STORIA: I MAESTRI: Altre luci sulla Grande Guerra20 Giugno 2012 di Indro Montanelli I libri sulla prima guerra mondiale ormai non si contano più. E anche noi italiani abbiamo dato, per la parte che ci riguarda, un buon contributo. Sulla condotta delle operazioni ci sono, come tutti sanno, molti punti controversi: per esempio quello di Caporetto. Ed è naturale perché Caporetto non fu soltanto una retata di soldati prigionieri: fu anche una ecatombe di generali silurati, e i generali silurati diventano loquaci. Ognuno di essi cerca la propria rivincita o riabilitazione in un “memoriale” e che naturalmente “getta una nuova luce” eccetera eccetera. E tutte queste luci messe insieme, più per rischiarare, molto spesso abbagliano. In un solo punto tutti concordano: nell’attribuire quella disfatta soprattutto a un cedimento del morale. Se polemica ancora c’è, c’è solo sul peso di questo fattore. Qualcuno lo considera assoluto, qualche altro no. Ma nessuno ne nega la priorità. Solo ora, a cinquant’anni dalla pace di Versailles, uno storico, Piero Melograni, ha voluto riprenderlo in esame e sottoporlo a verifica ma, a furia di pescare negli archivi e negli epistolari, l’indagine ha superato i limiti che egli le assegnava e piano piano è diventata, come dice il titolo una vera e propria Storia politica della grande guerra (Laterza Ed., volume rilegato di 580 pagg., L. 5000). * Dirò subito una cosa. Dopo aver letto le prime pagine, sono corso a controllare sul frontespizio il nome dell’autore. Credevo di essermi sbagliato e che si trattasse, che so, d’un Mack Smith o di un Seaton-Watson, insomma di un inglese, perché solo gli inglesi sanno raccontare la storia, anche quella d’Italia, in uno stile così semplice, piano, diretto, “parlato”, senza i fronzoli, senza la spocchia degli storici nostri (fatte, si capisce, le debite eccezioni), che spesso essi scrivono solo tra loro, presupponendo i fatti a spregio di coloro che non appartenendo alla “corporazione” non li sanno, o li sanno male: è una mancanza di urbanità nei confronti del lettore. Non so di dove venga Melograni, non lo conosco. Se viene dall’Università, temo che non andrà molto lontano. Ma come scrittore di storia, questo libro basta a dimostrare che lo è. Intanto è scelto bene il tema che colma veramente una lacuna. Uno studio approfondito sulla condotta politica della guerra mancava. E mancava perché mancò una condotta politica. Sia il governo che i militari del ‘15 pensavano che non ce ne fosse bisogno, convinti com’erano che la guerra fosse una questione di settimane, se non di giorni. Si dice tanto di Mussolini che commise nel ‘40 il marziano errore di considerare già vinta una guerra che doveva ancora cominciare. Ma si vede che questo errore rappresenta una specie di vocazione nazionale, se è vero che nel giugno del ‘15, cioè un mese dopo l’intervento, avendo Nitti chiesto a Salandra se aveva preso qualche precauzione per l’equipaggiamento invernale dei soldati, si sentì rispondere: “il tuo pessimismo è veramente inesauribile. Credi che la guerra possa durare fino all’inverno?”. Non cito che un episodio fra i tanti che Melograni elenca a confronto di una tesi che mi sembra incontestabile: né gli uomini politici né i capi militari si resero conto della severità del cimento a cui la compattezza nazionale era chiamata, e quindi non fecero nulla per rafforzarla. La guerra, il paese non l’aveva voluta. Vi era stato trascinato da una minoranza che aveva prevalso solo perché la volontà finisce sempre col prevalere sull’indifferenza. Ma nessuno capì che solo l’enzima volontaristico poteva dare un’anima a quell’amorfa massa in grigioverde. * Infatti la prima crisi morale che si verificò fu quella degli interventisti. Un po’ perché la guerra di trincea ed il regolamento, cui si trovavano inaspettatamente di fronte, si prestava poco agli entusiasmi. Ma più ancora perché si videro sottoposti ad una mortificante condizione di vigilati speciali da parte di uno Stato Maggiore che paventava una rinascita di spirito garibaldino più degli stessi austriaci. Cadorna non era uomo da capire certi problemi: l’idea che per fare un esercito non bastano degli uomini vestiti in divisa, ci vogliono dei cittadini, e che cittadini la stragrande maggioranza degli italiani non erano e non si sentivano, non deve averlo nemmeno sfiorato. Per lui, quel che contava era la “disciplina”. Il resto era soltanto “politica”: qualcosa da tenere scrupolosamente al bando dalle caserme. Così la truppa non conobbe mai i motivi ideali per cui quella guerra si combatté, non poté parteciparvi, e rispose come meglio poté: con uno spirito di sacrificio e di rassegnazione che in molti casi raggiunse lo stoicismo, ma senza quello slancio e determinazione che solo una coscienza civile può dare. Né la condanna della delle operazioni, era tale da rianimare questo inerte e opaco stato d’animo. All’inizio di ognuna delle grandi offensive che si susseguirono nei primi due anni, rinascevano gli entusiasmi (e le illusioni) delle “radiose giornate” del maggio del ‘15. Ma i bilanci si chiudevano regolarmente con un passivo e tornava a stendere su tutti un sudario di delusione e sfiducia: i guadagni si misuravano in centinaia di metri, le perdite in decine di migliaia di cadaveri. Melograni evita giudizi sulla validità di questa impostazione strategica e tattica: e fa bene perché non è affar suo. Ma ne coglie e valuta con molta penetrazione i riflessi morali. Credo che abbia ragione quando dice che la crisi non si propagò dal Paese all’esercito, ma piuttosto dall’esercito al Paese. Una ottusa censura militare aveva impedito alla stampa di informare la pubblica opinione, che rimase sempre all’oscuro di ciò che accadeva al fronte. Non c’è che da leggere le bellissime lettere confidenziali di Rino Alessi al direttore del “Secolo” (Dall’Isonzo al Piave) e quelle di Ojetti a sua moglie per rendersi conto dello strano concetto in cui lo Stato Maggiore teneva il giornalismo e la sua funzione. Esso pretendeva che della guerra fosse dato un quadro edificante sciropposo, un seguito di episodi oleografici che, quando li vedevano, mandavano in bestia i soldati. * Alla vigilia di Caporetto questa frattura fra Paese e esercito era pressoché com pleta. Gli uomini delle trin cee avevano l’impressione di essere stati dimenticati da quelli delle città, e anche que sto li rendeva poco ricettivi alle voci dell’interno; mentre un altro e più pericoloso di stacco si creava fra la truppa e i suoi capi, come a botta calda denunziò Prezzolini nel suo memorabile e più che mai attuale Caporetto. Insomma, secondo Melo grani, la famosa « pugnalata alle spalle », che i comandi addussero come alibi del di sastro, non ci fu. Il protrarsi del sanguinoso conflitto ave va provocato da noi gli stes si fenomeni di stanchezza che provocava su tutti gli altri fronti, compreso quello tede sco che passava per inacces sibile al disfattismo. C’erano delle diserzioni. C’erano de gli ammutinamenti. Ma non più di quanti ce ne fossero fra i dirimpettai austriaci, il cui esercito era in stato di de composizione più avanzato del nostro (tanto che quando finalmente venne la fine, il solito Prezzolini scrisse con laconsueta spietatezza: « Vittorio Veneto è una ritirata che noi abbiamo disordinato e confuso, non una battaglia che abbiamo vinto. Questa è la verità che dobbiamo dire agli italiani, e che gli italiani debbono lasciarsi dire ». Caporetto fu dunque altra cosa che un fatto di cedimen to morale. Questo sopravven ne come conseguenza, non co me causa. La causa fu sol tanto militare. I nostri co mandi, che non avevano mai avuto grande fantasia, si era no addormentati â— come quelli austriaci â— nella rou tine della guerra di posizio ne e di logoramento. Essi erano del tutto impreparati a fronteggiare la strategia di movimento che importarono i tedeschi accorsi in aiuto del l’alleato. La sorpresa fu com pleta. Già, per il nostro Sta to Maggiore era inconcepibi le un’offensiva d’ottobre. Le offensive, che diavolo, si era no sempre fatte di primavera o d’estate. Eppoi, come si po teva prevedere quell’avanzata a valanga lungo i fondi-valle, senza curarsi delle montagne sovrastanti? Sembra di senti re i generali austriaci del pri mo Ottocento che, sconfitti da Napoleone, se ne giustifica vano dicendo: « Non rispetta il manuale di tattica! ». Sulle tesi di Melograni si può fare qualche riserva. Ma non se ne può fare nessuna sul suo modo di esporle. Me lograni ha tutte le qualità del lo storico di razza, più una che ai nostri fa cospicuamen te difetto: l’umiltà. Melogra ni scrive per il lettore, non lo perde mai di vista, cerca di convincerlo, non d’intimi dirlo con sfoggi di cultura, lo tratta da pari a pari. E anche un altro riconoscimento gli devo. Non lo conosco, ho det to, non so se viene dall’Uni versità. Non so nemmeno sot to quale bandiera politica mi liti. E anche dopo aver letto il suo libro, continuo a igno rarlo. Letto 1054 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||