STORIA: I MAESTRI: Il compagno imperatore26 Novembre 2016 di Indro Montanelli Due anni or sono, proprio di questi tempi, un laconico comunicato dell’agenzia di Stato di Pechino annunziò la mor te per cause naturali di Pu Yi, l’ultimo imperatore della Cina. Per molti lettori, sarà stata una sorpresa. Ma come? In Cina, con tutto quello che vi era successo e seguitava a succedervi, c’era ancora un imperatore,, sia pure ex, in condizioni di morire nel suo letto o di « fare notizia » con la sua scomparsa? Proprio così. Pu Yi non so lo era sopravvissuto alla rivo luzione comunista, ma anzi ne era diventato un militante, se deva alla Camera come depu tato, e la domenica teneva lun ghi sermoni ai « Balilla » di Mao per istruirli sui malestri compiuti dai suoi antenati, sul loro malgoverno, sui loro so prusi. Lo esibivano come il monumento della generosità del regime, e lui ne recitava la parte con coscienzioso zelo, mostrandosi a tutti i ricevi menti degli alti gerarchi e con cedendo interviste ai giornali sti stranieri. Era, dicono, un brav’uomo di poco cervello. Sarà. Ma almeno come « gal leggiante » quest’uomo di po co cervello era un genio. Era diventato imperatore nel 1908, come ultimo erede dei Ching. I Ching non erano cinesi. Erano una dinastia mancese che tre secoli prima aveva conquistato il trono di Pechino, ma aveva finito per cinesizzarsi. L’ultimo suo gran de campione era stato una donna, Tzu Hsi, dispotica, avi da, viziosa, sospettosa, crudele e scaltrissima. I sudditi non l’avevano mai vista. Essa li governava, o per meglio dire li teneva in soggezione di die tro le mura della « Città Proi bita », il Quirinale di Pechi no, piastrellato di giallo e ac cudito da tremila eunuchi. Pri ma di morire, fece flagellare a morte l’ultimo dei suoi favo riti, che avevano fatto tutti la stessa fine, e designò alla suc cessione il pronipote Pu Yi forse solo perché costui, aven do appena due anni, non ave va fatto in tempo a incorrere nelle sue collere. Pu Yi rimase imperatore fi no a cinque anni. Poi discese dal trono con la stessa docili tà con cui vi era salito, poiché frattanto la rivoluzione di Sun Yat-sen aveva liquidato la mo narchia e istaurato la repub blica. il cambio della guardia però era avvenuto in maniera molto cinese. Pu Yi era dichia rato decaduto, manteneva il suo titolo, ma la Repubblica gli passava quattro milioni di dollari all’anno, due miliardi e mezzo di lire, perché conti nuasse a giuocare all’imperatore, dentro la Città Proibita e fosse in grado di mantenere la sua corte e i suoi tremila eunuchi. Forse fu in questo periodo ch’egli si allenò a fare l’amico dei nemici. I grandi personaggi del nuovo regime, e specialmente i “signori della guerra” che si spartivano i comandi militari, venivano a rendergli omaggio genuflettendosi. Nel ‘17 lo rimisero anche sul trono, ma solo per pochi mesi. Pu Yi si lasciava fare. Riprendeva la corona quando gliela porgevano, la restituiva quando gliela richiedevano, e tutto con la stessa buona grazia. * Le cose cambiarono nell’25, quando Sun Yan-set morì, e la lotta si radicalizzò fra i nazionalisti di suo cognato Ciang Kai-scek e i comunisti che a quei tempi non erano ancora di Mao Tse-tung. Pu Yi capì che di questi nemici era più difficile fare l’amico, abbandonò di nascosto la Città Proibita e riparò a Tientsin mettendosi sotto la protezione dei giapponesi. Costoro, che si preparavano a invadere il paese, videro in lui un ideale quisling, lo spedirono al seguito delle loro truppe che sbarcavano a Shanghai, e lo nominarono prima capo del governo e poi imperatore del Manciukuò, lo Stato satellite che essi avevano inventato nel cuore della Cina. Così, seguitando a lasciarsi fare, Pu Yi riebbe un trono, sia pure più piccolo e meno glorioso. I giapponesi glielo avevano dato perché speravano che la presenza di un sovrano del loro sangue avrebbe rinsaldato l’indipendentismo dei mancesi. E Pu Yi secondo il piano dei suoi sostenitori. Ma costoro, a differenza dei repubblicani cinesi, non gli consentirono di fare l’amico dei nemici. L’obbligarono a controfirmare delle loro sciagurate iniziative militari, compresa quella di Pearl Harbor. Delle prede belliche che i sovietici fecero in Manciuria, l’unica regione industrialmente sviluppata, grazie agli impianti che i nipponici vi avevano installato, Pu Yi fu l’unica che essi restituirono alla Cina, quando diventò comunista. Sulla sorte dell’ex-Figlio del Cielo sembrava che non potessero esserci dubbi. Non soltanto egli incarnava quei valori di tradizione e quei privilegi di casta contro cui Mao aveva innalzato il vessillo della rivolta, ma era anche l’arcicollaborazionistia messosi al servizio dell’invasore. Nessun “caso” come il suo pareva prestarsi a uno di quegli spettacolari processi, con finale apoteosi sul patibolo, che rappresentano insieme le consacrazioni e i circenses messe della rivoluzione. Invece, nulla. Pu Yi fu condannato soltanto alla « rieducazione » nel carcere- modello di Fushun e tanto di mostrò di averne profittato, che nel ’59 lo rimisero in li bertà, gli diedero un posto di giardiniere all’Orto Botanico di Pechino, e dopo poco lo fe cero anche deputato. Le ultime sue pubbliche ap parizioni fra gli alti dignitari del regime risalgono al ’66. Poi nessuno ne seppe più nul la fino al laconico comunica to che annunciava la sua mor te. Era stata la declinante sa lute a provocarne il ritiro, o non piuttosto la brusca svolta impressa dalla rivoluzione culturale col suo radicalismo insofferente di ogni compro messo col passato? Non ci meraviglieremmo di apprendere un giorno che la sua malattia fu il manganello di una «guar dia rossa ». Ma, dato il tipo, nemmeno ci stupiremmo di scoprire ch’egli era dalla par te dei manganellatori, non dei manganellati. Comunque, Pu Yi aveva già lanciato il suo canto del cigno con un’auto biografia che, dopo essere sta ta, in gara coi Pensieri di Mao, il più spettacoloso best seller della Cina comunista, compa re ora in lingua italiana, gra zie alla casa editrice Ferro (Il compagno Imperatore, pagg. 370, L. 2.500). * Togliamo subito a Cesare ciò che non è di Cesare. Non si tratta di una vera e propria biografia. Si tratta di un libro di propaganda, scritto su ordinazione, e forse nemmeno di mano dell’autore. Ma questo riguarda soprattutto l’ultimis sima parte: quella dedicata al l’esaltazione del nuovo regi me, che infatti è la più sca dente, come sempre lo sono componimenti agiografici. Può interessare solo come docu mento psicologico, come re ferto sui risultati del « lavag gio di cervello », quale si pra tica in Cina. Ma i ricordi del la « Città Proibita », che rap presentano il grosso del volu me, sono un bocconcino da non perdere. Nella descrizione di questa Bisanzio durata fino a cinquantanni orsono, con le sue raffinatezze e efferatezze, coi suoi complicati rituali, coi suoi protagonisti da corte dei mira coli, il servizievole Pu Yi avrà anche calcato la mano per di mostrare quanto fosse ese cranda. Ma nei suoi tratti fon damentali si sente che il qua dro è vero. Che l’autore lo ab bia redatto di suo pugno o che lo abbia dettato a uno scriba più esperto di grammatica e di sintassi, ne risulta un docu mento affascinante, sconcer tante e rivelatore. Il mondo che fruscia nelle sue pantofole di raso fra i padiglioni della Città Proibita, illeggiadriti da nomi come Sala dello Studio Solerte, Palazzo del Nutri mento Spirituale, Torre del Cielo senza Nubi eccetera, è ancora quello di Turandot. Le figure che vi dominano, riempiendolo di pettegolezzi, di tresche, di ventagli e di delit ti, sono le Alte Consorti, ve dove dei defunti imperatori, ognuno dei quali se ne lascia va dietro un bello strascico, abituati com’erano a sposare a ottant’anni ragazze di diciot to. Ma tutto questo non illu mina solo il passato, ma anche il presente. Della Cina d’oggi si sa sol tanto una cosa: che nessuno ne sa nulla, la sinologia essen do una scienza ancora più opi nabile della cremlinologia, ed è tutto dire. Direttamente neanche questo ce ne rivela granché perché la parte dedi cata al nuovo regime è, come ho detto, la più fasulla e pataccosa. Ma il flash back ci fa capire il perché dello scosso ne e delle sue ricorrenti vio lenze. Se la Russia era ferma a Pietro il Grande, la Cina era ferma a Marco Polo. Per in serirsi nella civiltà moderna, Dio sa di quante rivoluzioni culturali avrà ancora bisogno. Lo diciamo per i maoisti no strani che non diano fondo troppo presto alle loro ener gie e non arrivino sfiatati allo sprint finale. * Un mistero però il libro non chiarisce: quello dell’au tore. Che tipo fosse e come abbia fatto a sopravvivere a tante catastrofi quest’uomo al levato in un serraglio di don ne e eunuchi, rimasto fino a vent’anni privo di contatti col mondo di fuori, senz’altro ag gancio con la modernità che un telefono e una bicicletta, queste pagine non spiegano. Ma credo che abbia ragione Giorgio Fattori, quando defi nisce Pu Yi un « camaleonte sincero ». Ce ne sono, che cambiano non soltanto la pimentazione della pelle, ma an che quella del sangue. Pu Yi non era il povero imbecille che credevano di vedere i genera li giapponesi, probabilmente più imbecilli di lui. Ma non era nemmeno uno scaltro cal colatore disposto a qualsiasi tradimento come devono averlo considerato i suoi fedeli ve dendogli fare tutte quelle gi ravolte. Era un re travicello, sempre pronto a adeguarsi. A tutto. Alla repubblica. All’in vasore. A Marx. Non lo faceva né in buona né in cattiva fe de per il semplice motivo che di fede non ne aveva nessuna, nemmeno nella dinastia e nel trono. Mi dispiacerebbe se lo aves sero ammazzato. In fondo, per l’esempio che aveva avuto in famiglia, specie dalla zia Tzu Hsi e per il modo con cui lo avevano tirato su, era riuscito abbastanza bene: quasi un ga lantuomo.
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