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STORIA: I MAESTRI: Gli anarchici

29 Gennaio 2012

di Indro Montanelli
[dal “Corriere della Sera”, martedì 11 marzo 1969]

Se non ci fosse l’anagrafe a ricordarmi che il fatto avvenne parecchi anni prima ch’io nascessi, giurerei di aver assistito all’assassinio di Re Umberto a Monza. Ne ho presenti tutti i particolari: il cocchiere in livrea che, con la frusta alzata, cerca di prendere il controllo dei ca ­valli spaventati dallo sparo, i carabinieri che accorrono con le sciabole sguainate, la gente che fugge, il sovrano che re ­clinando la testa sul petto di Ponzio Vaglia mormora: « Credo di essere ferito », e l’impavido pistolero che gri ­da: «-L’ho fatto per la mia fede ».

In realtà queste parole risuonarono parecchi mesi do ­po, in tribunale. Ma per me fanno parte della stessa se ­quenza, perché mio nonno non mancava mai di rievocar ­le, quando mi raccontava quel ­l’episodio davanti all’oleogra ­fia che riproduceva la scena, tratta da una famosa tavola di Beltrame sulla Domenica del Corriere. Mio nonno, uo ­mo d’ordine e franco con ­servatore, deplorava natural ­mente il gesto « inconsulto e canagliesco ». Ma più ripenso all’inflessione della sua voce, e meno riesco a capire se dentro ci fosse più pietà per il Re morente o ammirazione per l’impassibile regicida. Nei suoi racconti, Bresci, Passanante. Acciarito, Angiolillo, Caserio sfilavano, sì con la lo ­ro etichetta di criminali, ma dinanzi a un plotone di ese ­cuzione che prima di fuci ­larli gli rendeva l’onore del ­le armi.

*

 

Fu certamente questa pre ­coce iniziazione alla mitolo ­gia dell’anarchismo che mi spinse a eleggere come men ­tore ideologico e direttore di coscienza il suo rappresen ­tante locale: un certo Fischio, testa confusa ma cuor d’oro, che godeva di gran prestigio perché era stato anche in Russia a complottare contro lo zar ed era finito nella fortezza di Pietro e Paolo, « nella stessa cella – diceva – dove per tanti anni aveva languito il grande Bakunin ». Da allora data, intrisa di simpatia, la mia curiosità per gli anarchici.

Devo dire che fin qui non avevo mai trovato di che appagarla compiutamente. Studi ce ne sono: quelli di Nettlau, di Woodcook e  di Sergent e Harmel, per esempio. Ma mi sembrano piuttosto lacunosi per quanto riguarda l’apporto italiano. Per questo, meglio rifarsi al classico Mazzini e Bakunin di Nello Rosselli, e a certi saggi di Valiani come al solito informatissimi e pe ­netranti, ma frammentari. Sic ­ché, tutto sommato, il qua ­dro più esauriente, invece che a uno storico, fin qui l’avevo attinto a un romanziere, Bacchelli, col suo Mulino del Po.

Ecco perché mi sono tuffa ­to con vivo interesse nella Storia degli anarchici italiani di Pier Carlo Masini, pub ­blicata proprio in questi gior ­ni dall’editore Rizzoli (390 pagg., 4000 lire). Masini si rigira bene fra questi pro ­blemi: vi ha già dato un va ­sto e prezioso contributo di ricerche sommozzando archivi pubblici e biblioteche private e recando alla luce documen ­ti e carteggi rivelatori. Anche stavolta il suo apporto risul ­ta decisivo. Chiunque voglia ricostruire i movimenti e sommovimenti che tribolaro ­no (e ravvivarono) la società italiana sulla fine dell’Otto ­cento, dapprima confusi nel coacervo internazionalista, poi separati nei due filoni socialista e libertario, dovrà rifarsi a questo libro, impeccabile per ordine e chiarezza di esposizione. Purtroppo, esso non comprende che un trentennio: quello che va dalla prima ap ­parizione di Bakunin in Ita ­lia nel 1863 al congresso di Genova del 1892, che sancì appunto il divorzio fra le due componenti dell’Internaziona ­le. Il rigore storico ci guada ­gna; la visione d’insieme ci perde.

*

 

Un altro appunto che mi permetto di muovere a Masi ­ni è di dare per scontata la parentela fra l’anarchismo di allora e la contestazione di oggi. Capisco che questo con ­ferisce al libro una maggiore attualità. Ma, sarebbe meglio lasciarlo dire soltanto dalle fascette pubblicitarie. Io â— lo confesso â— ho troppo ri ­spetto per gli anarchici per attribuir loro una figliolanza così spuria. Più che l’ispira ­zione ideologica, è il costu ­me a escludere la discenden ­za. Gli anarchici erano â— e sono â—, come tutti i veri rivoluzionari, dei puritani. Fra loro non allignano né carrieristi né esibizionisti. La loro vita privata è quasi sempre modello di pulizia e la loro dedizione alla causa ha qualcosa di sacerdotale. Del resto, essi stessi hanno proceduto l’anno scorso a un disconoscimento di paternità cacciando via i contestatori dalla sala del loro congresso a Massa Carrara e dimostrandosi anche in questo molto più seri di certi partiti che invece ricorrono a ogni sorta di lenocini per confiscare questa cosiddetta » avanguardia » e strumentalizzarla ai propri fini elettorali.

E infine un ultimo rilievo. Masini non ha trascurato l’e ­lemento umano. Oltre a dirci cosa pensavano, ci ha detto anche che uomini erano i Cafiero, i Costa, i Malatesta, i Merlino, i Cipriani, cioè i protagonisti dei movimenti anarchici italiani. Ma io avrei preferito che in questa ritrat ­tistica si diffondesse ancora di più. E’ soltanto una per ­sonale opinione, intendiamoci. Ma mentre una storia del co ­munismo si può anche ridur ­re a un dibattito ideologico, dato lo squallore del suo pa ­norama umano animato da dei robots che contano solo come incarnazioni del Bene e del Male, l’anarchismo con ­ta soprattutto per la ricchez ­za e varietà dei suoi arche ­tipi. Cafiero sarà dottrinaria ­mente più povero, ma uma ­namente è molto più ricco e drammatico di un Togliatti, così come Bakunin lo è di Marx. Fra dieci anni, se sarò vivo, la mia memoria serberà ancora, nitida, l’immagine di Bresci che non ho mai cono ­sciuto. Quella di Longo no, sebbene l’abbia visto tante volte.

Ma questa, ripeto, è una valutazione soggettiva, non un appunto critico a un libro, da catalogarsi senz’altro fra i saggi storici meglio riusciti di questi ultimi anni, e fra i più importanti almeno per il let ­tore che abbia il gusto e la curiosità di questi problemi. Esso ci spiega molte cose. Ci spiega per esempio come mai fu un russo, Bakunin, se non a suscitare, certo a fecondare il seme dell’anarchismo ita ­liano. Esso incubava da secoli per tante ragioni che sarebbe troppo lungo ricapitolare. Ep ­pure Proudhon non era riu ­scito a risvegliarlo sebbene, come francese, fosse tanto più vicino e parlasse un linguaggio per noi tanto più facile.

A Bakunin, specie di orso con gli occhi di scoiattolo â— come lo descrisse De Gubernatis -, evaso dalla tundra siberiana, con la sua oratoria lutulenta, lardellata di citazioni di autori a noi (e forse anche a lui) del tutto sconosciuti: a questo straniero e lontano Bakunin, dico, bastò mettere piede in Italia per trovarvi subito udienza e reclutarvi un esercito.

*

 

Secondo noi, non ci sono dubbi. L’anarchismo di Prou ­dhon è quello di un paese che ha già avuto la rivoluzione industriale. Egli appartiene a quei francs laboureurs, per la maggior parte artigiani, che si sentono minacciati dal trionfante capitalismo con le sue concentrazioni di ricchez ­za e la sua produzione in serie. Non per nulla recluta i suoi seguaci soprattutto nei ceti medi del Giura e fra gli orologiai di Neuchàtel. Egli stesso è il figlio di un fabbri ­cante di birra ridotto al fal ­limento e all’indigenza dal trust che gli ha soffiato la clientela. Sia pure su un piano infinitamente più nobile, in Proudhon c’è già un Poujade, inteso alla difesa della piccola impresa, della botte ­ga, degli interessi particolari. E guardate infatti il suo eroe, Ravachol. Ravachol è un idealista: di tutto quello che ruba – e ruba a man salva – non intasca una briciola: tutto viene devoluto all’organizzazione e al finanziamento dei suoi giornaletti. Ma qual è il suo ideale? Sopprimere il ricco. Il suo odio si appun ­ta contro il padrone di casa, contro cui avventa il suo ana ­tema (pends ton propriétaire, nom de Dieu!) perfino nel momento di salire il palco della ghigliottina. E in questo atteggiamento, anche se di fronte alla morte si traduce in sublime stoicismo, c’è qualco ­sa di sordido: il rancore invi ­dioso del piccolo borghese che non è riuscito a inserirsi nella nuova civiltà capitalista.

L’anarchico italiano è di di ­versa e â— riconosciamolo – più nobile pasta. Nei suoi at ­tentati non c’è prezzo di quat ­trini come in quelli di Rava ­chol, malgrado il suo perso ­nale disinteresse. Il suo ber ­saglio non è il ricco, ma il potente. Non odia il padrone di casa; odia il Re, il Presi ­dente del Consiglio, il Gene ­rale, l’Ammiraglio, il Prefet ­to, insomma l’Autorità. Ed è naturale. La protesta ch’egli incarna è tutt’altra: non quel ­la di una piccola borghesia degradata dal capitalismo per ­ché l’Italia non ha ancora avuto la rivoluzione industria ­le; ma quella di una plebe agraria contro un’unità nazio ­nale che si è fatta senza il suo concorso. Questa plebe cui son venuti a mancare supporti dell’assetto tradizinale, più che a migliorare le sue condizioni economiche mira ad assumere un’iniziativa per inserirsi fra i prota ­gonisti, dai quali si sente re ­spinta e esclusa.

Ecco perché Bakunin fa su di essa molto più presa. BaKunin non è un piccolo borghese, ma un piccolo nobile di campagna, interprete di un mondo precapitalistico come quello italiano. In lui non c’è un Poujade, ma un Pugacev o uno Stenka Rasin. E quindi il suo linguaggio, nonostante l’accento russo, è molto più accessibile ai liber ­tari italiani che subito gli si raccolgono intorno, e che non a caso sono quasi tutti meri ­dionali. Anche Cafiero è un piccolo nobile di campagna: di quella campagna che fino a pochi anni prima aveva fornito le sue reclute ai Pugacev e agli Stenka Rasin del brigantaggio antirisorgimenta ­le. E sono gli stessi umori di rivolta nihilista che si riac ­cendono sotto lo stimolo del ­l’agitatore russo.

Bakunin perde la sua bat ­taglia quando il movimento anarchico si diffonde nel Nord, dove trova una società ben diversa: quella dei quartieri operai nei grandi agglo ­merati urbani che già comin ­ciano a svilupparsi. Questa crisi si specchia nella vicenda personale di Costa, prima anarchico fra i più intransi ­genti, poi transfuga nel cam ­po socialista, convertito al parlamentarismo e al riformi ­smo. La scissione del 1892 non è che la consacrazione di una organica incompatibi ­lità, che col tempo si è fatta ancora più profonda. Fra l’in ­dividualismo libertario di Ba ­kunin e il socialismo autori ­tario di Marx non c’è possi ­bilità d’intesa. E lo si è visto nella guerra civile spagnola, dove il compito cui i com ­missari politici comunisti del ­l’esercito rosso attesero con più impegno fu lo sterminio degli anarchici.

Non ci sogniamo di contestare che il marxismo abbia fornito con la sua monolitica organizzazione uno strumento di lotta infinitamente più ade ­guato all’esigenze del proleta ­riato industriale moderno. Ma questo non c’impedisce di ri ­conoscere nell’anarchismo un fenomeno molto più « italia ­no ». E così infatti lo sentivo, senza rendermene ragione, da ragazzo, quando seguivo con appassionato interesse i rac ­conti di Fischio prigioniero nella stessa cella del grande Bakunin nella fortezza Pietro e Paolo, e davanti all’oleo ­grafia dell’attentato di Monza segretamente tifavo, più che per il Re morente, per l’im ­pavido regicida.


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Bart