STORIA: I MAESTRI: Bresci29 Ottobre 2011 di Indro Montanelli Una curiosa coincidenza vuole che insieme al centenario della nascita di Vittorio Emanuele, 11 novembre, sca da quella dell’uccisore di suo padre. Quel giorno, quando bab bo Bresci tornò dal munici pio dove aveva denunciato l’avvento del suo quartogeni to Gaetano e seppe che quasi nello stesso momento all’ana grafe di Napoli era stato re gistrato l’erede al trono Vit torio Emanuele, si morse le mani. Avrebbe potuto dar lo stesso nome a suo figlio. Nel l’Italia umbertina certe coin cidenze qualificavano bene agli occhi delle autorità, soprattutto di polizia, che ci vedevano un rassicurante se gno di zelo monarchico, schiudevano carriere, talvolta frut tavano addirittura sussidi e onorificenze. A posteriori c’è perfino da domandarsi se un Bresci che avesse avuto in comune il compleanno e l’o nomastico col futuro re e ne fosse stato compensato, po niamo, con un cavalierato, sarebbe diventato regicida. * Piccoli proprietari o, come oggi si direbbe, coltivatori di retti di Coiano, in quel di Prato, i Bresci non erano ric chi, ma il lunario lo sbarca vano senza difficoltà, tant’è vero che uno dei quattro ra gazzi poté entrare all’Accade mia Militare e diventò un brillante ufficiale d’artiglie ria. Il ribellismo di Gaetano non ebbe quindi per concime la miseria e la fame. Fu un fatto di temperamento ali mentato dagli umori prote statari dell’ambiente. A Prato il processo d’industrializza zione era già in pieno sviluppo: le vecchie filande erano diventate fabbriche moderne e i piccoli artigiani che prima lavoravano a domicilio si erano trasformati in un pro letariato operaio inquieto e turbolento. Operaio era anche Gaeta no, e ben qualificato. Aveva avuto una discreta preparazione professionale, guadagnava, per quei tempi, abbastanza bene, e sembrava che la sua ambizione fosse non di sovvertire la società, ma piuttosto d’inserirvisi nel modo migliore. Dell’anarchico tradizionale, introverso, cupo e assorto in sogni di palingenesi, non aveva nulla, nemmeno il puritanismo: gli piaceva piacere, soprattutto alle ragazze, ne mise incinta una abbandonandola col figlio al suo destino, ed era talmente ricercato nel vestire che lo chiamavano « il paìno ». Forse, a metterlo contro l’ordine costituito, più che una convinzione politica, fu la spavalderia. Una volta, ve dendo dei vigili affibbiare una multa a un povero gar zone di macellaio, li apostro fò come spie, vagabondi e servi degli sfruttatori. E ciò bastò a procurargli la schedatura come « anarchico pe ricoloso » e un anno di con fino a Lampedusa. Al ritor no, non ebbe più il posto in fabbrica, a stento se ne pro curò un altro a Barga, ma di lì a poco s’imbarcò per l’America. Che scegliesse come rifugio Paterson, nel New Jersey, ha il suo significato. Paterson era una colonia d’immigranti italiani, quasi tutti centro- settentrionali, e quasi tutti anarchici o socialisti. Braccia solide e teste calde. Discute vano di politica dalla matti na alla sera, e spesso alle loro riunioni intervenivano perso naggi di rilievo come Malatesta, Merlino, Prampolini, e Costa. Alla fine del ’99 ci fu appunto un pubblico dibatti to fra il più prestigioso di questi notabili, Malatesta, e il capo degli « individualisti », Ciancabilla. Il dibattito degenerò presto in alterco, e l’al terco fu concluso da un col po di pistola che ferì Malatesta a una coscia. L’attenta tore non poté spararne altri perché un giovane fu lesto a fargli saltare l’arma di ma no. Questo giovane era Bresci, giunto da pochi mesi, ma già tenuto in gran conto dai « compagni ». Anche lì si era messo a far l’operaio, guadagnava be ne, si era anche accasato con una ragazza irlandese dai ca pelli rossi. Non si sa se era no sposati. Ma vissero come se lo fossero, ed ebbero an che una bambina. E’ curioso che nei rapporti con gli americani egli assumesse atteggia menti di rispettabilità borghe se presentandosi come figlio di un ricco proprietario di terre e fratello di un brillan te ufficiale dell’Esercito. * A un certo punto parve che il « sistema » lo avesse conquistato. Smise di frequentare il « Circolo » dove aveva trascorso tante serate a discutere dei diritti dell’uomo sotto i ritratti degli eroi del regicidio, Passanante, Caserio, Acciarito, Angiolillo, Luccheni, e rivendette anche per dieci dollari la sua quota di azioni del giornale « Era Nuova ». In compenso comprò una pistola, con cui prese ad allenarsi nel tiro fino a diven tarne un campione. Poi disse a sua moglie che doveva fare una scappata in Italia per re golare un’eredità, e si reim barcò con un biglietto inte stato al nome di Cesare Bian chi senza neanche salutare i « compagni », che ormai lo consideravano un rinnegato. Arrivò a Coiano nel giugno del 1900, trascorse alcune fe stose settimane coi parenti e gli amici, sedusse una ragaz za da cui si fece accompa gnare fino a Bologna, e il 24 luglio prese alloggio in una pensione di Milano. Le poche persone con cui ebbe a che fare nei cinque giorni suc cessivi, e che solo per questo passarono l’anima dei loro guai, non notarono in lui om bra di ansietà o d’inquietudi ne. Con calma esplorò il par co reale di Monza, dove il 29 il Re avrebbe presenziato il saggio ginnico della società sportiva « Forti e Liberi ». E solo poche ore prima dell’ini zio diede qualche segno di nervosismo con un occasiona le vicino di tavolo al caffè, cui si presentò col nome di Caserio, l’uccisore del Presidente francese Carnot. Gli disse a un tratto: « Oggi per me è una brutta giornata. Mi guar di bene, perché forse si ricor derà di me per tutta la vita ». E si allontanò. Avrebbe voluto fare il col po prima che il Re salisse in tribuna in modo da riservarsi qualche possibilità di fuga. Ma non ci riuscì. Quando, alle dieci e mezzo di sera, spianò la pistola contro Umberto che transitava in carrozza, tra i generali Ponzio Vaglia e Avogadro di Quinto, sapeva be nissimo che per lui non c’era scampo. Pure, la mano dove va essere ferma perché uno dei tre proiettili centrò il cuo re della vittima, che spirò quasi subito mormorando: « Non è niente! ». Nemmeno il tentativo di linciaggio, cui lo sottrassero a stento, lo sconvolse. «Sembrava soddisfatto del suo esecrando delitto » scrisse un testimone, e a chi lo chiamava assassino, rispondeva: « Non ho ucciso un uomo. Ho ucciso un principio ». * Come avvocato difensore, chiese Turati, che si trovò in una situazione drammatica. Turati era sempre stato l’alto patrono di tutti i perse guitati, ma era anche deputato al parlamento e capo di un partito contro cui l’opinione pubblica si era scatenata ac cusandolo di complicità mo rale nel regicidio. Turati ebbe un incontro con Bresci, e lo convinse ad affidare il mandato a Merlino che, come esponente del movimento anar chico, era il più indicato ad assumerlo. Merlino fece del suo meglio, ma non gli det tero nemmeno il tempo di stu diare la causa perché la nomina gli giunse la sera prima de processo, che si svolse per direttissima il 29 agosto. Cer cò disperatamente di farlo rin viare e pronunciò la sua ar ringa in un clima d’intimida zione, che non lasciava dubbi sul verdetto. Il dibattimento non fece lu ce su nulla, meno che sul co raggio di Bresci, il quale riven dicò tutta la responsabilità dell’attentato, rispose alle do mande con fermezza, talvolta addirittura con insolenza, e accolse la condanna all’erga stolo senza batter ciglio. Nel penitenziario di Santo Stefa no gli costruirono una cella apposta, dal cui soffitto pen deva una catena cui lo tene vano legato di giorno e di notte sotto la continua sorve glianza d’un secondino. Come abbia fatto, in quelle condi zioni, a suicidarsi il 22 mag gio 1901, dopo appena dieci mesi di reclusione, è uno dei punti oscuri della sua scon certante vicenda. Questa è stata ricostruita da Arrigo Petacco in un esempla re volume (L’anarchico che venne dall’America, Mondado ri Ed., 220 pagg., L. 1.800), asciutto, serrato, e molto ben documentato. La figura del protagonista vi risalta icasti camente con tutte le sue con traddizioni. Ma a due doman de nemmeno Petacco è riusci to a dare risposta: se Bresci ebbe dei mandatari e dei com plici, e come morì. Elementi che convalidino l’ipotesi del complotto ce ne sono, ma la bili. Più fondata ci sembra quella del suicidio simulato. Petacco è andato a frugare perfino le « carte segrete » di Giolitti, ma dentro la cartel la che avrebbe dovuto conte nere la relazione confidenzia le del direttore del carcere non c’era nulla: il documento era stato fatto sparire. D’altra parte risulta che Bresci aveva accettato la sua sorte di ga leotto con assoluta tranquillità, era in perfetta salute, e non nascondeva la sua fidu cia nella imminente rivoluzione proletaria che lo avrebbe liberato. Petacco non dice che Bresci fu ucciso. Ma a farce lo sospettare, ci riesce.
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