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STORIA: I MAESTRI: Biografia di Cavour

29 Aprile 2011

di Manlio Lupinacci
[dal “Corriere della Sera”, lunedì 9 giugno 1969]

In una società come la nostra, che oscilla perpetuamente tra un fanatismo caotico e uno scetticismo abulico, nessuno dei quattro grandi del Risorgimento appare più estraneo del conte di Cavour. Mazzini e Garibaldi si fanno perdonare il patriottismo grazie a quelle abbondanti dosi di sciroppo umanitario con il quale lo allungavano e grazie al fatto di essere stati invisi ai benpensanti come rivoluzionari e populisti a oltranza: qualità, queste, con le quali riescono a rendersi tuttora utili prestandosi volenterosamente a paragoni esplicativi con i Lenin e i «Che » Guevara. Di Vittorio Emanuele non si può dire che rimanga estraneo: è semplicemente ignorato. Re, Savoia, militare,   verrà presto un giorno in cui i ragazzi delle scuole statali vedendone il monumento supporranno la statua del carabiniere a cavallo.

*

Il caso di Cavour è diverso; i numeri per essere accettati non gli mancherebbero: amava la libertà, non voleva governare con lo stato d’assedio, dichiarava di non sentirsi mai tanto forte come a Camera aperta. Dai suoi discorsi come dai suoi atti, con all’attivo tutti quei sovra ­ni legittimi spodestati e tutte quelle secolari abitudini tra ­volte, non vi è deputato del ­le sinistre di ogni tinta e sfumatura che non potrebbe trar ­re spunti polemici, più o me ­no forzati, si capisce, ma ef ­ficaci per l’autorità del nome, contro i governi che si succe ­dono in Italia. E invece incuriosità e indifferenza si addensano intorno a lui nel gran pubblico, che è poi quello destinato a formare la pubblica opinione e a dare il clima di una nazione. Cer ­to di lui non si disinteressa ­no gli storici, ma bisogna dar ragione a Montanelli, che gli storici italiani, tranne poche eccezioni, fanno di tutto per rafforzare nei concittadini la congenita riluttanza alla let ­tura, e quindi poco aiuto portano alla presenza familiare del grande statista.

In questa condizione, met ­tersi a scrivere una biografia del conte di Cavour è atto di coraggio: di duplice corag ­gio, giacché a scegliere que ­sto tema e a perseverarvi oc ­corre il coraggio di porsi in gara con gli illustri che si son chinati sulla vita mirabi ­le del conte, e quello, forse maggiore, di respingere il dubbio che tutto escluda Ca ­vour dalla simpatia del mon ­do moderno e sia perciò im ­presa sterile il presentarne la vita e l’azione per interes ­sarvi i molti.

Questo duplice coraggio non è mancato a Italo de Feo, che con questo suo volume edito da Mondadori: Cavour, l’uomo e l’opera offre agli italiani dimentichi un ritrat ­to agile, ben disegnato, senza lenocini e svolazzi e posto sullo sfondo di una documen ­tazione accurata quanto non ingombrante, di colui che fu indubbiamente il protagonista del dramma risorgimentale.

E’ una biografia che si riallaccia al genere tanto po ­vero in Italia, da esservi qua ­si inesistente, e che è invece tanto prospero in Inghilterra: quello dei Lytton Strachey, degli Harold Nicolson, con la loro serietà di ricerca, ma anche con la loro libertà da ogni impaccio del « questo non si può dire » dal quale invece le biografie italiane di italiani sono sempre rese prudenti come conversazioni al caffè in regime poliziesco.

Chi non ricorda l’amabilità venata di umorismo della vita della regina Vittoria di Lytton Strackey? La piccola donna vi appare nella sua realtà umana, con debolezze e forze, angustie e vanità, e a libro chiuso il lettore si sente portato ad amarla e a rispettarla come l’amano e la rispettano gli inglesi, proprio perché così verosimile nella sua dignità storica. Confron ­tate questa regina Vittoria con la regina Margherita quale appare nelle biografie scarse e povere che le sono state dedicate, e vedete quanto stucchevole e lezioso sia il ritratto che ne vien fuori del ­la prima regina d’Italia.

*

Questo Cavour di Italo de Feo non possiamo dire che abbia quelle venature, appunto, di affettuoso umorismo delle biografie inglesi: ma bi ­sogna riconoscere che nel personaggio scelto non vi sono contrapposizioni e i con ­trasti che le giustificherebbero. Cavour è sempre pari a se stesso, non consente mai di cogliere con un sorriso in ­dulgente un suo atteggiamen ­to meschino, una sua piccolezza e grettezza da servirse ­li per un efficace contrasto di luci. I soli spunti ironici da cogliere nella sua vita sono quelli che egli medesimo ci regala con il suo senso finissimo dell’umorismo, il suo sens of humour che non lo abbandona mai. Cavour al governo o fuori del governo, nella vita più intima o in quella dell’uomo d’affari, dell’agricoltore, man ­tiene sempre costante l’alta tensione della corrente che lo anima. In una narrazione che ha oltre tutto il merito di raccontarci tutta intera la vita di Cavour, che di biografie complete ne conta pochissime e non confortate dalle pub ­blicazioni di documenti so ­praggiunti a confortare il de Feo, il conte non si concede quasi mai quelle vacanze to ­tali che mettono in panna, come una flotta velica colta da una provvidenziale, ripo ­sante bonaccia, il corpo, i sensi, i sentimenti, l’intelli ­genza.

Se non seguiamo Cavour nelle sue nervose ambizioni politiche lo seguiamo nelle vicende sentimentali (nel sen ­so di oggi: uniti da un lega ­me sentimentale…) che non rinunciano mai ai necessari ingredienti esaltanti dell’amo ­re nell’epoca del romantici ­smo. Non facciamo in tempo a scuotere la testa di fronte alle grosse perdite al giuoco che dobbiamo corrugare le sopracciglia vedendo l’irre ­quietezza cavourriana sfogar ­si negli affari, dei quali que ­sto aristocratico sente il fa ­scino borghese; e intanto av ­vertiamo che tutta questa feb ­bre non è che ricerca di stor ­dimento per non sentir trop ­po gli ostacoli che si oppon ­gono alla sua vera, profonda vocazione, che non è tanto la politica (se si fosse tratta ­to solo di vocazione della politica, le anticamere avreb ­bero potuto accontentarlo co ­me più tardi le Camere) quanto la libertà servita con la politica.

Ed è problema da porsi se per Cavour, accusa ­to da tanti di mirare in so ­stanza solo all’ingrandimento del Regno di Sardegna ado ­perando la libertà come stru ­mento, non fosse piuttosto vero il contrario, e che nella intimità del suo cuore, là do ­ve magari nemmeno la stessa sua indagine si arrischiava a spingersi, frenata dalle abitu ­dini secolari del servizio del Re e dello Stato, non fosse la libertà a regnare sovrana, a ispirargli la vocazione di un servizio a confronto col quale ogni altro vincolo e ogni altro dovere diventavano pal ­lide contingenze.

*

Come spiegare altrimenti il fatto che la severa disciplina del suo realismo potesse esse ­re travolta da scatti passio ­nali come quello che non gli fa accettare la sconfitta fa ­tale del ’48 (« Se avessi potuto disporre del potere… avrei fatto sventolare lo sten ­dardo italiano sulle Alpi Stirie ») o quello che prorompe nella follia di voler conti ­nuare la guerra da soli dopo Villafranca? O la cupa dispe ­razione che lo prende, vera ­mente nuova sulle scene della politica, e gli suggerisce il suicidio, quando teme che l’Austria non dia pretesto alla guerra?

Momenti rari di tumulto, che rivelano quanto dovesse giorno per giorno costare a Cavour mantenere la linea di moderazione che gli fu propria e come questa fosse prima di tutto una im ­posizione della ragione al temperamento: imposizione dalla quale però il personag ­gio del conte di Cavour ri ­ceve la compiutezza del suo significato. E’ un significato, ben rispecchiato nel libro di de Feo, che lo sottrae così alla definizione di conserva ­tore come a quella di progres ­sista per conferirgli quella di moderato: e se essere conser ­vatore o progressista è soltan ­to questione di opinioni e di scelte politiche, essere un mo ­derato è questione di civiltà interiore. Una civiltà che co ­sta lotte segrete e sacrifici che l’anima nasconde fiera ­mente, e la cui dignità serena e cordiale rimane incompren ­sibile al nostro tempo.


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Bart