STORIA: Giorgio Pisanò: I cosacchi nella Resistenza
17 Settembre 2021
(Da Giorgio Pisanò: Storia della guerra civile in Italia 1943-1945″)
Le pagine che leggerete fanno luce sulla presenza dei cosacchi nella guerra civile italiana.
I cosacchi furono notoriamente antibolscevichi e i nazisti ne approfittarono per arruolarli e inviarli nel Friuli a combattere i partigiani.
Di questo avvenimento storico ci ha parlato il più friulano di tutti, il grande scrittore Carlo Sgorlon, nel romanzo uscito nel 1985, “L’armata dei fiumi perduti”.
Ma nel libro di Pisanò troviamo presenti pagine che ce ne rivelano le vicende tragiche. (bdm)
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I cosacchi restarono in Carnia fino alla fine di aprile del 1945. La loro permanenza nei primi quattro mesi del ’45 fu praticamente senza storia. Le bande partigiane, infatti, non riuscirono mai a riorganizzarsi e a molestare i robusti presidi dislocati ovunque. Nel mese di febbraio era giunto, tra l’altro, ad assumere il comando diretto delle divisioni l’Atamano principe Krasnov, che aveva posto il suo quartier generale all’Albergo Savoia a Villa di Verzegnis.
Le genti della Carnia ricordano ancora oggi l’atmosfera di “vecchia santa Russia” suscitata nelle loro vallate dalla presenza di questi antichi generali dello Zar, che tentavano di far rivivere, nelle modeste cittadine friulane, il clima eroico e romantico della loro giovinezza. Racconta il Carnier (opera citata): « Principesse e dame di rara bellezza giungevano spesso a quel quartier generale per porgere un saluto al principe. Krasnov, tralasciando momentaneamente i suoi problemi militari, sapeva assumere un contegno cavalleresco, compiacendosi di quelle visite che egli accoglieva con rigorosa etichetta poiché riteneva che fosse suo compito ridare auge al mondo aristocratico russo vissuto per troppo tempo in esilio.
« Erano mogli di ufficiali o figlie di russi esiliati; vestivano con una certa eleganza e calzavano impeccabili stivali, e venivano circondate da attenzioni ed inchini.
« Intorno a loro il clima di guerra pareva improvvisamente allontanarsi. Avevano gran di occhi, azzurri e sognanti, oppure scuri con una luce vivace e mutevole che sapeva attenuarsi esprimendo soavità e malinconia. I capelli erano normalmente corvini e scendevano intorno al collo sulla pelle olivastra. Donne cosacche nelle quali si mescolava la dolcezza e la forza dell’Asia.
« Al quartier generale di Krasnov si godeva, benché si fosse in tempo di guerra, di un lusso imperiale: una nostalgia che il nazionalsocialismo tollerava per i suoi fini politici ».
L’ultimo sogno dei superstiti generali dello Zar e dei cosacchi si infranse alla fine di aprile del 1945, allorché, spinto dagli eventi che precipitavano, il principe Krasnov diede ordine alle sue divisioni di ripiegare in Austria, nel tentativo di congiungersi con le altre divisioni dell’armata russa antibolscevica che stavano ripiegando dalla Jugoslavia e dalla Cecoslovacchia verso Lienz. La ritirata dei 30.000 cosacchi, accompagnati dalle loro famiglie e da una interminabile teoria di carriaggi, assunse toni di epica tragedia. La immensa colonna, flagellata da una violenta tempesta, riuscì comunque a superare i valichi alpini e a discendere in terra austriaca. L’unico tentativo di arrestare questa ritirata venne compiuto dai partigiani a Ovaro, nella Valle di Gorto, il 2 maggio. Racconta ancora il Carnier: « Ovaro segnò una tappa tragica e storica nella ritirata cosacca e fu la tomba della guerra partigiana. Mai, nei sette lunghi mesi di occupazione, i cosacchi avevano subito un attacco frontale da quel nemico che sapeva velocemente scomparire sui monti. Ma a Ovaro, il 2 maggio 1945, la guerriglia si trasformò in una azione di linea, offensiva, col compito specifico di piegare quel forte presidio e col tacito scopo di bloccare le divisioni cosacche in ritirata chiedendone la prostrazione. I trentamila cosacchi coi loro generali avrebbero dovuto deporre le armi ai partigiani! Si trattava di un progetto poco realistico, abbozzato in maniera rudimentale, irrealizzabile… ».
Questo progetto costò la vita a decine di innocenti. I cosacchi, infatti, attaccati a Ovaro, risposero con violenza in attesa che sopraggiungessero i rinforzi. La battaglia si sviluppò feroce attorno al Municipio, dove si erano asserragliati numerosi cosacchi. Quando giunsero i rinforzi, i partigiani si ritirarono precipitosamente ma i soldati di Krasnov fucilarono subito per rappresaglia 26 valligiani, tra i quali il sacerdote don Cor- tiula, che si era rifiutato poco prima di seppellire i morti cosacchi dentro il campo-santo. Resi feroci da questi attacchi partigiani, i soldati asiatici di retroguardia uccisero altri ostaggi in numerose località: ad Avasinis, 63 civili vennero passati per le armi, vittime innocenti della lotta tra partigiani e cosacchi.
Un ultimo tentativo condotto dal CLN di Tolmezzo, il 3 maggio, per ottenere la resa degli ultimi reparti di Krasnov non approdò ad alcun risultato. Il generai Domanov rispose infatti che egli avrebbe ceduto le armi non ai partigiani, ma solo agli angloamericani che costituivano un esercito regolare. Terminò così, tra il furore delle rappresaglie e i bagliori degli incendi, la tragica ritirata dei 30.000 cosacchi verso l’Austria. Una ritirata che doveva concludersi nella maniera più crudele e incredibile: una ritirata che la-sciò alle sue spalle uno strascico di odio antipartigiano. La popolazione della Carnia, infatti, addossò ai guerriglieri la responsabilità morale delle rappresaglie compiute dai russi in ritirata. Lo testimonia ampiamente il Carnier nel suo libro. Lasciamo a lui la parola non solo per ciò che si riferisce al comportamento assunto dalle genti carniche nei confronti dei partigiani, ma anche per quanto riguarda le drammatiche vicende che segnarono la fine delle divisioni cosacche rimaste in Austria: i 30.000 soldati, infatti, e le loro famiglie, furono consegnati dagli inglesi ai sovietici che li massacrarono per ordine di Stalin:
« La guerra, anche in Carnia, era quindi cessata. Sui luoghi della devastazione incombeva una inesprimibile tristezza. A Ovaro, il 5 maggio, i valligiani seppellivano i loro morti. Sui muri del villaggio apparivano scritte di sfida e di rimprovero indirizzate ai responsabili dell’eccidio. Sulla facciata di una casa che dava sulla strada, nell’imminenza dei funerali, era apparso un manifesto, stilato a mano, del seguente tenore:
« I responsabiili di questo ingiusto massacro, dove ventisei cittadini hanno trovato la morte, dovranno rispondere di tali lutti e dei danni cagionati con dissennata provocazione dai cosacchi.
« Una moltitudine di popolani era scesa da tutte le valli: uomini e donne che vestivano l’abito festivo per celebrare quell’alba di civiltà che s’alzava su una notte di lutti, ragazzi e ragazze che indossavano maglie variopinte di lana di pecora. Il sole scottava, nell’aria vagavano ancora le impurità dell’incendio e il sapore del bruciato.
« La gente sostava, muta, lungo le vie. Molte donne piangevano. Un vecchio, che aveva avuto un figlio ucciso dai cosacchi, passò dinanzi al manifesto che accusava i responsabili, lo lesse e scoppiò in un pianto convulso. I suoi singhiozzi agitarono gli astanti. Uomini e donne accorsero intorno a quel vecchio, cercando di confortarlo. Indi qualche grido d’accusa si levò sopra il mormorio della folla: “Partigiani, mediocri, incapaci! Partigiani comunisti asserviti ai borghesi, venduti al capitale! A morte… a morte!”.
« Le grida aumentavano gradualmente di intensità ed erano spaventose. Stranamente nessuno di quegli insulti era indirizzato ai cosacchi, benché gli autori materiali dell’eccidio fossero loro. Ciò spiegava come gran parte del popolo carnico, così duramente provato dai cosacchi, attribuisse molta parte della tragedia alla disorganizzazione e al disaccordo regnanti nel movimento partigiano.
« I partigiani della brigata Garibaldi cercavano di non dare ascolto a tali grida. Essi marciavano inquadrati per le vie di Ovaro nelle loro uniformi nuove, color cachi, e il fazzoletto rosso, ampio, passato sotto gli spallacci, che ricadeva sul petto. Molti di loro erano biondi, coi capelli che arrivavano alle spalle e col viso abbronzato, frutto dell’inverno passato sui monti.
« “Elio”, membro del CLN, aggregato alla brigata Garibaldi, camminava per le strade accompagnato da un gruppo di collaboratori. Parco di parole, egli scrutava la folla col suo sguardo enigmatico, ne ravvisava i disagi e le necessità più immediate. Tra i teorici del movimento rivoluzionario, “Elio”, che aveva trascorso ben due inverni alla macchia, braccato dai fascisti e dai tedeschi, restava l’unico elemento superstite. Ma più che mai egli sapeva che tra i partigiani e la popolazione vi era una frattura e capiva che la battaglia di Ovaro, da lui sconsigliata, rappresentava nel suo totale insuccesso una irrimediabile aggravante.
« Secondo gli esponenti garibaldini, i responsabili veri dell’insuccesso partigiano a Ovaro furono i partigiani osovani e il “Comitato di Valle”, quest’ultimo inseritosi come forza politica a compromettere le azioni militari. Ma infine anche la brigata Garibaldi si era mescolata all’attacco di Ovaro, in cui i casacchi sostennero l’ultima battaglia e, sba-ragliate le forze partigiane, ristabilirono la loro marcia verso la Carinzia…
« I primi alleati ad avere contatto con i cosacchi del generale Domanov furono gli scozzesi del colonnello Malcholm, che arrivarono a Mauthen attraverso il Plòckenpass. Su precise istruzioni del Maresciallo Alexander, il colonnello invitò il generale a raggiun-gere la Drava per creare un unico raggruppamento con i cosacchi di Krasnov.
« Ma nei giorni che seguirono lo stabilirsi delle truppe cosacche lungo la Drava, i britannici, dopo la prima comparsa, si limitarono a fornire dei viveri, evitando cautamente gli incontri con lo Stato maggiore insediatosi a Lienz nell’albergo Zum goldenen fisch, L’Atamano Krasnov, invece, aveva trovato sistemazione in una villa.
« I generali cosacchi non comprendevano la ragione di questo strano abbandono da parte britannica. Ma, probabilmente, col loro temporeggiare i britannici cercavano di giovarsi di nuovi fattori per disfarsi di quell’esercito autonomo sul quale pendeva la condanna del patto di Yalta.
« Nel frattempo era ritornato il sereno. Nell’Alta Drava, lussureggiante di fronde e scura d’abeti, le Alpi spiccavano con le cime nevose sullo sfondo occidentale. Il mormorare del fiume era ancora forte, alimentato dai torrenti che s’innestavano fragorosi precipitando dai monti. Ogni giorno, a centinaia, i cavalli cosacchi si spostavano sulle sponde del fiume per l’abbeveraggio, condotti a briglia dai loro cavalieri che sostavano a rievocare gli episodi di guerra: le battaglie, i bivacchi, i morti lasciati nelle più remote vallate.
« Nel lungo accampamento erano rappresentate tutte, o quasi tutte, le grandi sette dei cosacchi delle pianure del Don, delle altissime vette del Caucaso, del Kuban, della Crimea, dei monti Urali e delle steppe siberiane. Tutto quel campo di cosacchi in mezzo alle montagne dell’Austria, dove erano giunti dalla Carnia reggimenti e famiglie per costituire un solido nucleo di resistenza, era dimostrazione di forza e di coerenza. Era l’espressione di un popolo forte, leggendario, che vantava secoli di ribellione e di storia.
« Il 15 ° Corpo di cavalleria cosacca del generale Helmut von Pannwitz, proveniente dalla Jugoslavia, si era accampato ad Est, oltre Klagenfurt, a una distanza di circa 150 chilometri dal campo Peggetz situato nell’Alta Drava. I due campi, che riunendosi avrebbero raggiunto un diverso peso nelle trattative con gli alleati, si mantennero invece isolati. I cosacchi, considerandosi a disposizione o comunque prigionieri di Sua Maestà britannica, s’illudevano di una legittima protezione anche perché nessun ordine di disarmo era stato ancora emanato nei loro confronti e consideravano il fatto come una manifestazione positiva delle intenzioni britanniche.
Il tradimento britannico
« Ma i primi sintomi di un che di sinistro che andava maturando incominciarono invece a delinearsi. Il 24 maggio un gruppo di britannici, invasi gli accampamenti, provvide in base a un ordine di sequestro di tutti i cavalli, nonostante le ferme proteste dei generali. Il 26 maggio i britannici sequestrarono inoltre tutte le disponibilità finanziarie della Feldbank, all’incirca venti milioni, costituiti da valuta italiana e da marchi, nonostante la loro inviolabilità, dato che si trattava in maggior parte di depositi a carattere privato.
« Tali provvedimenti scoraggiarono profondamente i cosacchi.
« II Maresciallo Alexander fece, su di una jeep, una rapida apparizione alle periferie degli accampamenti e guardò con indifferenza quelle truppe che gli si affollavano intorno con sguardi interroganti e angosciati.
« I contatti tra gli esponenti cosacchi e il comando britannico vennero infine avviati per decidere il destino dei cosacchi. La prospettiva di un affiancamento all’armata britannica era ormai sfumata in conseguenza della situazione determinatasi con gli ultimi avvenimenti della guerra. Adolfo^ Hitler si era ucciso, e l’ammiraglio Doenitz, suo successore al potere del Terzo Reich, fallito il tentativo della sua proposta agli alleati di continuare la guerra contro i sovietici, aveva firmato la resa incondizionata. Non rimaneva che la speranza di poter convogliare i cosacchi oltre Oceano, probabilmente in Australia.
« Ma Alexander non era che un alto funzionario britannico nei ranghi dell’esercito. Egli eseguiva degli ordini in base ad accordi già presi tra il suo governo e l’Unione Sovietica, praticamente tra Churchill e Stalin r ch’egli tuttavia ben conosceva avendo presenziato alla conferenza di Yalta); nè a lui spettava discutere degli ordini: doveva attuarli solamente scegliendo i sistemi ritenuti più idonei.
« Le trattative altro non furono che una messinscena: il 27 maggio 1945 il Maresciallo Alexander pretese la resa dei cosacchi e la consegna di tutti gli armamenti.
« Il disarmo non turbò molto i cosacchi, quanto invece l’arresto improvviso, da parte britannica su mandato sovietico, del tenente generale Andrei Grigorievic Shkuro, eroico ufficiale che guidò, durante la controrivoluzione del 1918-1921, la “divisione selvaggia”, nella steppa. Shkuro, provenendo da Klagenfurt, si era presentato il 24 maggio al comando di Domanov. Il giorno 26 era giunto il suo Stato maggiore, e in tale occasione il generale era stato arrestato.
« Il 28 maggio, con il pretesto di un invito a Spittal, a una conferenza del Maresciallo Alexander, tutti gli ufficiali, complessivamente circa duemila, vennero prelevati dai loro accampamenti e caricati su autocarri britannici. I generali, invece, si incolonnarono con le proprie automobili.
« Lo stesso Krasnov, giovandosi del suo alto prestigio, essendo sorti vari tentenna- menti tra gli ufficiali, li sollecitò ad accettare l’invito. E gli ufficiali, compresi i cadetti del generale Salamakin, vi aderirono in massa. Per l’occasione la maggior parte di essi trasse dai bagagli la migliore uniforme, con le spalline scintillanti.
« Ma lungo il tragitto nella verde vallata della Drava, che degradava densa di boschi e silenziosa, leggermente offuscata di bruma, la colonn?. delle macchine che trasportava gli ufficiali cosacchi verso Est in direzione di Spittal, giunta all’altezza del villaggio di Nikolsdorf, si vide affiancare da contingenti corazzati britannici. Il chiaro scopo di questa scorta armata, che suggeriva una sinistra minaccia, spinse alcuni ufficiali cosacchi a balzare dagli autocarri e a fuggire nei boschi. Essi erano costernati e smarriti tra le folte macchie, finché raggiunsero, nelle notti successive, il loro accampamento.
« Giunto il grosso della colonna a Spittal, non incontrò affatto il Maresciallo inglese, alla cui conferenza gli ufficiali erano stati convocati, né fu notato alcun apprestamento del genere. Generali e ufficiali vennero invece rinchiusi nelle carceri, per la successiva consegna ai sovietici. Scene di smarrimento e di panico si verificarono nella massa degli ufficiali cosacchi. I britannici ordinarono l’immediata consegna di tutti i documenti personali.
« Fu un desolante enorme tradimento, caratterizzato dall’assenza di ogni principio cavalleresco. Fu certamente l’episodio più triste nell’atmosfera della guerra appena cessata, poiché ferì nell’onore un’intera stirpe di ufficiali e suscitò in loro l’odio.
« Quell’arresto dei generali e degli ufficiali in massa, ottenuto con l’allettante conferenza fantasma del Maresciallo Alexander e realizzato a distanza dall’accampamento, dopo aver provveduto al disarmo, era la risultanza di un piano che aveva il fine di privare la truppa del suo cervello motore.
« Krasnov, che si sentiva responsabile di aver convinto gli ufficiali ad aderire alla conferenza, era rimasto annientato. Tutti si attendevano da lui, Atamano del Don, una legittima ribellione. Tutti indirizzavano a lui sguardi smarriti e interrogativi, non con ri- sentimento ma con dolore, ravvisando nella sua dignità una profonda sofferenza.
« Dentro le carceri di Spittal, Krasnov, con gli occhi pieni di sdegno, volgendosi agli ufficiali britannici che gli si aggiravano intorno, dandosi un pugno alla fronte, esclamò: “Ci consegnerete ai bolscevichi? No! Questo per noi tutti significa la morte! Potevate agire con dignità. Meglio sarebbe stata per noi una morte dignitosa, con onore!”.
« Per la seconda volta i britannici avevano inciso duramente sulla sua carriera e nella sua vita di uomo. La prima volta fu durante la campagna della controrivoluzione. La presenza della missione militare britannica, non condividendo su quel teatro di lotta la sua politica di rigido conservatore fedele alle leggi dell’antico zarismo, aveva influito su di lui costringendolo a riconoscere il generale Denikin quale comandante incontrastato dei bianchi sulla scena politica della zona meridionale. Egli allora si era dimesso, il 15 febbraio 1919, ed era stato sostituito col generale Bogaewsky.
« Ora erano nuovamente i britannici che decidevano di lui, del suo Stato maggiore e dei suoi fedeli ufficiali, consegnandoli ai giustizieri sovietici.
« Nella sua desolazione, Krasnov, parlando ai generali del suo Stato maggiore, che come lui non intravedevano che una fine imminente, rammentò Kornilov, comandante supremo dell’esercito russo, caduto sul campo, durante la controrivoluzione in una fattoria sopra Kuban, dov’era giunta a esplodere una bomba nemica: una morte ch’egli invidiava.
« Nella serata di quel funesto giorno, tra le sei e le otto, l’Atamano scrisse una lunga lettera di commosso commiato alla moglie, principessa Lidia Federonova, ch’egli sapeva di non rivedere mai più.
« La sera con le sue ombre portò su Spittal un senso di maggior desolazione. Nella notte cinque ufficiali, tra cui il generale Silkin, che avevano ancora una pistola nascosta sotto la giubba, si suicidarono.
« Il giorno seguente gli ufficiali, scortati da mezzi corazzati, vennero trasferiti a Jedenburg, e successivamente a Graz per l’effettiva consegna ai sovietici. Lungo quel viaggio si verificarono molteplici tentativi di fuga che in parte riuscirono. Quel rischio costò la vita a diversi ufficiali che caddero sotto le raffiche dei mitra britannici.
« Sedici generali cosacchi, oltre agli ufficiali, finirono a Graz in mano sovietica. Ecco i loro nomi: Piotr Nikolaevic Krasnov, Timofei Ivanovic Domanov, Andrei Grigorievic Shkuro, Sultan Ghirei Klitsch, Pochodnij, S. K. Borodin, Mikail Salamakin, T. P. Tarasenko, Bidakow, Semion Krasnov, Piotr Golowko, Fitisow, Esaulow, Wasiliew, Worono, Tikhotzki.
« Tra gli ufficiali erano i colonnelli Zimin, Poltoratsky e Lucjanenko. Inoltre fu consegnato ai sovietici anche il generale tedesco Helmut von Pannwitz con gli ufficiali cosacchi della sua divisione.
« In circostanze che restano misteriose il generale Mikail Salamakin riuscì a sottrarsi alla consegna e riparò successivamente in America. Anche il generale S.K. Borodin, comandante la scuola di guerra Junker-Schule, che non si trovava nel concentramento di Lienz, sfuggi alla forzata consegna.
« Sull’ignominiosa consegna dei generali e dei duemila ufficiali ai sovietici, la Gran Bretagna cercò, successivamente, di far cadere il silenzio, e il suo ministro della Guerra, interpellato, si limitò a fornire risposte vaghe.
« Non tutta l’élite dei cosacchi era finita però in mano sovietica. Altri ufficiali rimanevano in campo, tra cui Kzuma Polunin, che fu eletto Atamano di campo. Egli provvide, come sua prima iniziativa, a inoltrare immediatamente a S.M. Britannica una supplica nella quale, in nome della libertà, invocava la salvezza dei cosacchi. La supplica però si arenò nelle mani dello Stato maggiore britannico.
« Ma il crimine maggiore, perpetrato con l’uso della forza, doveva ancora succedere. Esso si verificò il 1 ° giugno. Mentre la marea dei cosacchi, con Te loro famiglie, assisteva alla Messa con le icone alzate attorno al pulpito del pope, ricomparvero all’improwiso i britannici. Un gran silenzio si diffuse nella folla. Si fece innanzi il tenente colonnello britannico Malcholm, comandante la guarnigione di Lienz. Egli ordinò all’Atamano Kzuma Polunin l’integrale e indiscriminato rimpatrio di tutti i presenti nell’Unione Sovietica, e ne illustrò i particolari.
« Nell’accampamento si diffuse un timor panico folle, che i britannici, con un accerchiamento, cercarono di contenere aiutandosi con l’uso intimidatorio delle armi. Come una fiumana cosacchi e caucasici cercarono nei dintorni la fuga e sfociarono in massa su un ponte che attraversa la Drava, ma il loro passo fu sbarrato anche qui dai fucili britannici.
« Perso il controllo di se stessi, donne e bambini preferirono una soluzione pazzesca e si gettarono nelle acque della Drava, turgide per lo sciogliersi primaverile della neve.
« Nella valle echeggiarono paurose grida di dolore e d’angoscia che si alternavano ad attimi di tragico silenzio. La pazzia aveva vinto i cosacchi e l’esempio dei primi che si gettarono dall’argine fu seguito da molti altri. In breve tempo l’acqua della Drava si oscurò di corpi rantolanti: i morti, inerti, offrivano una visione agghiacciante, e i moribondi, con le braccia alzate nel tentativo di un’impossibile salvezza, sembravano paurosi fantasmi.
« Sentendosi responsabili di quel suicidio in massa, i britannici circondarono allarmati l’accampamento, cercando di reprimere la furibonda ribellione cosacca.
« Ma i loro gesti non arginavano in alcun modo questa crescente tragedia.
« Qualche cosacco, aggrappatosi alla sponda, era riuscito a riparare nella boscaglia vicina. Altri soldati, con qualche ufficiale, avevano potuto superare con la fuga la linea britannica. Taluni, disperati, raggiunti i boschi e i monti si dettero volontariamente la morte sparandosi un colpo d’arma alla tempia. Cosi rimasero tra quelle verdi fronde come in una bara incantata.
« A fondovalle i britannici avviavano frattanto all’armata sovietica ventimila cosacchi, tra soldati, donne e bambini. In una cornice di indescrivibile terrore la volontà di Stalin era stata eseguita dalle forze britanniche! Yalta aveva avuto il sopravvento!
« Dopo alcuni giorni la gran massa dei cadaveri, oltre cinquecento, venne sepolta in una fossa comune sulle sponde della Drava.
« L’eco della strage turbò tutta l’Austria. Confusa e deformata, la notizia giunse anche in Carnia, e volò di valle in valle. Si diceva che l’armata cosacca fosse stata costretta ad affogare in un lago, spintavi dalle baionette sovietiche… ».
« La consegna dei cosacchi ai sovietici era stata effettuata dai britannici senza di- scernimento, cioè senza tener in alcun conto che tra loro c’erano degli esiliati della controrivoluzione, i quali, avendo perso la cittadinanza sovietica non rientravano nel patto di Yalta.
« Ai sovietici i britannici non consegnarono invece le centinaia di cavalli cosacchi che considerarono disinvoltamente legittimo bottino di guerra. Li trasportarono in massa in Inghilterra, destinandoli probabilmente al macello e al lavoro nelle nebbiose brughiere.
« Parte dei generali e dei duemila ufficiali cosacchi che avevano costituito l’ossatura delle divisioni, ritenuti rei di alto tradimento alla Patria, caddero nell’immediato dopoguerra sotto i plotoni di esecuzione sovietici. I superstiti e i ventimila soldati furono concentrati nella taiga, in Siberia, nei terribili campi per condannati politici dove la morte non mancò di assottigliarne le file. Da oltreoceano giunse l’eco che dei cosacchi vennero, in parte, fucilati durante il viaggio.
« Nei campi di prigionia siberiani decedette dopo alcuni anni, a causa di atroci patimenti, il generale Bidakow, ex dirigente delle truppe, ivi tradotto assieme ad altri generali.
« Ai sovietici erano pure state consegnate, da parte britannica, le truppe cosacche del XV Corpo di cavalleria del generale von Pannwitz. A loro volta gli americani, in esecuzione al patto di Yalta, avevano consegnato le divisioni della Russkaja Oswobodietelnaja Armia {ROA).
« Piotr Nikolaevic Krasnov, il comandante supremo dei cosacchi già generale dell’Armata bianca nel periodo 1918-1919, nonché il tenente generale Andrei Grigorievic Shkuro, ex comandante la “Divisione della cavalleria selvaggia” e capo della riserva del l’Armata cosacca, il maggiore generale Timofei Ivanovic Domanov, Feldataman e 2 ° membro della suprema commissione cosacca, il maggior generale Semion Krasnov e il maggior generale Sultan Ghirei Klitsch comandante la divisione caucasica, agenti del nazismo e responsabili del movimento armato contro l’Unione Sovietica, vennero incarcerati a Mosca, nella Lubianka, assieme al generale tedesco Helmut von Pannwitz, comandante del XV Corpo di cavalleria cosacca, e vi rimasero in attesa di esecuzione per circa due anni.
« Al generale Piotr Nikolaevic Krasnov la sentenza di morte venne comunicata all’ospedale di Buntnskoi, dov’egli si trovava degente. Gli fu recapitata una lettera sigillata ch’egli aperse senza sospetto; appreso il contenuto si chiuse in profondo addolorato silenzio.
« La sentenza di morte dei cinque generali mediante impiccagione, già pronunciata dalla Corte suprema del Tribunale militare sovietico il 19 aprile 1943, venne eseguita il 16 gennaio 1947. Essa fu pubblicata dalla Pravda il 17 aprile 1947 ».
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