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STORIA: I MAESTRI: Il Piave cinquant’anni dopo: Lungo il fiume della vittoria

18 Agosto 2016

di Egisto Corradi
[dal “Corriere della Sera”, martedì 29 ottobre 1968]

Medio Piave, ottobre.

II « sacro fiume » non è più quello di cinquant’anni or so ­no. Tolta qualche sfuriata â— ultima quella del 4 novembre 1966 â— è un fiume che i baci ­ni idroelettrici a monte e le prese d’irrigazione a valle hanno addomesticato e smagrito notevolmente di acque.

Rimangono i greti, di un bian ­core abbacinante e, sulle due sponde, gli ossari, i cimiteri, i cippi, i monumenti e le la ­pidi a ricordare l’immane sa ­crificio della generazione dei nostri padri. E il filo spinato arrugginito a cingere gli orti. E i proietti d’artiglieria ritti in piedi sulle soglie dei mu ­nicipi e delle scuole. Il pae ­saggio ha un qualcosa di atto ­nito e di dolente, si ha l’im ­pressione che la grande guer ­ra sia finita ieri.

Mezzo secolo fa, di questi giorni, il Piave in piena ritar ­dava quell’offensiva di Vit ­torio Veneto che avrebbe vi ­sto i soldati italiani giungere il tre novembre a Trento e Trieste. Le acque â— nei venti ­cinque chilometri di medio Piave designati per il grande balzo â— correvano troppo ra ­pide (anche oltre due metri e mezzo al secondo) per con ­sentire la posa dei ponti e delle passerelle. Fu soltanto nella notte fra il 26 e il 27 ottobre che, leggermente sce ­mata la velocità della cor ­rente, s’iniziò l’operazione di attraversamento. Questa riu ­scì in tre punti nonostante la furiosa resistenza degli au ­stro – ungarici: all’altezza di Pederobba, alla Fontana di Buero (sotto il Mantello) e alle Grave di Papodopoli. In questi tre punti, oggi, il Piave può essere passato facilmente a guado, l’acqua non sale ol ­tre il ginocchio. Alle Grave di Papodopoli, seguendo le piste degli autocarri che vanno a scaricare ghiaia, il fiume può essere addirittura superato in automobile, si bagnano sì e no i mozzi delle ruote.

Non è facile, a tanta di ­stanza di tempo, trovare sui luoghi qualcuno che sia stato protagonista o testimone del ­la fase iniziale di quella che fu poi anche chiamata la «terza battaglia del Piave ». Uno è il trevigiano Antonio Pagnin, classe 1897, ora gene ­rale in pensione e allora te ­nente degli arditi del 27 ° reg ­gimento d’assalto, che il giugno 1918 accorse con altre formazioni a bloccare e poi respingere le truppe austriache dilagate sul Mantello.

« Distrutto dalle artiglierie il ponte che i genieri stavano lanciando all’altezza dì Vidor – dice Antonio Pagnin il nostro battaglione ricevette l’ordine di passare il fiume a guado. Entrammo nell’acqua che era ancora buio, poco pri ­ma dell’alba, di fronte a delle isole sabbiose, le cosiddette Grave di Ciano. Ci tenevamo stretti l’imo con l’altro alla cintura delle giberne, ciò ser ­viva a superare i pochi punti in cui l’acqua era più alta di un uomo. Giunti sull’altra riva, in una zona che poi fu chiamata l’Isola dei Morti, ri ­salimmo sino a un convento che gli austriaci avevano for ­tificato sopra un’altura e da cui bloccavano il passaggio sul fiume a Vidor. Prendemmo l’altura e così i nostri genieri poterono lanciare il ponte per Vidor ».

L’Isola dei Morti, oggi, è una zona alberata del dema ­nio forestale. Vi è una chiesetta – ricordo costruita dal parroco del vicino paese di Moriago e una piramide di sasso con su scritto « Ai mor ­ti del Piave ». Ai piedi della piramide sono appoggiate tre corone d’alloro ormai secche Sul nastro della prima è scrit ­to: « Il gruppo combattenti della Montecatini Edison »; sul secondo: «La sezione di Co ­mo dei ragazzi del ’99 »; sulla terza: «Farac, France ». Da ­vanti alla piramide due ra ­gazzi giocano a palla.

« Quando si scava per pian ­tare alberi â— dice il custode Antonio Premaor â— si tro ­vano ogni tanto dei resti di soldati. Ce n’è molti, qua sot ­to. Se ne scoprono anche quando il Piave ingrossa e vie ­ne a frugare qui, fra gli al ­beri ». Al custode Premaor manca un occhio, gliel’ha por ­tato via un petardo scoppia ­togli sotto la zappa qualche anno fa. « Altre corone â— di ­ce Premaor â— saranno porta ­te qui in questi giorni di com ­memorazione. Vi saranno mol ­te cerimonie celebrative ».

La strada che sulla riva de ­stra del Piave gira attorno al colle del Montello corre, in questa stagione, in una gloria di pampini rossi. Si passa vi ­cino a molte linde nuove ca ­sette, a piccoli stabilimenti di fattura fresca, a parecchi se ­gni dì un recente benessere economico. A Santa Croce del Montello, alle pareti di un piccolo museo di guerra al ­logato nell’edificio scolastico, sono appesi disegni a colori rievocanti il passaggio del Piave, ritagli di giornali del ­l’epoca, didascalie illustrati ­ve della grande battaglia.

Le forze contrapposte

Alla vigilia della battaglia di Vittorio Veneto, l’Italia di ­sponeva di cinquantasette di ­visioni, di cui tre inglesi, due francesi e una cecoslovacca. Gli austro-ungarici dispone ­vano di cinquantotto divisio ­ni, per metà dotate di un bat ­taglione ciascuno in più delle divisioni italiane. L’Italia era più forte in fatto di artiglie ­rie (7750 pezzi contro 6030) e d’aviazione (600 aerei con ­tro 564). Nel settore del me ­dio Piave, fra Falzé e Palazzon, il comando supremo italiano aveva in posizione centoventi cannoni per ogni chilometro di fronte. Sui ven ­tidue chilometri dell’adiacente fronte del Grappa, gli austro ­ungarici avevano 150 battaglioni e 3130 mitragliatrici: circa sette uomini per metro lineare e una mitragliatrice ogni sette metri. Con le cruen ­ti battaglie impegnate sul Grappa, il comando supre ­mo tenne occupate, nei giorni della battaglia decisiva, for ­ze austro-ungariche che altri ­menti sarebbero state portate sul medio corso del Piave. La maggioranza degli storici mi ­litari è d’accordo nel giudi ­care che la vittoria del Piave fu tra l’altro anche frutto di una grossa sorpresa operata dagli italiani e subita dagli austriaci.

« In questo caffè dì Volpa-go del Montello â— dice il si ­gnor Massimiliano Bon, classe 1902 – c’era una ‘casa del soldato’ e un paio di volte vi venne il re Vittorio Ema ­nuele. Mi ricordo soltanto che l’auto del re aveva un clacson bitonale ». « Nel prato Qui sotto â— continua Bon â— c’e ­rano delle batterie italiane che sparavano di continuo ol ­tre il Piave. Noi ragazzi por ­tavamo dei sacchi bagnati, li buttavamo sui cannoni che scottavano per raffreddarli ». Cinque chilometri più a orien ­te, nel ristorante in capo al famoso ponte della Priula, un sessantacinquenne ricorda: «A Budoia, dove stavo io, c’era un gigantesco deposito di mu ­nizioni austriache. Quel che mi ricordo era la fame che avevano i soldati tedeschi. An ­che noi avevamo fame, ma loro! ».

I tedeschi ubriachi

Per le Grave di Papodopoli â— una decina di chilometri a valle   del ponte   della Priula â— si deve   prima andare   al paese di Maserada e poi alla frazione Salettuol che si trova proprio sul fiume. Il proprietario     della     antichissima « Trattoria del bersagliere » di   Maserada, signor Attilio Sega ­ la, 2 ° genio zappatori, classe 1896, impiegò vari giorni per scendere     da   Plezzo   a Maserada   al tempo   di Caporetto. Appena arrivato a Maserada fu inquadrato in un gruppetto di una ventina di soldati raccogliticci. « Per un paio di giorni â— dice Segala â— rimanemmo noi soli a difendere il fiume davanti al paese. I tedeschi erano ubriachi, non avevano voglia di combattere. Poi arrivarono i rinforzi che il ventisette ottobre passarono il fiume ».

Il passaggio del fiume fu iniziato proprio qui, all’altezza delle ultime delle dieci o do ­dici case che formano l’abi ­tato di Salettuol. In uno spiazzo ghiaioso sorgono l’uno vicino all’altro tre modesti monumenti. Su uno, che è a forma di cippo, è scritto: «Qui vennero costruiti i ponti sui quali passarono, il 27 Ottobre 1919, le  truppe della X Armata che con travolgente im ­peto e tenace valore forzarono il Monticano raggiungendo il Livenza ». In un secondo, a forma di piramide, è scritto: « Qui, il 15 giugno 1918, le furia bieca del secolare ne ­mico veniva infranta dalle brigate Veneto e Caserta e dal 44 ° artiglieria al fatidico gri ­do dì ‘ Qui non si passa ‘ » Nel terzo sono incisi i nomi delle tre brigate britanniche e della Royal Artillery che parteciparono all’operazione. II terzo monumento è tut ­to sconvolto, terremotato: il guaio è stato prodotto dalle acque del fiume uscite dal loro alveo il 4 novembre di due anni fa.

«Muti passaron »

II luogo è deserto. Dal di là dell’argine arriva appena per ­cettibile il rumore delle ac ­que che scorrono; un leggero vento fa frusciare le chiome di un gruppo di pioppi. Si pensa ai seicentomila morti in grigioverde, a tutti gli altri morti in guerra. Si è presi da una pesante tristezza. Quan ­ti nel novembre del 1918 credettero che la prima guerra mondiale sarebbe stata l’ul ­tima delle guerre?

Dei reparti che passarono questo fiume il 27 ottobre fa ­ceva parte il 268 ° reggimento di fanteria della brigata Ca ­serta, e del 268 ° reggimento â— terzo battaglione â— faceva parte il signor Luigi Roà, classe 1899, nativo del vicino paese di Valsola. Trovo il si ­gnor Roà alle Grave di Papo ­dopoli, quest’isola lunga una ventina di chilometri e larga un paio che divide in due il corso del Piave. Cinquant’an ­ni or sono l’isola di Papodo ­poli era una piana sabbiosa, qui e là coperta di arbusti e sterpi. Oggi è un terreno agri ­colo fertilissimo e coltivato a regola d’arte. Una cinquanti ­na di ettari dell’isola, proprio nel bel mezzo, sono di pro ­prietà di un genero del si ­gnor Roà e costituiscono il podere-modello San Giorgio.

« Vada dove sente lavorare un trattore, tra i fìlari di vi ­ti, laggiù. Troverà il signor Roà » mi dicono. Il signor Roà, nonostante i suoi sessan ­tanove anni, sta appunto gui ­dando un trattore. La mac ­china avanza lenta tra due filari di viti trascinando due piccoli vomeri che, tenuti da due contadini, scavano alla base dei filari. « Quando si ara qui, ogni tanto affiora qualche elmetto o borraccia o arma arrugginita o qualche resto umano » dice il signor Roà; « l’ultimo corpo, un soldato austriaco, è stato tro ­vato un anno fa ». Il signor Roà si ricorda qualcosa di quella famosa notte sul 27 ottobre, la notte del passag ­gio del Piave alle Grave di Papodopoli; i riflettori che sciabolavano il fiume, le gra ­nate che sollevavano colonne d’acqua, i pontoni e le passe ­relle che la corrente strappa ­va via. Si ricorda soprattutto che era stato dato l’ordine ri ­goroso di conservare il silen ­zio più assoluto e di cammi ­nare senza far rumore. « Mu ­ti passaron quella notte i fan ­ti, tacere bisognava e andare avanti ». Sì, proprio così, co ­me dice la canzone del Piave.


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Bart