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CINEMA: I MAESTRI: La dolce vita di Federico Fellini

27 Agosto 2016

di Claudio Siniscalchi
(da “l’Occidentale”, 7 febbraio 2010)

La dolce vita di Federico Fellini uscì sugli schermi italiani venerdì 5 febbraio 1960. Le prime critiche apparse sulla stampa quotidiana furono assai favorevoli. L’anteprima a Milano, tenutasi al cinema Capitol il giovedì, dove il film sarebbe uscito, aveva suscitato reazioni piuttosto seccate da parte del pubblico. A Roma l’anteprima era andata decisamente meglio. Accoglienza piuttosto fredda, con pochi secondi di applausi al riaccendersi delle luci alla fine della proiezione. A Milano invece Fellini  dovette beccarsi urla e insulti: “Basta! Schifo! Vergogna!”. Al protagonista del film, Marcello Mastroianni, gridarono: “Vigliacco, vagabondo, comunista”. Uno spettatore particolarmente inviperito, come ricorda Fellini, col faccione paonazzo, addirittura gli sputò sul collo. Anche la presentazione privata a casa del produttore Angelo Rizzoli era stata poco rasserenante. Non pochi timori di insuccesso commerciale serpeggiavano fra gli uomini della produzione. Invece le cose andarono in maniera diametralmente opposta. La dolce vita ruppe gli argini, oltre alla vetrate del Capitol per la troppa gente rimasta fuori e intenzionata ad entrare, sin dal primo giorno di programmazione, affermandosi come uno dei maggiori incassi, se non il maggiore, della storia del cinema italiano.

Tra il 5 e il 6 febbraio, uscirono numerosissime critiche, nella stragrande maggioranza positive. Gian Luigi Rondi, la voce più rappresentativa della critica cinematografica cattolica, oltreché intellettuale organico al partito democristiano, sul quotidiano conservatore “Il Tempo”, elogiò decisamente il film di Fellini. Anche “Il Popolo”, giornale della Democrazia Cristiana, con un articolo di Paolo Valmarana, recensì con favore La dolce vita. Del resto i cattolici impegnati nel mondo del cinema erano da tempo in sintonia con l’opera di Fellini. Il film La strada, nel 1954, aveva segnato la definitiva presa di distanza della sinistra dall’opera del regista riminese. Critici comunisti militanti come Guido Aristarco non sopportavano più lo “spiritualismo” felliniano. I gesuiti che si occupavano di cinema, come Nazareno Taddei e Angelo Arpa, si erano schierati, senza esitazioni, dalla parte di Fellini. Inoltre Fellini poteva contare su influenti estimatori. A Roma il domenicano Félix Morlion, una potenza capace di aprire quasiasi porta. A Genova addirittura l’arcivescovo della città, Giuseppe Siri, che si era scontrato nel Conclave del 1958 con l’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini, per succedere a Pio XII. Fra i due contendenti, come spesso accade, ne era uscito vincente un terzo, Papa Roncalli. Padre Arpa era grande amico di Fellini e stretto collaboratore di Siri. Al cardinale, proveniente da una famiglia operaia, La dolce vita appariva un’opera di straordinaria sensibilità cristiana. Siri aveva visionato il film nel corso di un’anteprima privata, e il “Nuovo Cittadino” di Genova, giornale della curia, aveva lodato sin troppo generosamente l’opera di Fellini.

Date queste premesse, La dolce vita aveva l’imprimatur giusto per piacere ai cattolici. Invece, inaspettatamente, successe il contrario. La prima pesante stoccata contro il film arrivò dalla prima pagina del quotidiano di Bologna “L’Avvenire d’Italia”. L’articolo, sin dal titolo, non lasciava spazio a dubbi: “Povera vita, povera Capitale!”. La sigla, poi, aumentava il peso della cannonata: r. m., cioè Raimondo Manzini, che dalla direzione del quotidiano della curia bolognese, carica assunta nel 1927, era passato da pochissimo a dirigere “L’Osservatore Romano”. E proprio dal giornale della Santa Sede, due giorni dopo l’articolo di Manzini, parte una campagna contro il film di Fellini, in una nota dal titolo inequivocabile: “Basta!”. È una durissima reprimenda, reiterata, sempre in forma anonima, nei giorni successivi, con crescente veemenza. Gli articoli sono certamente da attribuire al nuovo direttore Raimondo Manzini, da poco succeduto a Giuseppe Dalla Torre. Altre fonti, in particolare Tullio Kezich, informatissimo di questioni felliniane, indicano l’attiva partecipazione di Oscar Luigi Scalfaro. Accanto all'”Osservatore” scende in campo “Il Secolo d’Italia”, quotidiano del Movimento Sociale Italiano, che per giorni e giorni non molla la presa, denunciando il degrado morale offerto da La dolce vita. La polemica monta fortissima, investendo anche il dibattito parlamentare. “L’Osservatore” e il “Secolo” sollecitano continuamente le autorità competenti ad intervenire e porre sotto sequestro il film. Il 17 febbraio il Sottosegretario per il Turismo e lo Spettacolo, il democristiano Domenico Magrì, è costretto a risponde in Parlamento alle interrogazioni dei deputati Quintieri, Pennacchini e Negroni. Ma nonostante la tante pressioni, al film non viene applicata nessuna misura censoria.

Critici cinematografici e testate di area cattolica, manifestano ampia simpatia nei confronti del film. Particolarmente attivi sono i gesuiti del Centro San Fedele di Milano. Al San Fedele si era tenuta un’anteprima di La dolce vita. Le prime avvisaglie polemiche mettono in attività l’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini, che rimprovera per iscritto il responsabile del Centro, pregandolo di porre la massima attenzione al giudizio che formulerà la rivista “Letture”, laboratorio critico e culturale del San Fedele. Ma è solo l’inizio di una dura contesa. Nazareno Taddei, sul terzo fascicolo di “Letture”, difende apertamente il film. Conoscitore attento dell’opera di Fellini, Taddei esalta le splendide intuizioni di Fellini, e vede nel film l’indicazione di una nuova forma di cristianesimo. Le analisi di Taddei si scontrano apertamente con le posizioni dell'”Osservatore” e disattendono le aspettative di Montini. “Letture” sarà costretta ad intervenire, nel settimo numero della rivista, con una “Chiarificazione” non firmata, in cui si manifesta il rammarico per avere inavvertitamente contraddetto il giudizio espresso dal Centro Cattolico Cinematografico, che a sua volta aveva fornito prima un parere sul film non del tutto negativo (sconsigliabile), prontamente smentito in una successiva revisione del film (escluso). Taddei verrà allontanato dalla rivista. La risposta a “Letture”, in sede di critica cinematografica, arriverà dallo scrittore di “Civiltà Cattolica”, anch’egli gesuita, Enrico Baragli, che in due fascicoli distinti della rivista, apparsi nel mese di maggio, chiude definitivamente il dibattito.

Perché l'”Osservatore” attaccò così pesantemente il film di Fellini? La risposta sinora data è riassunta nelle posizioni oscurantiste dei cattolici. Scorrendo i testi dell’epoca, invece, si nota come i cattolici, tranne rarissime eccezioni, legate soprattutto a giornali provinciali, controllati direttamente o indirettamente dalle curie, furono tutto fuorché oscurantisti. Di fatto l'”Osservatore” fiancheggiò Montini, le due bocche di fuoco della polemica. Montini dopo l’anteprima del San Fedele, raccogliendo anche le prime proteste, chiamò direttamente in causa Siri. In una lettera inviata a Siri, Montini si lamentava del favorevole articolo apparso sul “Nuovo Cittadino”. Ovviamente Siri ribadì il proprio convincimento, ricordando la grande tensione morale presente nell’opera. Insomma, la polemica arroventata portò ad rovesciamento dei ruoli: il “conservatore” Siri riesce a mettersi in sintonia con i tempi nuovi; mentre Montini, campione del “progressismo”, ne esce invece come un vescovo arretrato, che peraltro non volle mai vedere il film, né ricevere Fellini dopo averlo fatto attendere un paio di ore in arcivescovado. Siri e Montini. Si ritroveranno ancora uno davanti all’altro nel Conclave del 1963, chiamato a scegliere il successore di Giovanni XXIII. E Montini vincerà la partita persa cinque anni prima. Solo inserendo in questa dinamica storica la polemica suscitata da La dolce vita, se ne ha una giusta collocazione. Ed è una storia ancora tutta da scrivere.

 


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Bart