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STORIA: I MAESTRI: L’impero romano. Lo uccisero le legioni

14 Agosto 2014

di Nicola P. Parise
[da “La fiera letteraria”. Numero 7, giovedì, 15 febbraio

EDWARD GIBBON
Storia della decadenza e caduta del ­l’impero romano
Einaudi, 1967, 3 voli., pagine 2915, ill. non numerate, 3 carte.

Dopo il brevissimo soggiorno oxo ­niense e la sua conversione al catto ­licesimo, Edward Gibbon viene invia ­to sedicenne (era nato a Putneyon-Thames il 18 maggio 1737)a comple ­tare i propri studi a Losanna. Qui ri ­mane cinque anni dal giugno 1753 all’agosto 1758: cinque anni importanti per la sua formazione: legge e, medita Montesquieu; ritorna al protestantesi ­mo; nel 1757 conosce Voltaire; si ap ­profondisce nello studio del latino e del greco; apprende correttamente il francese.

In breve si educa al gusto francese ed intende l’influsso degli storici filo ­sofici. Parallela, però, sorge in lui l’esi ­genza di accogliere i risultati di quel ­la cultura umanistica erudita o anti ­quaria, contro cui s’appuntavano gli attacchi e l’ironia dei filosofi.

Tornato a Londra, Gibbon scrive nel 1759 epubblica nel 1761 l’Essai sur l’étude de la littérature,un saggio, che, iniziato a Losanna nel 1758, di ­mostra apertamente « quanto avanza ­to egli fosse sulla via della storia filo ­sofica combinata con una certa pro ­pensione per gli studi antiquari » (Momigliano). D’Alembert, che nel Discours préliminaire à l’Encyclopédie (1751) aveva espressamente avversato la erudizione, vi è criticato. Il Dictionnaire historique et critique(1695-97) di Bayle vi è, invece, esaltato come « un monumento perenne della forza e della fecondità dell’erudizione ac ­compagnata col genio ».

Nel 1763 Gibbon è nuovamente in Europa. Dal gennaio al maggio è a Parigi, in contatto con D’Alembert e Diderot. Dimora per la seconda volta a Losanna fino all’aprile 1764. Quindi è in Italia per un viaggio di un anno, fino al maggio 1765, attraverso Torino, Milano, Genova, Lucca, Firenze, Ro ­ma, Napoli, Venezia, Verona.

Il 15 ottobre 1764 i monaci canta ­vano il vespro nel tempio di Giove sul Campidoglio. Fu una commozione improvvisa e soprattutto polemica, dalla quale doveva nascere la History of the decline and fall of the Roman empire.

Gibbon aveva cercato a lungo il sog ­getto per un suo studio storico e nel ­l’autobiografia si presenta come « na ­turalmente appassionato alla cono ­scenza storica » (Momigliano). Dopo l‘Essaied ancora durante le brevi pa ­rentesi della sua vita militare, dal maggio 1760 al dicembre 1762, pensa a « vari soggetti per una composizione storica »: alla spedizione di Carlo VIII in Italia, alla crociata di Riccardo I, alle guerre dei baroni, alla storia di Edoardo di Galles (il « principe ne ­ro »), alla vita di sir Walter Raleigh (Autobiography, a cura di J. B. Bury, Oxford 1931, p.118).

Ma, pur quando aveva in mente tali progetti, i suoi concreti interessi si volgevano sempre all’antico. Già nell’Essaiaveva considerato il problema della decadenza di Roma; ma a defi ­nir meglio il suo ambito di ricerca interveniva il secondo periodo di Lo ­sanna. Nel dicembre 1763 rifletteva sul De reditudi Rutilio Namaziano. Più propriamente la risentita influenza di Machiavelli e la rinnovata lettura di Montesquieu gli riproponevano, a fianco del tema della formazione del ­le moderne nazioni europee dal Me ­dioevo, quello della fine del mondo antico e della sua dissoluzione nel Medioevo.

Quel Medioevo, che Voltaire aveva sì definito come l’età della rozzezza e della superstizione, ma che nella Hi ­story of Englanddi Hume (1762) era sentito in tutta la complessità del suo « spirito » (romantico, bigotto, super ­stizioso) e di cui Robertson traccerà in seguito, nella magistrale introdu ­zione alla History of the emperor Charles V(1769), un ampio panorama retrospettivo. Da ultimo, L’Histoire du Danemark,che Mallet aveva comincia ­to a pubblicare nel 1758, lo portò nel 1764 a considerare le ragioni e le con ­seguenze del diffondersi del cristia ­nesimo fra le popolazioni germaniche.

La Storia della decadenza e caduta dell’impero romanocominciò ad ap ­parire a Londra nel 1776 presso Straham and Cadell. Nessuna originalità nel campo delle idee filosofiche la ca ­ratterizzava. La sua composizione era guidata dalle conclusioni precedenti di Montesquieu e di Voltaire.

Montesquieu aveva mostrato nelle sue Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence(1734) che il problema del ­la dissoluzione dell’impero costituiva il prosieguo dell’altro problema della derivazione dell’impero dalla repub ­blica: il tutto necessariamente, secon ­do una linea determinata di sviluppo, in cui gli stessi elementi più decisa ­mente volontaristici cedevano davanti ad un’interpretazione organica e na ­turalistica. La fine della repubblica viene additata nell’introduzione di un esercito mercenario, sempre più in ­capace di difendere lo Stato. L’autori ­tà militare spezza l’equilibrio dei po ­teri ed annienta la repubblica; e quan ­do i successori degli Antonini abusa ­no del potere delle armi la fine del ­l’impero è segnata.

Così, Gibbon poteva affermare nel ­le sue « osservazioni generali sulla ca ­duta dell’impero romano d’Occidente », che chiudono il XXXVIII capito ­lo della Storia:

« La nascita d’una città, che crebbe al punto da formare un impero, può me ­ritare come un prodigio singolare la me ­ditazione d’una mente filosofica. Ma la decadenza di Roma fu il naturale ed ine ­vitabile effetto della sua smisurata gran ­dezza. La prosperità maturò il germe della caduta, le cause della distruzione si moltiplicarono coll’estendersi delle conquiste e appena il tempo, o il caso, ne rimossero gli artificiali sostegni, quel ­la stupenda mole cedette alla pressione del suo proprio peso. La storia della sua rovina è semplice e ovvia, e anzi ­ché indagare perché l’impero romano fu distrutto, dovremmo piuttosto mera ­vigliarci che sia durato così a lungo. Le vittoriose legioni, che in guerre lontane acquistarono i vizi degli stranieri e dei mercenari, prima oppressero la libertà dello Stato, poiviolarono la maestà del ­la porpora ».

Alla stessa maniera, il disegno della storia di Roma, col quale termina nel VII capitolo il paragrafo sul regno di

Filippo l’Arabo, risente tutto di Mon ­tesquieu. E certo a Montesquieu si de ­ve, ancora, se lo storico inglese, sep ­pur con orizzonti e su piani diversi, abbia cominciato la narrazione con un capitolo sulla forza militare del ­l’impero e sia stato successivamente attento ai mutamenti della sua orga ­nizzazione.

Montesquieu aveva considerato la decadenza dell’impero fino alla con ­quista di Costantinopoli da parte di Maometto II (29 maggio 1453). L’esem ­pio fu decisivo per Gibbon: il LXVIII capitolo della Storiaè dedicato all’as ­sedio ed alla caduta della città, alla schiavitù dei Greci, alla fine della parte orientale dell’impero.

In Montesquieu la continuità fra Roma e Bisanzio è pienamente avver ­tita, ed è chiara altresì la continuità del tramonto dell’impero. In questo senso, il progresso della religione cri ­stianae la completa cristianizzazione dell’impero non sono che’ un elemen ­to della decadenza, se non una forma nuova di essa. Ma è con Voltaire, nell’Essai sur les moeurs et l’ésprit des nations(pubblicato definitivamente nel 1769), che la contrapposizione di cristianesimo ed impero viene asso ­lutamente determinata. La vera de ­cadenza ha inizio con Costantino, e la diffusione della fede cristiana ne rap ­presenta il motivo fondamentale. Gli imperatori tenevano ormai unicamen ­te concili. Il cristianesimo apriva le porte del cielo, ma rovinava l’impero. Le conclusioni di Voltaire non aggiun ­gono nulla a quelle di Montesquieu; ma, senza Voltaire, la certezza che ha Gibbon, allorché espone « l’urto tra cristianesimo e paganesimo ed il pe ­netrare del cristianesimo nel corpo già putrido dell’impero » (Meinecke), non può essere completamente capita.

Ma, se la derivazione di Gibbon da ­gli illuministi francesi è certa, certi sono anche i punti, « sui quali non po ­teva essere d’accordo » con loro. Alle critiche ed agli apprezzamenti già ri ­feriti dell ‘Essaisi affiancarono in se ­guito le annotazioni dei diari a propo ­sito di Voltaire, di Mably, di Erasmo da Rotterdam. L’atteggiamento di Ro ­bertson, critico nei confronti dei phi- losophes,non poteva restare senza influenza su Gibbon, che avvertiva d’altronde l’importanza delle scoperte di Ercolano e delle necropoli etrusche e, a Losanna, preparava lungamente il proprio viaggio in Italia.

Gibbon, insomma, era preoccupato (a differenza degli storici filosofici) del problema di « mantenere il rigore della ricerca storica » e tentare di « unire insieme il filosofo e l’antiqua ­rio » (Momigliano). Anche quando il discorso si fa più scopertamente « il ­luminista », la narrazione è sempre più attenta, più approfondita nella determinazione del soggetto.

In verità, la « combinazione » del fi ­losofo e dell’antiquario, alla quale Gib ­bon tendeva e che caratterizzava (ma con impegni affatto diversi) la Geschichte der Kunst des Altertumsdi Winckelmann (1764), costituisce la novità più importante della sua Sto ­ria,e per essa la tradizione umanisti ­ca, non « sommersa sotto il peso della storia filosofica » (Momigliano), passò nel successivo metodo storico otto ­centesco. Ma un altro segno della sto ­riografia romantica trova le sue radi ­ci in quella sintesi compiuta da Gibbon: il dissidio, cioè, fra la narrazio ­ne dei singoli fatti e la ricostruzione del processo storico generale. Dissi ­dio, che richiama direttamente Her ­der e Ranke e che poteva allora giu ­stificare le annotazioni di Spedalieri.

il tema della decadenza e della ca ­duta dell’impero romano comportava di per sé l’interesse verso le società, che da essa vennero formandosi. Il quadro della narrazione poteva così, estendersi fino alla Cina ed all’Arabia e l’opera diventare un’ampia « rasse ­gna di popoli guardata dall’alto del Campidoglio ». Non solo, ma l’appro- fondimento, e meglio la disposizione della materia storica si dimostrava tale che non fosse sufficiente « accen ­nare agli influssi deleteri dei popoli stranieri sulle sorti di Roma », e ri ­chiedeva che ognuno di essi fosse rap ­presentato « con la sua individualità e col suo destino » (Meinecke).

Di fatto il punto essenziale della Storia di Gibbon era il tramonto della cultura antica, la trasformazione, cioè, politica e religiosa, per cui dall’impe ­ro di Roma poté poi svilupparsi l’im ­pero cristiano.

Con Voltaire lo storico inglese ve ­deva nella conversione di Costantino il momento cruciale della storia im ­periale romana, allorché il « lento e segreto veleno », che agiva nelle vi ­scere dell’impero, ebbe accelerato il suo effetto. Ma, in un accertamento dei fatti « molto più serio di quello di Voltaire », Gibbon considerò la « rivo ­luzione di Costantino » intimamente connessa con le cinque cause, che fa ­vorirono il rapido sviluppo e l’affer ­mazione della chiesa di Cristo (zelo inflessibile ed intollerante, dottrina dell’immortalità dell’anima, poteri tau ­maturgici della Chiesa primitiva, pu ­rezza ed austerità dei primi cristiani, unità e disciplina nell’azione) e la presentò come un « corollario al pro ­blema delle persecuzioni », durante le quali maggiormente aveva rifulso la « forza organizzativa del cristianesi ­mo » (Mazzarino).

Questa connessione, però, del pro ­blema costantiniano con quello delle persecuzioni rimandava da ultimo ad un’esigenza più vasta, a quella, cioè, di considerare unite, non separate, « la progressiva vittoria del cristia ­nesimo e la progressiva crisi del mon ­do antico », abbattendo qualsivoglia barriera esistente fra la storia, la po ­litica e la storia ecclesiastica. Un’esi ­genza, soddisfatta appena dalle ricer ­che del secolo seguente e soprattutto assolutamente nuova, nei confronti stessi di quegli storici della statura di un Sarpi, di un Tillemont, di un Giannone, che più si erano volti alla storia della Chiesa e che Gibbon ammirava e studiava.

Nel 1788 i sei volumi della Storia di Gibbon erano ormai completati. Lo storico vi aveva lavorato continuamente, nonostante il suo incarico par ­lamentare (1774-1780) e durante la sua nuova permanenza a Losanna (dal 1783). A mano a mano che vedeva la luce, l’opera suscitava approvazioni e polemiche. Robertson, Ferguson, Hume vi consentirono immediatamente. Ma Hume, pur fra le sue congratula ­zioni, avvertiva l’autore che di certo le sue tesi sulla religione cristiana non avrebbero mancato di sollevare con ­tese.


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