Stagi, Divo11 Ottobre 2019 Racconto della mia vita Racconto della mia vitaClasse 1924, 95 anni compiuti, nativo di Fagnano, il paese confinante con il mio di Montuolo, Divo Stagi sembra un giovanotto. Fisico praticamente asciutto, di buona altezza, lucida la mente, invidiabile la memoria, lo conoscono in tanti a Lucca per il suo carattere gioviale, il piacere della conversazione e soprattutto l’amore per il prossimo. Si può dire che abbia mantenuto intatte le qualità che lo hanno contraddistinto nella vita. Tuttora si adopera per gli altri, a cui dona il proprio ottimismo e il prorompente desiderio di diffondere il bene. Quest’anno, 2019, si è voluto levare la soddisfazione di scrivere anche un libro sulla sua vita. Vanità ? No. Ancora una volta un servizio agli altri. “Attribuisco la mia formazione per il 50% alla mia famiglia, per il 40% ad alcuni dei tanti insegnanti della scuola che ho frequentato e per il 10% al gruppo e alla società .â€. È, questa, la rappresentazione di una società scomparsa, e una delle testimonianze più forti del racconto autobiografico che andremo a leggere. La famiglia e la scuola sono state fino alla metà del secolo scorso il caposaldo formativo di ogni generazione, fosse essa aristocratica, o borghese, o popolana. La famiglia soprattutto. La scuola lo è diventata a poco a poco, a mano a mano che l’insegnamento si diffondeva anche tra le classi più umili. Le amicizie avevano pure un loro peso, meno la società in cui si era inclusi, valendo molto di più la semplice vita dei rioni in città e delle corti in campagna. Oggi tutto è rovesciato. La famiglia si è disgregata e le coppie facilmente si dividono al primo sentore di sofferenza e di inadattabilità , scomparso il dovere e il sacrificio soprattutto nei confronti dei figli. La scuola ha perso rigore e competenza, mobile ad ogni spirare di vento; lo studio e la preparazione didattica, anche del corpo docente, sono diventati una opzione individuale. Per fortuna, ancora ci sono famiglie, studenti e insegnanti capaci di testimoniare i propri doveri morali e civili, ma il loro numero è così esiguo che la loro influenza nella società è assai ridotta. Disciolti questi valori, l’individuo si forma sull’esempio modaiolo diffuso da chi mira all’egoismo e al guadagno, diventando così, anche inconsapevolmente, una delle tante canne al vento. Libertà e desiderio si sono allontanati dal senso della coerenza e del dovere. La ragione è stata messa al servizio del piacere e del permissivismo, così che la società punta a divenire uno sfrenato e orgiastico sabba piuttosto che una comunità regolata da diritti e doveri. La prima parte del libro, narrando l’infanzia e la prima giovinezza dell’autore, rievoca, appunto, usanze e tradizioni, tanto religiose che popolari, che si sono perse o non hanno più il rilievo e la suggestione del passato. Ecco come si svolgeva il rito della comunione agli infermi: “A volte dopo la Messa c’era da portare la comunione agli ammalati e allora dalla porta laterale della chiesa si snodava tra le nebbie del mattino una piccola processione di povera gente con alcuni ceri accesi e Tanislao, il sacrestano che faceva l’infermiere all’ospedale, alzava con gesto solenne sopra il prete un ombrello di seta ricamato dalle suore di Vicopelago. Io precedevo il prete e portavo appeso al collo un altarino in legno pregiato fatto da Pellegro. Giunti alla casa del malato tutta la gente della processione sostava fuori in preghiera. Il prete ed io venivamo ricevuti dai familiari con tanto rispetto e accompagnati in camera del malato. A quel punto io aprivo l’altarino e lo posavo sul comò dove trovavo sempre steso un centro di lino bianco ben ricamato e due candele accese. Il prete tirava fuori da una scatolina d’argento che teneva appesa al collo l’ostia consacrata e tutti ci si inginocchiava per seguire le preghiere e la cerimonia della comunione. Al termine, se la casa del malato era vicina, la piccola processione rientrava in chiesa compatta, altrimenti si scioglieva fuori dopo un’ultima preghiera recitata tutti assieme.â€. La fanciullezza di Divo si dispiega tra la famiglia, molto religiosa, soprattutto la madre Emma che gli inculca “quello spirito di Fedeâ€, e la Chiesa, che ha in Fagnano un parroco, don Federico, che lo vuole sempre vicino a sé, il quale gli lascia in eredità un bel tavolo da cucina affinché si ricordi sempre di lui. A don Federico succederà don Gino Modena, “Aveva 26 anni ma ne dimostrava ancora meno. Alto, magro, faccia bianca da studente appena sfornato dall’esame di maturità .â€, al quale sarà lui a fare il discorso di benvenuto e ad offrire un mazzo di fiori. Don Gino morirà giovane, a 49 anni, nel 1955, a causa di un male incurabile. Aveva retto la parrocchia dal 1932 al 1955: “Quel prete influì molto nella mia formazione sia religiosa sia culturale.â€. Anche il padre Agostino (soprannominato Gustino), antifascista risoluto, sarà importante: “Ecco chi sono quelle persone lì, si chiamano fascisti e io sono antifascista. Per il momento non è il caso di dirti altro. Ne riparleremo quando sarai più grande ma da quella gente stacci più lontano che puoi.â€; “Gustino aveva una fede robusta in Dio ma voleva saper poco di Chiesa e ancor meno di preti.â€. Aveva trascorso vent’anni in America e “a San Francisco in California era riuscito a comprare un’isola creandovi una fattoria con 80 operai.â€. Siccome Divo, incoraggiato dalla madre Emma, chiamata in famiglia la Baiocca (per via del suo cognome Baiocchi), tutte le mattine si alzava per andare a servire la Messa delle sei, Gustino non mancava di dire la sua, a lui e alla moglie, ossia che era tutta fatica sprecata: “Quando il Signore sa che gli vuoi bene, non occorre andargli a rompe’ le scatole tutti i giorni.â€. Teme che il figlio sia indotto a farsi prete e un giorno, il ragazzo più grandicello, gli ricorda che lui tra i 5 figlioli è il più piccolo, ma l’unico maschio e deve tramandare il cognome di famiglia (ho conosciuto tre delle quattro sorelle di Divo, che in casa chiamavano anche col soprannome di Poldo: Diva, che abitava a Montuolo, come me – lei e mia suocera Angioletta erano molto amiche e anche parenti per parte del marito Americo detto Vincenzo -, Silvia e Lola. Non ricordo di avere conosciuto, invece, Gina). Il fascismo, coi suoi riti, lo attrae. Gli inni patriottici soprattutto, e li insegna addirittura nella sede del Fascio a Fagnano. Ogni volta che si tengono riunioni fasciste è preso da entusiasmo: “A me questi incontri piacevano e ci partecipavo con orgoglio con la mia bella divisa ben stirata dalle mie sorelle e gli scarponi alla militare ammorbiditi col grasso di maiale, la sugna.â€. Ci racconta di una sfilata al suo paese in occasione dell’anniversario della marcia su Roma, che avvenne il 28 ottobre 1924. Il corteo doveva fare omaggio ai caduti della Prima e della Seconda guerra mondiale, i cui nomi sono elencati nella lapide murata sulla parete del campanile della chiesa parrocchiale. Mentre sfilano, sull’uscio di casa ad osservarli c’è un certo Lazzaro Stagi, sui 60 anni. Il Vicesegretario Federale, Ceragioli, lo invita a prendere parte al corteo, ma lui rifiuta, cosicché il fascista “lo schiaffeggiò e lo spinse in casa a calci.â€. Divo ci fa sapere quanto quest’uomo odiasse il fascismo rivelandoci che aveva, per questo motivo, rifiutato di congiungersi al corteo che si recava a deporre una corona d’alloro presso la lapide dove erano scritti i nomi dei caduti del paese, di cui il primo era quello di suo figlio e il secondo quello di suo nipote. È il primo degli episodi che lo indurranno a riflettere sulla vera natura del fascismo. Il secondo (“Pochi istanti che rovesciarono la mia vita.â€) gli accade nel corso dell’adunata che si tiene in piazza San Michele in occasione della dichiarazione di guerra pronunciata da Benito Mussolini il 10 giugno 1940: “In quel clima sentii sbottare il Prof. Favilli che era proprio al mio fianco. Disse con voce alta e ferma: ‘Che come maestro quell’uomo non era buono a nulla, lo sapevo ma che come statista non si renda conto che con questa dichiarazione di guerra porta l’Italia alla rovina, non lo potevo supporre.’ Un ragazzo di cognome Vignolo che aveva scritto sulla parete del gabinetto “Abbasso il Duceâ€, “fu sospeso per sempre da tutte le scuole del Regno.â€. Sorprende in questa lettura la lucida memoria dell’autore che non solo non dimentica i fatti che sono accaduti intorno a lui, ma ricorda anche fisionomie, nomi e soprannomi dei protagonisti. Bravo in tutto, come risulta dalla sua autobiografia, ha avuto in dono una memoria mirandolesca. Si potrebbero fare esempi a iosa, ma scelgo questo, assai suggestivo, poiché ci descrive un esorcismo fatto dall’insegnante di religione, padre Birindelli, un domenicano del convento di S. Romano, a Lucca: “Un pomeriggio di novembre, all’uscita della scuola quando già cominciava a far notte, io e un gruppetto di sei studenti dei più coraggiosi, bussammo alla porticina sul dietro del convento di S. Romano all’ora convenuta e Padre Birindelli ci fece entrare. Un corridoio stretto e poco illuminato conduceva alla grande chiesa che a quell’ora era chiusa ai fedeli. Siamo nel 1941, e anche Divo si prepara, insieme con altri giovani, alla guerra: “… l’inizio del nuovo anno scolastico, mi portò un’altra sorpresa: l’obbligo di seguire il corso premilitare che impegnava il pomeriggio di tutti i sabati dell’anno fino al richiamo alle armi: una bella doccia fredda! Per i giovani della mia zona si svolgeva nel paese di Montuolo. Eravamo una trentina dei quali solo io e un altro di Cerasomma avevano proseguito gli studi oltre la quinta elementare. La scrittura dell’autore è spontanea e discorsiva, gergale quando occorre e affabulatrice, e rende in immagini ciò che racconta. Divo si era costruito da solo una radio a galena e seguiva attraverso i comunicati di Radio Londra “l’andamento della guerra sui vari fronti…â€; “Venivo così a sapere che ai primi del 1942 le operazioni sui vari fronti non andavano come ci veniva descritto dai nostri giornali o dai nostri professori, tutt’altro.â€. Nel 1943 si diploma ragioniere, ma corre il pericolo di essere arruolato nella Milizia, insieme con tanti altri studenti che avevano superato l’esame di Stato. Al Teatro del Giglio, dove sono stati radunati (“Il palcoscenico era affollato di Gerarchi in divisa e noi, più di un centinaio, ci fecero sedere nelle poltrone di platea.â€), i gerarchi che presero la parola li invitavano ad arruolarsi poiché la Patria aveva bisogno di loro e “al fronte aspettavano queste forze fresche e che noi dovevamo arruolarci volontari nella Milizia.â€. Intanto apprende dalla sua radio a galena che il 10 luglio di quell’anno gli Alleati sono sbarcati in Sicilia. Arriva il famoso 25 luglio con la caduta di Mussolini: “La gente sembrava impazzita e gli italiani diventarono improvvisamente da tutti fascisti a tutti antifascisti! Per prima cosa si avventarono sugli stemmi e simboli del fascio. Bruciarono ritratti del Duce e gagliardetti fascisti, con lo scalpello distrussero fregi e stemmi e cancellarono tutte le scritte sui muri inneggianti a Mussolini. I gerarchi diventarono invisibili ma, almeno da noi, nessuno li cercò e non mi risulta che ci siano state ritorsioni su di loro o che siano state loro restituite purghe di olio di ricino.â€. L’avanzata degli Alleati è inarrestabile. Le sorprese per Divo non mancheranno. Già si è reso definitivamente conto che le sue simpatie verso il regime fascista erano sbagliate e avrebbe voluto chiedere scusa a suo padre che era stato più lungimirante e lo aveva perfino avvertito sin da ragazzo, lasciandolo però libero di comportarsi come preferiva. Chi ha conosciuto Agostino (mia moglie tra questi), lo descrive come persona abile e intelligente, difficilmente ingannabile, molto attento e risoluto. Buona e generosa la madre Emma, la Baiocca. Siamo all’8 settembre. Divo ha 19 anni, “in età di leva militareâ€: “Ricordo che in quei giorni mio cugino ‘Tondolino’, il compagno di giochi della mia infanzia che era militare in aeronautica di stanza all’aeroporto militare di Metato (PI), arrivò in corte col suo Capitano alla guida di un camion militare pieno di viveri. Il Capitano lo fece fermare in mezzo alla corte e dette ordine alle persone del posto di prendere tutto. Poi abbandonarono il camion nel greto del Serchio e si tolsero la divisa. L’esercito non c’era più!â€. È il momento in cui i tedeschi reagiscono ferocemente con rastrellamenti e rappresaglie. Un Comandante tedesco con suoi due attendenti prende alloggio nella casa di Divo. Il padre, che parlava bene l’inglese per i suoi 20 anni trascorsi a San Francisco e masticava anche un po’ di tedesco, riesce a farsi ben volere “da furbacchione com’eraâ€, e tutto corre liscio. Il Comandante consente alla famiglia di ospitare in casa anche dei parenti fuggiti da La Spezia, “ben 14 persone di cui 8 bambini piccoli, parenti di mia madreâ€. Per prudenza, ad un certo punto, Divo, consigliato dal padre, si allontana da casa e sale nei boschi di Meati presso la casa appartata della zia Adele, sorella della madre, a fare il boscaiolo (nella parte finale leggerete un dettaglio su questo lavoro, nel capitolo intitolato: “Il mio lavoro da ‘Ragioniere boscaiolo’â€). È da lassù che ode un assordante rumore e, incuriosito, scende al paese e assiste alla frantumazione delle campane: “Erano venuti i repubblichini assistiti dai tedeschi, a sequestrare le campane per farne cannoni.â€; approfittando di un momento di distrazione di costoro “volli andare a prendere con le mie mani un pezzetto di campana che conservo ancora come reliquia perché in futuro parli come le pietre e racconti al mondo questa storia.â€. Giunge anche a lui e ai suoi coetanei l’ordine della Repubblica Sociale Italiana, trasmesso attraverso manifesti murali, di arruolarsi nell’esercito repubblichino, ma l’autore decide di non presentarsi e si nasconde sui Monti Pisani: “Me n’andai la mattina prima dell’alba, con un fagottino di viveri dopo essermi trovato inteso che il prossimo rifornimento me lo avrebbe portato una delle mie sorelle in cima al bosco della zia Adele, quando vedevo il bucato di lenzuoli appesi ad asciugare alla finestra di camera. (…) Mi cercai un punto dei più nascosti e mi costruii una piccola copertura di frasche dove potermi rifugiare per passarvi la notte.â€. Incontra altri giovani renitenti (i primi partigiani) e stringono amicizia. Ogni tanto si ritrovano in punti del bosco concordati e conversano e non mancano di divertirsi: “c’era il ballo e arrivarono anche diverse donnine, giovani e meno giovani, disposte a tutto.â€. Ma, al riguardo, Divo è prudente e si rifiuta di fare all’amore con loro: “non intendevo concedermi alla prima donnina che capitava e questo mi procurò delle occhiate di sbieco da parte di ragazze che conoscevo bene e che avevo respinto sebbene con molto garbo. La zona in cui Divo e i partigiani si erano nascosti è conosciuta come “La Romagnaâ€, e qui accadde il terribile eccidio che porta il suo nome. Chi va in pellegrinaggio all’Eremo di Rupecava, prima di inoltrarsi nel sentiero che conduce al santo luogo che ospitò anche Sant’Agostino, vede sulla sinistra il monumento che è stato dedicato ai caduti per mano dei nazifascisti. Tra quei nomi ve n’è uno caro all’autore, quello della donna, Iolanda, che un giorno, bussato alla sua porta, gli offrì “mani grandi ricolmi di pane.â€. Chi non veniva ucciso, una volta catturato dai tedeschi, era condotto a Lucca, alla Pia Casa, dove ormai i locali si erano riempiti di prigionieri. Succede anche a Divo di essere catturato e condotto lì, ma riesce a fuggire: “mi dettero un badile più peso di me col quale lavorai tutto il giorno, sostenuto dalle energie che potevano venire fuori da una gavetta piena di una poltiglia indefinibile. Gli Alleati ormai sono vicini, il loro cannoneggiamento è continuo. Si teme che anche Lucca venga colpita, e allora un gruppo di partigiani avverte gli Alleati che la città è stata liberata dagli stessi cittadini e i tedeschi sono fuggiti. Stanno per arrivare a Lucca e chiudere così la guerra nel nostro territorio; vi giungeranno all’alba del 5 settembre 1944, ma il giorno prima a Divo capita di assistere alla morte del suo amico del cuore, Giovanni Bolcioni. Mentre tornano a casa, Divo avverte che c’è uno strano silenzio e lo dice all’amico, e sospetta che nelle vicinanze ci siano i tedeschi, ma “Giovanni proseguì e, quand’ebbe superato la villetta di Ada la magliaia, lo vidi crollare sotto una raffica di colpi di moschetto!â€. Siamo in prossimità del ponte di Meati. All’amico dedicherà alcune belle pagine per tramandarne la memoria. È da notare che anche in occasione del suo funerale, i rumori di guerra non tacciono davanti alla sua bara: “La cappella del cimitero era chiusa e poiché non trovammo la chiave, posammo la bara in terra davanti la porta d’ingresso che era vicina alla buca della sepoltura. La narrazione prosegue oltre la liberazione di Lucca e ci rivela altre storie conosciute da pochi e che arricchiscono la testimonianza. “La notte del 10 settembre, se non ricordo male, sentimmo rumori di camion, carri armati e camionette varie che si fermavano intorno alla chiesa. Dopo aver ospitato nella sua casa il Comandante tedesco coi suoi due attendenti, il padre fa altrettanto con il Comandante americano e i suoi due attendenti, “Tommy di circa 20 anni e Andrea di circa 30.†(il quale ritroveremo verso la fine, nel racconto “La mia amicizia col soldato americano Andreaâ€). Il Comandante lo ricompensa fornendo molto cibo alla sua famiglia: “In casa nostra non mancava il cibo, ma le persone intorno a noi, e specialmente gli sfollati, morivano di fame. Questa che segue è la parte finale di uno degli episodi più letterariamente pregevoli per contenuto, scrittura, sapienza narrativa e capacità di controllo (per la verità , tutti i racconti finali si nutrono dell’espressione più eccellente della sua scrittura, che rivela anche toni ragguardevoli di sommessa ilarità ; si legga in proposito “Finalmente si apre per me uno spiraglio: l’Università â€). Un colpo di cannone, sparato dai tedeschi, fermi a Ponte a Moriano da dove continuavano a colpire la città e la periferia, si abbatte su Via Boboli, a Sant’Anna. Quando la madre Emma viene a conoscenza del fatto, subito si preoccupa poiché lì abita il fratello Ghigo con la sua famiglia. Inforca la bicicletta, seguita da Divo, e giunge sul posto. La bomba ha colpito proprio la casa del fratello: “Saltò sulla bicicletta e si diresse a tutta velocità verso S. Anna. Io feci altrettanto, percorsi i quattro chilometri col cuore in gola ma non riuscii a raggiungerla. C’è un filo rosso che unisce tutti gli episodi narrati in questo libro, oltre la prodigiosa memoria che li ha preservati, ed è la Fede, con la ferma certezza che ogni cosa che accade sulla Terra, buona o cattiva, contiene sempre le risposte che Dio dà a ciascuno di noi. Non è un caso, perciò, che l’ultimo racconto, “La Messa di Mezzanotte del Natale 1944â€, ci riporti alla celebrazione del Natale di quell’anno per svelarci che, se l’autore è riuscito a superare gli aspri eventi della guerra, ciò è dovuto in gran parte alla sua fiducia in Dio e alla sua voglia di vivere in un mondo contraddistinto dalla bontà e dalla generosità dell’uomo: “E venne, finalmente, Il Bambinello in mezzo a noi. Venne puntuale, alla Messa di mezzanotte, a condividere le nostre miserie. Il mio papÃSi legge, a proposito dell’autore: “Nasce il 28 aprile 1924 a Fagnano, da Agostino, agricoltore, e da Emma Baiocchi, operaia della Manifattura Tabacchi di Lucca. La campagna ad occidente della città di Lucca è lo sfondo costante della sua narrativa. Fagnano, il piccolo paese che gli ha dato i natali, distante pochi chilometri da Lucca, e che ha conosciuto un’antica civiltà contadina, ricca di tradizioni, ne è il perno. “Il mio papà †è venuto prima, alla fine degli anni ’80, e attraverso la figura del padre il racconto rievoca suggestioni e illuminazioni di un modo di vivere che non c’è più, ma che fu, a dispetto della fatica materiale che lo distinse, ricca spiritualmente e felice. “Mio padre era il più ricco tra i contadini della corte dove abitava. Si deduceva facilmente anche dalla quantità dei suoi raccolti, che era sempre di gran lunga superiore a quella degli altri contadini e ciò risultava ancor più evidente per il raccolto del granturco. Già questo incipit ci anticipa i profumi di quanto raccoglieremo con questa lettura. Lo stile è limpido, i ricordi asciutti e efficaci. Con la scrittura di Stagi non ci si annoia. Chi come me lo conosce vede una corrispondenza strabiliante tra il suo modo di scrivere e di parlare. È un invidiabile affabulatore e chi lo ascolta non vorrebbe mai che finisse il suo raccontare, adorno di ricordi così nitidi che appaiono come accaduti appena qualche giorno prima. Con una facilità che appartiene a pochi, ci trasporta nel passato facendoci provare la sensazione che esso appartenga anche al ciclo presente della nostra vita. Questa parte occidentale della campagna lucchese, e il paese natale di Fagnano in specie, ha in Stagi il suo cantore, così come la parte orientale della Piana di Lucca lo ha in Giampiero della Nina, che ha fatto del suo paese natale, Porcari, l’epicentro simbolo di una realtà che non deve essere dimenticata. Da notare il facile scivolamento, che avviene con una delicatezza e leggerezza mirabili, dell’autore nelle vesti del padre diventato nuovo io narrante. Vi si forma una corrispondenza e una congiunzione di anime letterariamente affascinanti. Attraverso il figlio, il padre torna a vivere in una rinascita, meglio ancora in una resurrezione, che pare avere del miracoloso. In America Gustino ebbe successo; aveva un’isola tutta per sé dove impiegava un’ottantina di operai. Vi restò qualche anno, ma poiché sua moglie, che lui chiamava la “Baiocca†(dal suo cognome Baiocchi), non aveva alcuna intenzione di lasciare l’Italia, fu costretto a tornare. Seppe sempre amministrare saggiamente la sua fortuna, facendone godere ai figli. Eccolo, infine, sulla nave che trasporta i migranti e che lui ribattezza col nomignolo di “affogagattiâ€: Restano affascinati dalla visione della statua della Libertà posta all’ingresso della Baia di Hudson: “La speranza riaccese la gioia sui nostri volti.â€. New York e gli Stati Uniti d’America rappresentavano per i migranti la realizzazione di un sogno e la culla della speranza. Nel paese della libertà per eccellenza si poteva finalmente sconfiggere la miseria: “Tra poche ore dimenticherò i sacrifici del mare e della quarantena e dopo un’altra galoppata di una quindicina di giorni in treno per attraversare gli Stati Uniti, sarò finalmente in California, a San Francisco, dove mi aspetta un lavoro sicuro, già prenotato per me.â€. Arriva a San Francisco dopo un viaggio estenuante in treno, dove si trovano altri emigranti che parlano varie lingue a lui sconosciute: “Fino a qui non ci avevo posto attenzione ma mi ero reso conto ugualmente che il paesaggio americano è di una monotonia spaventosa. È una descrizione avvincente, ricca di movimento; quel tubo che raccoglie l’acqua lungo una fossa appositamente costruita e alimentata per chilometri e chilometri per soccorrere le necessità del treno rappresenta una rarità , un documento storico; per molti una scoperta. Gustino che, non scordiamolo, ci sta raccontando la sua avventura di migrante attraverso i ricordi del figlio, precisa: “Molti anni più tardi, quando ripercorsi questa linea ferroviaria per il mio secondo viaggio a San Francisco, seppi che quello sconfinato paesaggio dall’affascinante colore rossastro che avevamo attraversato per un tratto di circa duemila chilometri, è il famoso Colorado che per secoli e secoli ha inghiottito nei suoi Grand Canyon, migliaia e migliaia di pionieri che morivano di sete e di stenti galoppando col loro cavallo verso il Far West nella speranza, come me, di trovare un lavoro nella lontana e sconosciuta California.â€. Giunto a San Francisco è accolto dal cognato e dalla sorella e il suo primo lavoro è quello di “manovale per la costruzione della linea ferroviaria di Santa Fe’â€; “in pochi giorni le mani mi si ricopersero prima di bolle e poi di piaghe sanguinanti.â€. Quando Gustino ha padronanza del mestiere e della lingua, si congeda da lui: “Al momento di separarci mi ricordò che, quando avevo con me del denaro, dovevo viaggiare sempre armato tenendo la pistola ben evidente a portata di mano nel cintolone e non dovevo mai entrare in un ‘Saloon’ se non volevo finire disperso in una botola come il suo amico portoghese e poi mi raccomandò di non licenziare i due aiutanti perché erano dei lavoratori capaci e onesti. La conoscenza di Ghigo fa la sua fortuna: “Quel lavoro era una manna. Già guadagnavo bene facendolo come mi era stato insegnato ma io lo migliorai ancora e feci soldi a palate.â€. Più si avanza nella lettura e più ci si rende conto che questa testimonianza, così genuina e nitidamente e compiutamente espressa, ha un valore storiografico attinente alla nostra emigrazione dei primi del Novecento. Imbottito di soldi, un giorno, capita al mercato delle verdure, e, ormai padrone della lingua inglese, gli viene un’idea e domanda: “Mi venne un’idea che mi era trapelata nella mente la mattina prima tra i mille profumi del mercato e ritornato da quelle parti domandai a un grossista: ‘Da dove viene questa verdura?’ Rispose: ‘Dalle isole… da Oakland’. E così di domanda in domanda seppi che si potevano avere in concessione dal Demanio degli appezzamenti di terreno o addirittura delle isole. Il resto venne da sé e in pochi giorni riuscii ad ottenere in concessione demaniale per novantanove anni, la proprietà di un’isola grande un’infinità di acri, corrispondente a una ventina di ettari, sistemata nelle vicinanze di Oakland, cioè dalla parte opposta della baia ma proprio di fronte al porto di San Francisco.â€. Vi impianta una grande fattoria: “Cominciai con dodici cavalli, due aratri e feci costruire qualche baracca dove dormire. Inizialmente avevo una decina di operai che in due anni passarono a ottanta. I cavalli passarono a una venticinquina ed in più avevo molte vacche per il latte e per la carne da macello per nostro uso; e poi maiali, polli, oche, tacchini e due chiattoni dei quali uno, lo rimorchiavo al mercato tutte le mattine carico di verdure fresche e l’altro lo lasciavo in fattoria dove me lo preparavano carico per la mattina successiva. Sembra che tutto proceda a rose e fiori e che l’emigrante Gustino abbia dimenticato il suo paese natale. Succede a lui come succedeva a tutti gli emigranti sia a quelli che lo precedettero che a quelli che lo seguirono. Il ricordo del passato ogni tanto, però, si presentava alla loro mente, spesso attraverso il sogno, e provocava una grande malinconia. Il libro è diventato anche un amoroso colloquio tra padre e figlio, un legame spirituale che unisce tra loro due epoche lontane e perfino due territori lontani. Infatti, il ricordo che nasce nel padre e si forma in quell’isola al di là dell’oceano, e il figlio che lo recupera attraverso il racconto e lo restituisce ai luoghi della sua infanzia, conducono ad unità due nature e due mondi che solo apparentemente non si conoscono. In questo modo, attraverso lo spirito dell’uomo, l’universo si fa piccolo, simile ad un nido che racchiude l’unico sentimento che può far muovere il creato, l’amore. Il padre continua a raccontarci il suo viaggio della memoria proprio ricordandoci di quando a 13 anni andava a lavorare alla Birreria Landucci in Piazza della Pupporona, nella città di Lucca: “Il Landucci mi voleva bene e spesso mi mandava col barroccino a consegnare la birra alle varie Caffetterie della città ed io, percorrendo scalzo le strade lastricate in pietra, mi sentivo scottare i piedi lungo i tratti assolati e provavo un grande refrigerio quando li posavo sulle pietre lisce e fresche lungo i tratti ombreggiati. Ancora una volta è fortunato. Un giorno che esce dalla chiesa cattolica della Missione a San Francisco dove ha ascoltato la messa in latino, che gli fa sembrare di trovarsi nella chiesa del suo paese di Fagnano, scorge un gruppo di italiani che innalzano un cartello dove è scritto che cercano lavoro. Si avvicina e domanda se tra loro ci sia un toscano. C’è. Gli chiede da dove venga. La risposta quasi lo fulmina. Viene da Lucca, “Da San Concordio… dal Roton’ di San Concordioâ€; “Ci abbracciammo e venne a lavorare da me.â€. Si chiamava Livio Lucchesi, bravo nel lavoro, e presto “diventò il mio braccio destro.â€. Nel 1906, mentre sta pensando di tornare in Italia per chiedere in sposa la bella ragazza che aveva intravisto nel corso della recita del “Bruscelloâ€, San Francisco è colpita da un terribile terremoto: “La maggior parte delle case furono distrutte sia per i crolli, sia per gli incendi che divamparono subito per lo schianto delle tubature del gas. Anche la mia fattoria fu distrutta ma non da crolli o incendio: fu invasa dalle acque del mare che, agitate dal terremoto, rigonfiarono e travolsero gli argini dell’isola. Ma, scampato il pericolo, incombe un’altra minaccia: il fallimento delle banche a seguito di una profonda crisi economica. Gustino conserva tutti i suoi risparmi in banca, ed è assalito dall’angoscia. Tutto il ricavato del suo faticoso lavoro potrebbe andare in fumo: “La gente si accalcava agli sportelli per prelevare e anch’io provai ad avvicinarmi ma non mi fu possibile perché c’era troppa ressa. Trascorre un anno e il pensiero della ragazza intravista al paese torna a farsi pressante; così decide di partire per chiederla in sposa, nella speranza che nel frattempo non si sia unita a qualcun altro, visto che era una ragazza molto bella e corteggiata. Quando si imbarca a New York, conosce una donna del suo paese, emigrata quando lui era ancora piccolo, la quale ha con sé la figlia ancora bambina, Dalida, “di cinque o sei anniâ€. La donna, vedova, è gravemente malata e non vuole lasciare la figlia sola in America. Ma muore nel corso della navigazione, colpita dalla tisi, come il marito pochi giorni prima: “Il Capitano si rivolse a me pregandomi di essere presente alla cerimonia funebre che lui avrebbe celebrato in coperta all’alba del giorno successivo; poi mi disse che avrebbe ufficialmente affidato a me la piccola Dalida perché io la consegnassi ai nonni in Italia. Stiamo assistendo davvero ad una esperienza straordinaria che, molto probabilmente, ne ha poche altre di simili, ricca com’è di imprevisti e soprattutto di umanità . Sbarcato a Genova e preso il treno, arriva infine alla stazione di Montuolo, da lì, a piedi, raggiunge Fagnano: “Prima passai dai nonni di Dalida ai quali affidai la bimba che non voleva staccarsi dal mio collo perché non capiva una parola di italiano e non si fidava di loro perché non li conosceva, poi mi diressi verso casa mia e prima di entrare in Corte, mi dovetti fermare perché mi prese il tremito alle gambe.â€. Invece Gustino ha successo. Si mette in attesa su di un viottolo, “sotto il pergoloneâ€, da dove Emma sarebbe passata a piedi di ritorno dalla fabbrica: “Quindi non mi allontanai da lì e non so dire quante volte lo percorsi in su e in giù. Ad un tratto, ecco che mi apparve nella penombra, là in fondo, la visione tanto desiderata! Siamo nel 1908, e i due si sposano, è il 29 febbraio, nella quieta, antica e piccola chiesa di Meati: “Com’era bella la mi’ Emma nell’abito di seta nera ornato di ricami e di bottoni preziosi.â€; “La cerimonia durò pochi minuti. Io mi rifiutai di rispondere alle domande che il prete mi voleva fare sulla dottrina e gli dissi che a quelle cose lì avevo già risposto da ragazzo.â€. E qui si completa anche il quadro della personalità audace e vigorosa del nostro protagonista. Si arriva allo scoppio della Prima guerra mondiale e il Console italiano lo chiama insieme ad altri e organizza il rimpatrio. Viene inviato a Castagnavizza, sul fronte fra la Jugoslavia e l’Austria. “…ci spedirono tutti al fronte arruolandoci senza farci visitare da un medico per accertare la nostra idoneità fisica e senza preoccuparsi del fatto che nessuno di noi aveva mai visto un fucile o un’arma militare. Grazie ad un permesso vede per la prima volta la sua primogenita, Diva; poi il fratello Aniceto, che lavora all’Ansaldo di Genova, dove si costruiscono aeroplani da guerra “quasi tutti in legnoâ€, riesce a farlo assumere grazie all’amicizia col Direttore della fabbrica e Gustino, invece che tornare al fronte, ha la possibilità di condurre una vita un po’ più serena e di poter andare più spesso in licenza. Nel 1916 gli nasce un’altra figlia, e due anni dopo assiste alla fine della guerra: “Il 4 novembre del 1918, tutti i cantieri, tutte le fabbriche e tutte le navi alla fonda nel porto di Genova fecero suonare improvvisamente le loro sirene e contemporaneamente squillarono le campane di tutte le chiese della città . Finisce anche la sua esperienza americana. Visto che non riesce a convincere la moglie, la “Baioccaâ€, a trasferirsi con lui in America, decide di vendere la fattoria a colui che negli anni della sua assenza l’aveva ben gestita e che era stato ben più che il suo braccio destro, il Lucchesi, agevolandolo nel prezzo e nella rateizzazione del pagamento: “Concluso l’affare, salutai gli operai abbracciandoli uno ad uno e, arrivato sul treno, il Lucchesi ed io continuammo a salutarci agitando la mano finché fu possibile vederci. Poi mi accasciai sul sedile con la testa fra le braccia e, ancora una volta, cominciai a singhiozzare. Il racconto riprende ora, come all’inizio, con l’autore che torna a narrare in prima persona. È lui a fare memoria del padre dal momento in cui, rientrato in Italia nel 1920, vive la sua vita accanto alla famiglia e in stretto contatto coi cinque figli. L’autore pubblica anche propri testi in vernacolo in cui celebra episodi della vita del padre (ad esempio: “Ir Comandante dell’Annonaâ€; “L’Assunta in casa di Gustinoâ€), ed anche della madre Emma (ad esempio: “La Suffragetteâ€; “La pulissia dell’Acqua Benedettaâ€), della quale scopriamo così, che fu donna molto attiva, una “suffragetta†che nella fabbrica in cui lavorava, la Manifattura Tabacchi, s’impegnò nella difesa dei diritti delle donne: “La ‘Baiocca’ non era poi tanto baiocca, cioè minchiona… Anzi, come risulta dalla fotocopia di alcuni documenti originali che sono riuscito a rintracciare e che espongo nelle pagine successive, era una ragazza molto preparata. Seguono altre composizioni in vernacolo ugualmente divertenti per il timbro popolare che le contraddistingue. Una di queste riguarda lo stesso autore, che a 5 anni, fu “ammesso nel gruppo dei chierichettiâ€. Era il 31 marzo 1929. Letto 885 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||