo da lontano. Guardi è laggiù in cortile sotto l’albero. E’ il suo posto preferito quando non sta a guardare documentari naturalistici, osservare le immagini sui libri, dipingere con le tempere sui cartoncini. A volte resta anche ad ascoltare i racconti, o forse sarebbe meglio dire a sentire perché non si capisce fino a che punto li segua veramente. La donna bionda, nel guardare, non provò l’emozione che pensava di dover provare. Era un bambino magro, rincantucciato sotto un albero e faceva dei gesti strani. I suoi colori non dicevano nulla di quelli di suo figlio e neanche di quelli della ragazza raffigurata nei ritratti rinvenuti insieme alle altre opere. – Cosa sta facendo? – Accarezza il gatto. – Ma non c’è. – Sì, adesso è nel periodo degli amori e capita spesso che si assenti, ma lui continua ad averlo accanto a modo suo. A volte prende pure al leccarsi tutto, proprio come fa il gatto e salta, si rotola,s’arrampica, gattona, dorme a terra acciambellato. Vive in simbiosi col gatto. – E’ lo stesso gatto che raffigura nei dipinti? – Qualche somiglianza c’è, ma i dipinti vengono da un mondo tutto suo. Anche i suoi sensi vengono usati in maniera del tutto particolare. Soprattutto si perde dietro ad un odore. Al mattino, appena sveglio, per prima cosa, qualunque sia la stagione, vuole uscire a sentire l’aria. E’ come se l’annusasse a lungo per prendere il suo contatto con il mondo. Somiglia ad una creatura animata da uno spirito primitivo, ma c’è  quasi sempre una quiete nei suoi occhi che disorienta. – Di che colore ce li ha ? – Gli occhi? Di una rara ed intensa tonalità di verde. La donna bionda sembrò rammaricarsene, ma l’altra non se ne accorse. – Bene contatterò i  miei legali per sistemare la questione. Si congedò. Sulla via di casa guidava assorta. Pensava sempre più. Pensava che si chiamasse Kevin come suo figlio e che nella sua diversità lo pronunciasse e lo scrivesse all’incontrario come il suo ragazzo lo faceva per vezzo artistico. Quando le coincidenze  coincidono troppo sono davvero delle coincidenze? L’età anagrafica? Aveva dimenticato di chiedere, o lo aveva fatto e non le avevano risposto? Comunque i suoi legali avrebbero appurato tutto. I colori del bambino però erano preoccupanti, tranne che la natura non si fosse divertita a mescolare in modo insolito quelli dei suoi genitori. Doveva vederlo più da vicino, doveva attendere le analisi, doveva avere la certezza che le appartenesse. E poi? Si sarebbe portata a casa un bambino così strano come un cucciolo raccattato per strada e messo lì a crescere per vedere che miscuglio di razza ne venisse fuori? Tutto questo da sola? Dove stava andando a cacciarsi? Alla sua età poi? Ma se era veramente il figlio di suo figlio glielo doveva, lo doveva a tutti e due, al bambino ed al ragazzo. Non era un modo per rimediare, ma per dare il giusto senso alle storie del mondo. O le storie dovevano andare per conto loro e lei non doveva   immischiarsi? Passò del tempo ed uno dei suoi avvocati telefonò con voce concitata. -L’attendo al più presto in ufficio. C’è una novità molto interessante. La donna bionda stava ben impettita ed attenta di fronte all’avvocato paventando una sicurezza che non possedeva, nascondendo la sua ansia di sapere. L’avvocato aveva l’aria entusiasta, non vedeva l’ora d’iniziare il discorso. – La madre alla nascita ha rinunciato al figlio di padre ignoto. Non possiamo sapere chi sia, la sua volontà di rimanere anonima è inviolabile. Tuttavia si è scoperto che ha legalmente depositato una busta sigillata il cui contenuto doveva essere rivelato solo se fossero sopraggiunti fatti rilevanti nell’interesse del bambino. – Che genere di fatti? – Non è specificato e questo gioca a nostro favore, possiamo impugnare questa specifica circostanza. – Lasci perdere. Rispose inaspettatamente la donna bionda, inaspettatamente anche per se stessa. – Non se ne fa nulla. Le farò avere il suo compenso. L’avvocato stava per continuare, ma lei aveva un fare così perentorio. Salutò ed uscì. Nei giorni a seguire si ritrovò a vivere in una sorta di limbo senza gioia né dolore e si chiese se questo senso di torpore, di pace assoluta fosse l’essenza del vivere o del morire. Per la prima volta si recò al cimitero. Adesso finalmente aveva sepolto il suo ragazzo. Non sapeva perché avesse rinunciato al bambino. O ne sapeva fin troppo? Paura d’illudersi? Di non essere all’altezza del compito? D’avere ancora e la paura di perdere ancora? Sentiva una gran voglia di pregare, ma non era molto pratica, la fede profonda non s’improvvisa, anche se la si desidera tanto proprio nei momenti bui per avere un barlume. Avrebbe imparato a farlo nei giorni a venire, tutto stava nel cominciare. Ogni tanto una vocina cattiva tentava di parlarle: “Non l’hai voluto perché era diverso. In fondo è stato comodo potersi fermare in tempoâ€. Se accendeva una sigaretta, se mandava giù un po’ di liquore, se prendeva la pillola giusta la vocina se ne andava. Ma ne arrivava un’altra molto più invadente, che prendeva vigore codardamente quando lei era più vulnerabile, proprio durante il sonno. Era una voce solenne, di quelle che puntano il dito nel dire. Era una voce assurdamente autoreferenziale: “Tu volevi soltanto tuo figlio. Era tuo, lo avevi fatto tu, ti apparteneva e ti è stato tolto per colpa di una ragazzina ed un marmocchio inopportuno, strano per di più. Tu hai voluto sempre e solo il bene di te stessa. Hai visto sempre le cose a modo tuo senza tener conto delle ragioni degli altri. Come mai non si è presentata, col fagottino in braccio a reclamare diritti, la ragazzina da quattro soldi? Te lo sei chiesta? Sei davvero una donnina sciocca, molto sciocca …†Si svegliava in un bagno di sudore e quella volta si svegliò mentre stava maledettamente squillando il telefono. – E’ giunta una convocazione presso il tribunale dei minori. Disse l’avvocato. – Ma se le avevo esplicitamente detto di non procedere. – Ormai i meccanismi giuridici erano partiti da soli, non c’è stata alcuna via di scampo. – Non intendo presentarmi. – E’ obbligata. – Non sono affatto obbligata, posso delegare lei. – Vedrò il da farsi. Quando l’avvocato riattaccò decise che voleva stare il più lontano possibile da tutta la faccenda. Sarebbe partita, ma non sapeva bene per dove. Era solo certa che l’avrebbe fatto. Anzi lo avrebbe fatto al più presto senza portarsi dietro neanche il cellulare. Stava comodamente leggendo il giornale visto che si era già disfatta del bagaglio ed attendeva in sala d’attesa la chiamata del volo. Si sentiva leggera e dimentica di tutto. Partire a volte è un po’ come andare via da se stessi. Peccato che con la coda dell’occhio avesse intravisto qualcuno con giacca e cravatta che si agitava, in maniera troppo scomposta per il suo abbigliamento, al di là del vetro. Anche se i suoi occhi vedevano, la sua mente tardava a mettere a fuoco la situazione. Che ci faceva lì il suo avvocato mezzo stravolto? Non capiva cosa volesse segnalarle. Perché la servitù gli aveva riferito che poteva trovarla in aeroporto? Donnette ciarliere! Si accorse di stare gesticolando in maniera sconveniente e di non comprendere comunque un bel nulla. Trovò la cosa alquanto sconveniente, scatenò un putiferio con gli addetti alla sicurezza e trovò il modo di lasciar perdere il volo. Uscì stravolta e stava per assalire il legale con improperi che poco si addicevano ad una signora del suo rango. Rimase con le parole a mezz’aria quando si ritrovò una busta sotto il naso. – Di che si tratta? – Contiene la scheda del cellulare di suo figlio. Per un attimo sembrò vacillare, parve sul punto di uno svenimento, ma la sua tempra era forte. – Comunque si dovrà procedere all’esame de DNA, ma adesso che ha intenzione di fare? Chiese il legale con voce pacata. Nivek decise di abbracciare Kevin ed insieme attraversare l’ultimo specchio. Al di là una donna bionda li guardava, ma solo uno dei due poteva ricevere la carezza che lei stava per protendere. Nivek chiuse gli occhi, trattenne il respiro e lasciò che fosse Kevin a farsi sfiorare. Kevin sapeva parlare diritto, ma qualche volta si divertiva ad imitare Nivek. Stavolta non lo fece, quando la donna bionda trasse da una gabbietta un gatto, identico a quello dei suoi dipinti, e lasciò che il bambino lo prendesse in braccio. – Miagola. Disse lui con una voce quasi metallica dove vibrava una impercettibile nota di stupore. – Sì, miagola spesso. Rispose la donna bionda con gioia, con amore. Kevin prese in braccio il gatto e lo accarezzò per un po’, poi lo posò a terra e lo lasciò andare. Gli piaceva stare a guardare la donna bionda davanti al lui senza dire nulla. Lei tentò di stringergli una mano in segno d’amicizia, ma il bambino la scrollò via e fece un passo indietro. La donna bionda sorrise senza alcun rammarico, aveva imparato ad attendere con pazienza i regali a sorpresa dei giorni a venire. Un bambino perduto in una dimensione fantastica, Una favola moderna Letto 2014 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||