STORIA: I MAESTRI: Il Piave cinquant’anni dopo: Lungo il fiume della vittoria18 Agosto 2016 di Egisto Corradi Medio Piave, ottobre. II « sacro fiume » non è più quello di cinquant’anni or so no. Tolta qualche sfuriata â— ultima quella del 4 novembre 1966 â— è un fiume che i baci ni idroelettrici a monte e le prese d’irrigazione a valle hanno addomesticato e smagrito notevolmente di acque. Rimangono i greti, di un bian core abbacinante e, sulle due sponde, gli ossari, i cimiteri, i cippi, i monumenti e le la pidi a ricordare l’immane sa crificio della generazione dei nostri padri. E il filo spinato arrugginito a cingere gli orti. E i proietti d’artiglieria ritti in piedi sulle soglie dei mu nicipi e delle scuole. Il pae saggio ha un qualcosa di atto nito e di dolente, si ha l’im pressione che la grande guer ra sia finita ieri. Mezzo secolo fa, di questi giorni, il Piave in piena ritar dava quell’offensiva di Vit torio Veneto che avrebbe vi sto i soldati italiani giungere il tre novembre a Trento e Trieste. Le acque â— nei venti cinque chilometri di medio Piave designati per il grande balzo â— correvano troppo ra pide (anche oltre due metri e mezzo al secondo) per con sentire la posa dei ponti e delle passerelle. Fu soltanto nella notte fra il 26 e il 27 ottobre che, leggermente sce mata la velocità della cor rente, s’iniziò l’operazione di attraversamento. Questa riu scì in tre punti nonostante la furiosa resistenza degli au stro – ungarici: all’altezza di Pederobba, alla Fontana di Buero (sotto il Mantello) e alle Grave di Papodopoli. In questi tre punti, oggi, il Piave può essere passato facilmente a guado, l’acqua non sale ol tre il ginocchio. Alle Grave di Papodopoli, seguendo le piste degli autocarri che vanno a scaricare ghiaia, il fiume può essere addirittura superato in automobile, si bagnano sì e no i mozzi delle ruote. Non è facile, a tanta di stanza di tempo, trovare sui luoghi qualcuno che sia stato protagonista o testimone del la fase iniziale di quella che fu poi anche chiamata la «terza battaglia del Piave ». Uno è il trevigiano Antonio Pagnin, classe 1897, ora gene rale in pensione e allora te nente degli arditi del 27 ° reg gimento d’assalto, che il giugno 1918 accorse con altre formazioni a bloccare e poi respingere le truppe austriache dilagate sul Mantello. « Distrutto dalle artiglierie il ponte che i genieri stavano lanciando all’altezza dì Vidor – dice Antonio Pagnin il nostro battaglione ricevette l’ordine di passare il fiume a guado. Entrammo nell’acqua che era ancora buio, poco pri ma dell’alba, di fronte a delle isole sabbiose, le cosiddette Grave di Ciano. Ci tenevamo stretti l’imo con l’altro alla cintura delle giberne, ciò ser viva a superare i pochi punti in cui l’acqua era più alta di un uomo. Giunti sull’altra riva, in una zona che poi fu chiamata l’Isola dei Morti, ri salimmo sino a un convento che gli austriaci avevano for tificato sopra un’altura e da cui bloccavano il passaggio sul fiume a Vidor. Prendemmo l’altura e così i nostri genieri poterono lanciare il ponte per Vidor ». L’Isola dei Morti, oggi, è una zona alberata del dema nio forestale. Vi è una chiesetta – ricordo costruita dal parroco del vicino paese di Moriago e una piramide di sasso con su scritto « Ai mor ti del Piave ». Ai piedi della piramide sono appoggiate tre corone d’alloro ormai secche Sul nastro della prima è scrit to: « Il gruppo combattenti della Montecatini Edison »; sul secondo: «La sezione di Co mo dei ragazzi del ’99 »; sulla terza: «Farac, France ». Da vanti alla piramide due ra gazzi giocano a palla. « Quando si scava per pian tare alberi â— dice il custode Antonio Premaor â— si tro vano ogni tanto dei resti di soldati. Ce n’è molti, qua sot to. Se ne scoprono anche quando il Piave ingrossa e vie ne a frugare qui, fra gli al beri ». Al custode Premaor manca un occhio, gliel’ha por tato via un petardo scoppia togli sotto la zappa qualche anno fa. « Altre corone â— di ce Premaor â— saranno porta te qui in questi giorni di com memorazione. Vi saranno mol te cerimonie celebrative ». La strada che sulla riva de stra del Piave gira attorno al colle del Montello corre, in questa stagione, in una gloria di pampini rossi. Si passa vi cino a molte linde nuove ca sette, a piccoli stabilimenti di fattura fresca, a parecchi se gni dì un recente benessere economico. A Santa Croce del Montello, alle pareti di un piccolo museo di guerra al logato nell’edificio scolastico, sono appesi disegni a colori rievocanti il passaggio del Piave, ritagli di giornali del l’epoca, didascalie illustrati ve della grande battaglia. Le forze contrapposte Alla vigilia della battaglia di Vittorio Veneto, l’Italia di sponeva di cinquantasette di visioni, di cui tre inglesi, due francesi e una cecoslovacca. Gli austro-ungarici dispone vano di cinquantotto divisio ni, per metà dotate di un bat taglione ciascuno in più delle divisioni italiane. L’Italia era più forte in fatto di artiglie rie (7750 pezzi contro 6030) e d’aviazione (600 aerei con tro 564). Nel settore del me dio Piave, fra Falzé e Palazzon, il comando supremo italiano aveva in posizione centoventi cannoni per ogni chilometro di fronte. Sui ven tidue chilometri dell’adiacente fronte del Grappa, gli austro ungarici avevano 150 battaglioni e 3130 mitragliatrici: circa sette uomini per metro lineare e una mitragliatrice ogni sette metri. Con le cruen ti battaglie impegnate sul Grappa, il comando supre mo tenne occupate, nei giorni della battaglia decisiva, for ze austro-ungariche che altri menti sarebbero state portate sul medio corso del Piave. La maggioranza degli storici mi litari è d’accordo nel giudi care che la vittoria del Piave fu tra l’altro anche frutto di una grossa sorpresa operata dagli italiani e subita dagli austriaci. « In questo caffè dì Volpa-go del Montello â— dice il si gnor Massimiliano Bon, classe 1902 – c’era una ‘casa del soldato’ e un paio di volte vi venne il re Vittorio Ema nuele. Mi ricordo soltanto che l’auto del re aveva un clacson bitonale ». « Nel prato Qui sotto â— continua Bon â— c’e rano delle batterie italiane che sparavano di continuo ol tre il Piave. Noi ragazzi por tavamo dei sacchi bagnati, li buttavamo sui cannoni che scottavano per raffreddarli ». Cinque chilometri più a orien te, nel ristorante in capo al famoso ponte della Priula, un sessantacinquenne ricorda: «A Budoia, dove stavo io, c’era un gigantesco deposito di mu nizioni austriache. Quel che mi ricordo era la fame che avevano i soldati tedeschi. An che noi avevamo fame, ma loro! ». I tedeschi ubriachi Per le Grave di Papodopoli â— una decina di chilometri a valle del ponte della Priula â— si deve prima andare al paese di Maserada e poi alla frazione Salettuol che si trova proprio sul fiume. Il proprietario della antichissima « Trattoria del bersagliere » di Maserada, signor Attilio Sega la, 2 ° genio zappatori, classe 1896, impiegò vari giorni per scendere da Plezzo a Maserada al tempo di Caporetto. Appena arrivato a Maserada fu inquadrato in un gruppetto di una ventina di soldati raccogliticci. « Per un paio di giorni â— dice Segala â— rimanemmo noi soli a difendere il fiume davanti al paese. I tedeschi erano ubriachi, non avevano voglia di combattere. Poi arrivarono i rinforzi che il ventisette ottobre passarono il fiume ». Il passaggio del fiume fu iniziato proprio qui, all’altezza delle ultime delle dieci o do dici case che formano l’abi tato di Salettuol. In uno spiazzo ghiaioso sorgono l’uno vicino all’altro tre modesti monumenti. Su uno, che è a forma di cippo, è scritto: «Qui vennero costruiti i ponti sui quali passarono, il 27 Ottobre 1919, le truppe della X Armata che con travolgente im peto e tenace valore forzarono il Monticano raggiungendo il Livenza ». In un secondo, a forma di piramide, è scritto: « Qui, il 15 giugno 1918, le furia bieca del secolare ne mico veniva infranta dalle brigate Veneto e Caserta e dal 44 ° artiglieria al fatidico gri do dì ‘ Qui non si passa ‘ » Nel terzo sono incisi i nomi delle tre brigate britanniche e della Royal Artillery che parteciparono all’operazione. II terzo monumento è tut to sconvolto, terremotato: il guaio è stato prodotto dalle acque del fiume uscite dal loro alveo il 4 novembre di due anni fa. «Muti passaron » II luogo è deserto. Dal di là dell’argine arriva appena per cettibile il rumore delle ac que che scorrono; un leggero vento fa frusciare le chiome di un gruppo di pioppi. Si pensa ai seicentomila morti in grigioverde, a tutti gli altri morti in guerra. Si è presi da una pesante tristezza. Quan ti nel novembre del 1918 credettero che la prima guerra mondiale sarebbe stata l’ul tima delle guerre? Dei reparti che passarono questo fiume il 27 ottobre fa ceva parte il 268 ° reggimento di fanteria della brigata Ca serta, e del 268 ° reggimento â— terzo battaglione â— faceva parte il signor Luigi Roà, classe 1899, nativo del vicino paese di Valsola. Trovo il si gnor Roà alle Grave di Papo dopoli, quest’isola lunga una ventina di chilometri e larga un paio che divide in due il corso del Piave. Cinquant’an ni or sono l’isola di Papodo poli era una piana sabbiosa, qui e là coperta di arbusti e sterpi. Oggi è un terreno agri colo fertilissimo e coltivato a regola d’arte. Una cinquanti na di ettari dell’isola, proprio nel bel mezzo, sono di pro prietà di un genero del si gnor Roà e costituiscono il podere-modello San Giorgio. « Vada dove sente lavorare un trattore, tra i fìlari di vi ti, laggiù. Troverà il signor Roà » mi dicono. Il signor Roà, nonostante i suoi sessan tanove anni, sta appunto gui dando un trattore. La mac china avanza lenta tra due filari di viti trascinando due piccoli vomeri che, tenuti da due contadini, scavano alla base dei filari. « Quando si ara qui, ogni tanto affiora qualche elmetto o borraccia o arma arrugginita o qualche resto umano » dice il signor Roà; « l’ultimo corpo, un soldato austriaco, è stato tro vato un anno fa ». Il signor Roà si ricorda qualcosa di quella famosa notte sul 27 ottobre, la notte del passag gio del Piave alle Grave di Papodopoli; i riflettori che sciabolavano il fiume, le gra nate che sollevavano colonne d’acqua, i pontoni e le passe relle che la corrente strappa va via. Si ricorda soprattutto che era stato dato l’ordine ri goroso di conservare il silen zio più assoluto e di cammi nare senza far rumore. « Mu ti passaron quella notte i fan ti, tacere bisognava e andare avanti ». Sì, proprio così, co me dice la canzone del Piave. Letto 1431 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. 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