STORIA: I MAESTRI: Anni di vergogna25 Agosto 2016 di Carlo Laurenzi La nostra « primavera di bellezza ». A diciotto anni, a vent’anni eravamo lucidi e di sincantati; sapevamo, in mol ti, verso quale rovina ci tra scinassero. Un giorno di novembre, era un mattino frizzante, accom pagnai M. alla stazione di Ro ma, in partenza per il fronte albanese. C’erano crocerossi ne, ragazze fasciste in divisa, soldati soldati, l’allegria di sperata delle tradotte. M. ave va la cravatta rossa dei Cac ciatori delle Alpi e bellissimi stivali color tabacco, fuori ordinanza. Passeggiammo sul marciapiede nell’ombra della pensilina tagliata dall’azzurro della tramontana; i ricordi di altre partenze, nei film di guerra, ci davano una specie di ebbrezza, tutta esterna. Per il resto, parlammo, e nessuno aveva dubbi. Il disegno della guerra, segnata ormai dalle prime sconfitte, era lineare. Nuove sconfitte ci aspettava no, e nuove vergogne. L’a sprezza delle montagne d’Epi ro era invalicabile, la rabbia dei greci imbattibile. Poi, in aprile, sarebbero intervenuti i tedeschi, cosicché noi, i di sfatti, avremmo cianciato di vittoria. Tutto questo ci era chiaro, con una triste e fa cile scienza. Presagimmo an che ciò che avrebbe detto Churchill, la fantasia del suo sarcasmo. (Puntualmente, in fatti, Churchill paragonò Hi tler a una tigre inesausta di sangue, Mussolini a uno scia callo predone). La nostra pri mavera di bellezza era satura di rancore e dolore, per quel nostro essere obbligati a spe rare contro ciò che chiama vamo Patria. Al di là delle montagne d’Epiro, un piccolo popolo offeso teneva duro, anch’esso (ma con altra coscienza) in attesa della catastrofe. Anche esso era governato da un re gime dittatoriale, non dissimi le dal fascismo e più arcigno di quel governo di colonnelli che, con disapprovazione di tutti noi, lo guida attualmen te. Eppure, ricordo, il procla ma di Metaxas dopo l’aggres sione suonò con parole che parvero degne di Tucidide: a differenza di noi, i greci di fendevano un’idea rispettabile, i confini della patria. A dif ferenza dei nostri, i loro stra teghi agivano con discerni mento e perizia. Anni dopo, quando la mia uniforme grigio-verde fu sostituita da una uniforme color oliva e i na zisti divennero finalmente il nemico, un generale inglese esperto di commandos ebbe a dire: « Non si è capito mai perché nel 1940 gli italiani abbiano attaccato la Grecia sulle montagne anziché inva derne le città con i paracadu tisti ». Che cosa obbiettargli? Qualunque impresa avessimo tentato, temo proprio che sa remmo stati battuti: per ne mesi, per quello che in altri secoli fu definito il giudizio di Dio. * I nostri capi erano resi cie chi da un dio; lo si può de sumere (per molti è una con ferma) dalla Storia della guer ra di Grecia di Mario Cervi, che l’editore Mondadori pro pone in questi giorni a un pubblico vasto. A quasi trent’anni dalla vergogna, leggo il libro di Cervi come un cal mo, e documentato e cupo romanzo. Nelle grandi linee, confer ma quanto so, quanto ram mentiamo. Nei particolari â— cioè nelle argomentazioni, nel le rivelazioni â— travalica la nostra memoria e la nostra medesima capacità di imma ginazione o esecrazione. Nes suna campagna, come quella che avrebbe dovuto spezzare le reni alla Grecia, fu stolta e iniqua. Mussolini esitò nel volerla, in modo nevrotico: talora per così dire gli passa va di mente, talora la pruri gine di un suo personale Blitzkrieg da contrapporre di spettosamente ai trionfi di Hitler si imponeva al buon senso, e fu il buon senso a soccombere. Una certa coterie di gerarchi, che faceva capo al ministro degli esteri Ciano a vedeva nell’Albania un cuneo, tramava l’attacco. Ave vamo un ambasciatore ad Atene, funzionario ragionevole che fu ignorato e tradito. Le motivazioni della guerra, basate su quell’assurdo « irredentismo ciamuriota », appaiono (e apparvero) tartarinesche. Il regime greco, la cui vocazione illiberale lo avrebbe spinto logicamente verso l’Asse, non poté abdicare alla dignità. Raccolse la sfida. Il suo capo di stato maggiore, Papagos, ci umiliò. I documenti, vagliati con freddezza, racchiudono sorprese più acerbe: le colpe di Mussolini e dei suoi complici politici furono probabilmente meno gravi delle colpe dei capi militari. Al vertice stette l’acquiescenza del re. Coperta dallo scudo del re, si offre al nostro sguardo, come allo sguardo di entomologi, una fauna inetta o capziosa. Badoglio, che si illuse di salvare la faccia, quel « contadino che gioca d’astuzia », come lo dipinse Caviglia. Lo sconsiderato Visconti Prasca, il quale sognava i galloni di maresciallo. In lui almeno c’era la attenuante dell’irruenza; in tutti gli altri capi connessi al naufragio â— Guzzoni, Geloso, Cavallero, Soddu, Roatta â— non ci fu che servilismo bu rocratico, falso zelo, carrieri smo, disamore degli uomini. Ciascuno di questi capi, mi litari o politici, ha lasciato me moriali confutabili, sui quali giace l’onta. Al solo Cavallero, più tardi, non tremò la mano nell’uccidersi. Gli altri â— tran ne Ciano e Mussolini, e il pro console in Albania Jacomoni che credo sopravviva â— sono tutti morti in pensione. Con dussero dissennatamente, con alta incapacità, una guerra di rapina che si trasformò in or gasmo di difensione, procuran doci il disprezzo del mondo. * L’esercito, così mal guidato e mal sorretto, si portò bene, « con vigore e tenacia, non certo con entusiasmo ». Le no stre perdite, nella neve e nel fango di quella Verdun bal canica, ascesero a oltre tredi cimila morti, cinquantamila feriti, dodicimila congelati, venticinquemila dispersi, cin quantaduemila inabilitati a combattere. I tedeschi, con poche centinaia di caduti, vinsero la campagna per noi; il massacro cui erano destinate le armate naziste si celava nel l’avvenire. Noi soffrimmo una mortificazione peggiore di una resa (giacché si danno rese onorevoli) e non ci fu soldato italiano in Grecia a non ren dersi conto che né il sacrificio di molti né l’abnegazione di ogni combattente avevano sal vato la « patria fascista » dal disonore. Tuttavia, quando il duce della patria fascista ispezionò l’esercito al fronte albanese nel marzo del ’41, Cervi ri corda che « imprevidibilmente ma non troppo per chi cono sca l’umana leggerezza del ca rattere italiano, i ragazzi co minciarono ad applaudire fe stosi ». E questo è (voglio di re: resta) il dito sulla piaga. La guerra in Albania è con dannata o dimenticata, la re sistenza ci ha reso l’onore, ci presumiamo liberi, la nostra forma di governo ha nome de mocrazia. Tutto, meno la leg gerezza del carattere italiano, è superato. (A ventinove anni da una data di vergogna, mi lioni di italiani, in molti casi senza rendersene conto, auspi cano un’altra vergogna: la nuova rinuncia alla libertà).
Letto 1454 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||