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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Schneider, Robert

7 Novembre 2007

Le voci del mondo

“Le voci del mondo”

Einaudi, pagg. 186. Euro 7,80

Eschberg è una paesino austriaco sperduto sui monti, preda di incendi devastanti, alimentati anche dal forte vento, il föhn, che non varrebbe la pena di ricordare se non fosse che lì ai primi dell’Ottocento nacque Johannes Elias Alder, un bambino “dotato di una musicalità straordinaria”, di cui l’autore ci vuole narrare la storia. E, si può aggiungere, se lì non fossero accaduti strani fatti avvolti dalla superstizione e dall’ignoranza in una tale quantità che il curato Elias Benzer riusciva perfino a far vedere a tutti le fiamme dell’inferno e mancò poco che vi si bruciasse viva una vecchia detta Zilli “delle buone anime”, ritenuta una strega. Pensate: in quel paese, e nei dintorni, ci si sposava in nero “in omaggio all’idea che nemmeno il giorno delle nozze possa essere un giorno di gioia e di piacere.” Anche di Elias Alder si pensò che fosse posseduto dal diavolo. I genitori si portavano a dormire con sé il fratellino Fritz per paura che Elias lo contagiasse di qualche maleficio.

E il nostro protagonista non deluse le aspettative. Strani fenomeni si verificarono in lui, modificandogli perfino il corpo che divenne mostruoso nei momenti in cui, un giorno, sdraiato sulla neve, riuscì ad udire tutti i suoni e i rumori della Terra, “le voci del mondo”, appunto, in un frastuono inverosimile; e non solo lì udì, ma li vide, e quando questo straordinario momento svanì, anche il suo corpo tornò come prima, salvo il colore delle pupille che da verdi divennero gialle “come piscio di vacca.” Tra tutti i suoni, che presto dimenticò, ce ne fu uno che gli rimase impresso, ed era il battito del cuore della creatura che ancora doveva nascere e che sarebbe stata la sua amata.

Poche pagine e già siamo trascinati in una realtà che denominare fantastica è assai riduttivo, giacché l’autore si pone in mente di provare a percepire ciò che di reale ma non visibile né udibile ci circonda. Compito già svolto da altri, naturalmente, nel corso della storia letteraria, ma qui vi è un’ambientazione – quel paesino sperduto tra i monti e quegli abitanti dal sangue mescolato tra loro, tutti speciali e afflitti da una qualche menomazione – che ci fa presagire uno svolgimento degli eventi quantomeno singolare.

E accadono, infatti, molte cose, e forse troppe tali da disorientare il lettore, in un turbinio che, mentre rende curiosa la storia, rischia di ridimensionarla ad uno svago letterario il cui intento, almeno iniziale, resti solo quello di stupire. Dico iniziale, giacché poco prima del termine, essa acquista una valenza tutta sua e drammatica, che arriva finalmente a trasformare i segni sparsi a piene mani nella prima parte in significati riconoscibili e terrificanti. La eccezionale confusione che regna nella mente del nuovo parroco del villaggio, Friedolin Beuerlein, che scambia il Natale per la Pasqua, le violenze efferate che si susseguono nella notte di Natale che altro sono se non le avvisaglie dei molti avvenimenti che si scateneranno e di cui l’uomo non possiede né potrà mai possedere una sicura chiave di lettura? Incendi e tregende che illuminano di tetri bagliori il racconto accostano alla immancabile suggestione, raccapriccio e paradossi davvero oltre il limite dell’umano. Che cosa si può dire, infatti, degli abitanti di questo strano paesino di montagna dove “nelle notti di maltempo si solevano raccontare ai propri familiari le scene atroci dell’incendio, di quel bambino o di quel manzo arso vivo (fino a imitare i lamenti del bambino o, con un capolavoro di virtuosismo, i muggiti strazianti della bestia in agonia)”?

Sanguigna diventa, dunque, la presenza del mondo misterioso che sta dietro la realtà, diversamente da quanto accade, ad esempio, nella rappresentazione raffinata e sensibile che ho potuto cogliere in Sgorlon e in Walser.

Si rivela sempre di più il romanzo delle cose impossibili, o quantomeno inspiegabili, di ciò che poteva essere e non è diventato; e il fatto che tali cose accadono, e accadono soprattutto a questo singolare personaggio, anche lui proiettato nella sfera misteriosa e affascinante dell’improbabilità, ci svela che è ad un livello di lettura oltre la stessa storia che dobbiamo riferirci sempre, legato a quella sottile evanescenza di microcosmi che giacciono dentro di noi e che ad un certo punto, per un meccanismo insondabile, si proiettano all’esterno, trascinandosi dietro la nostra sensibilità più agguerrita e sconosciuta, per non dire addirittura il nucleo della nostra anima.

Diventa così il viaggio di un’anima dentro se stessa, nei mondi che contiene e che ad un certo punto si pongono, in una geometria per noi impossibile, intorno a lei, mondi che quasi mai si rivelano e quando ciò accade si è preda di una silenziosa deflagrazione che ci conduce alla follia. Improbabile e folle è l’amore della bella prostituta Burga per il suo amato (e menomato) Gottfried, al punto da indurla a inoltrarsi nel bosco in piena notte e a farle compiere tutte quelle assurde esibizioni; come pure improbabile e assurdo è il silenzio di Elias nel dichiarare il suo intenso amore per la sorella dell’equivoco cugino Peter, Elsbeth, così che non fa parola con la ragazza quando insieme su di un carro si recano alla vicina cittadina di Götzberg ed è la giovane a sperare in una sua dichiarazione, ma non sa che “Mai un Alder avrebbe dichiarato a qualcuno il proprio amore.” Sono fra l’altro, queste due scene, tra le più belle e delicate del libro, e fanno emergere nel loro contenuto, comunque parossistico, quella carica di ironia che si insinua e si mantiene lungo tutto il percorso della storia, con frequenti annotazioni di particolari bizzarri. Non a caso, quasi al termine, di nuovo l’autore si domanda: “È forse concepibile che in questo quadro di miseria trovi posto il più geniale musicista mai apparso nel Vorarlberg?” Ironia rivolta non solo alla storia narrata, ma alla vita in generale, qui vista nella sua natura inafferrabile e di quasi estraneità all’uomo, o, meglio ancora: una specie di marginalità dell’uomo rispetto ad essa. Ecco come il protagonista si presenta ad una esibizione, nella chiesa di Feldberg, in cui deve confrontarsi, improvvisando, con altri compagni: “Ed allora eccolo lì, il nostro eroe, con il suo vestito da passeggio nero e sudato, i piedi nudi e le unghie sporche, le lunghe ciocche di capelli unti e un odore nauseabondo.” Ma è da questo “stravagante” personaggio che si sprigiona quella cascata di note impossibili che mandano in visibilio i fedeli lì raccolti, e provocano in Elias, dopo che lo aveva perduto, il ritorno all’amore. Qui il personaggio incute perfino paura e riporta in primo piano lo scandaglio di una realtà che si colloca al di là di quella da noi conosciuta, e solo in qualche caso intuibile, e tale da determinare, incontrollata, il destino di uomo: “il concerto sembrava assumere, là sulla cantoria, dimensioni e significati soprannaturali.”

Una sottolineatura merita anche l’aspetto mistico della storia, che non si rivela soltanto quando Elias grida a Dio, in chiesa di notte, tutta la sua disperazione per ciò che gli accade e che rende a lui misteriosa ed illeggibile l’identità e la natura del Creatore. Ma, aggiungo, la rende misteriosa e illeggibile anche a noi, giacché ci riconosciamo, infatti, in molte, se non in tutte addirittura, delle domande che il protagonista gli rivolge in preda alla più cupa delle delusioni. Non si rivela nemmeno nella metamorfosi che lì in chiesa, dopo quella avvenuta presso il torrente Emmer, vi si compie per la seconda volta, e a ritroso, ma tutta l’ambientazione è ispirata da un misticismo che ovunque contrappone il bene al male, il buio alla luce. La chiesa con la sua presenza ossessiva e con i suoi riti misurati sull’ignoto e sulla fede, e la superstizione che si taglia a fette nell’aria di Eschberg, sono solo la punta di un iceberg che ha la sua massa devastatrice nell’animo di quei singolari personaggi. Arriverà a dire Elias: “Noi uomini siamo ciechi, e non dobbiamo far altro che rintracciare i sentieri di Dio.” Ma anche: “Se mi opponessi davvero al piano di Dio?” E che dire del cugino Peter Alder, il fratello di Elsbeth, che compare sempre in sottofondo e in sequenze rapide, ma che è un vero protagonista del romanzo, al quale contribuisce a dare i toni e le ombre di una presenza cupa ispirata e condotta dal male, finché anche in lui non avverrà una mutazione. Sarà proprio Peter ad accompagnare l’assurda fine di Elias, per il quale diventa davvero fatale, come il lettore verificherà da sé, la convinzione inculcatagli da un oscuro predicatore lascivo che “chi dorme non ama.”

Notevoli per bravura le pagine dedicate alla competizione musicale di Elias nel Duomo di Feldberg, che mi hanno ricordato quelle, però dedicate ad un altro tipo di musica, il jazz, di Kerouac nel suo “Sulla strada”.

Riguardo alla struttura, va osservato che nell’ultimo brevissimo capitolo si ha l’inserimento di una geniale operazione, che non svelerò del tutto, grazie alla quale la storia assume una particolare circolarità, cosicché dalla fine si passa al principio e viceversa in una specie di moto perpetuo inarrestabile. Come se l’autore avesse voluto imprimere a questa storia tragica dell’impossibile, pervasa da un’atmosfera surreale di morte, il segno di una incombenza minacciosa di follia e di consunzione pronta a scatenarsi per un disegno illeggibile e inafferrabile che circonda la vita di ciascuno di noi.


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