PITTURA: I MAESTRI: Giovanni Carnovali detto il Piccio15 Agosto 2014 di Raffaele De Grada Bergamo, 26 settembre. Giovanni Carnovali detto il Piccio (« il piccoletto », in detto familiare bergamasco) nacque il 29 settembre 1804 a Montegrino, presso il lago Maggiore, ma la sua forma zione è bergamasca. Fu in fatti un bergamasco, il con te Spini, il primo ad apprez zare il talento di disegnato re del dodicenne Carnovali, fu questo aristocratico illu minato a farlo entrare al l’Accademia Carrara con Giu seppe Diotti, fu lo stesso Diotti a scoprirne le eccezio nali qualità e a Bergamo, nel l’intimità tiepida delle case ottocentesche, entrarono una gran parte delle opere del Piccio, che visse appunto tra Bergamo e Cremona, tra Ber gamo e Milano. Ora queste opere bergamasche del Piccio, sottratte per due mesi alla contemplazione e alla medita zione degli eredi proprietari, sono esposte in una bella an tologia nella Galleria Loren zelli di Bergamo, che ci pre para ogni anno una sorpresa: Evaristo Baschenis, Michele Maneschi, Fra Galgario, la « natura morta », i veneziani del Settecento. Il ritrattista Questa antologia del Piccio si collega direttamente a quel la di Fra Galgario, esposta tre anni fa. Per due ragio ni: una, ovvia, che il Piccio è la più grande figura del l’Ottocento lombardo berga masco come Fra Galgario lo fu del Settecento, l’altra, me no ovvia, che in queste sale del Piccio noi facciamo la conoscenza dei nipoti e pro nipoti dei personaggi di Fra Galgario, in questa eredità del ritratto lombardo che, capostipite G.B. Moroni, si segue come uno degli aspetti sociologici più interessanti, epoca per epoca, dell’Italia degli ultimi secoli. Ogni popolo ha la sua ca ratteristica figurativa. Come ai siciliani piacque sempre di fantasticar coi « pupi », così ai bergamaschi fu connatu rale leggere i volti, ritrarre fi sionomie, indagare l’anima, per lasciare qualcosa che continui, caro fantasma, per le generazioni avvenire. Un grande ritrattista, dunque, il Piccio, e in queste sale di Lorenzelli si conferma come diaframma tra il personaggio dipinto e gli altri, il pubblico, una specie di classico spec chio di fisionomie. Ritrattista nel senso pieno, cioè uno che sa trarre la leggiadria di una giovinetta o la burbera appa renza di uno dei tanti che in contri per strada, di cui ognu no si dimenticherebbe tra poco, e custodirla per sem pre con quella tipizzazione realistica che estrae dall’ano nimato l’individuo e ci fa ve dere quello che soltanto l’ar tista ha saputo cogliere. Ma il Piccio non fu soltan to un grande ritrattista e tale che la sua fama non soffri rebbe se fosse stato unica mente un autore di ritratti, come il Moroni e il Galgario. Stupisce invece ancora oggi (ma il carattere dell’uomo e le condizioni di una società hanno la loro parte, eccome, nel prodursi di una fama) che per tanti decenni â— lui vivente, cioè fino al 1873, e dopo la sua morte â— non ci si fosse accorti che il Piccio aveva segnato il momento più bello nei quarant’anni che vanno dal 1830 al 1870, anni in cui deperì completamen te il neoclassicismo, si svi luppò la concezione romanti ca fino alle ultime conseguen ze della « scapigliatura ». Stu pisce ma fino a un certo punto, perché sappiamo come vanno le cose dei contempo ranei e questa nuova mostra bergamasca del Piccio, che viene a diciotto anni da quel le ufficiali di Varese e, ap punto, di Bergamo, va inte sa ancora come una lezione. I contemporanei credettero che il maestro del Romanti cismo fosse Francesco Hayez e che la grande « novità » fosse la pittura di storia. Il Piccio non fece mai un qua dro storico. La sua cultura (perché il Piccio era assai più colto di quanto gli epi sodi strambi della sua bio grafia facciano supporre) era invece vòlta alla Bibbia e alla mitologia, al modo set tecentesco, così che egli ap parve ai contemporanei co me un ritardatario, un arti sta fuori tempo. E’ un er rore che si ripete di genera zione in generazione. E oggi non si crede forse, per errore analogo, che chi tenta un racconto sia fuori del tempo, sia un superato? La grandezza del Piccio fu proprio quella di essere sta to un vero pittore « fuori del tempo ». Guardandomi que sti bozzetti picceschi nelle sa le di Lorenzelli, questa pittu ra che discende dai grandi veneti del Cinquecento e da Rubens, per il tramite del Tiepolo e, curiosamente, del miglior Settecento francese, mi figuro come essi potesse ro apparire ai contempora nei. Con le loro pennellate guizzanti, tutte luce e colo re, sempre debordanti in una fantasia inventiva che scat ta in bagliori improvvisi, es si apparivano agli estensori di superfici lisce e chiaro scurate poco più che i ten tativi di un dilettante, ripen samenti impotenti di schemi tiepoleschi. Una sorpresa Eppure la storia ha dato ra gione al Piccio e torto all’Hayez e alla sua scuola o almeno ha ridimensionato i termini del confronto, allora neppure pensabile, illuminan do di una insospettabile in telligenza tutti quei piccoli e medi collezionisti locali ber gamaschi che hanno conser vato gelosamente le tele del Piccio. La mostra di Loren zelli infatti comprende tutte opere di collezioni bergama sche. Tra le altre, al posto d’onore, figura la famosa « Agar nel deserto », commis sionatagli per la chiesa di Alzano Maggiore, un paesetto della Bergamasca, nel 1840 e consegnata nel 1863, che, dopo tante polemiche, gli fu rifiutata. A rivederla oggi, specialmente accanto allo splendente bozzetto, si avverte come il Piccio vi ab bia lavorato con la museruo la. La felicità inventiva del bozzetto, un’oasi di frescura che rovescia il racconto pie tistico della donna ripudiata, è castigata da una pennella ta, nel quadro per la chiesa, volutamente aulica, quasi sei centesca. Eppure l’« Agar » sconvolse la dotta critica del tempo e Pasino Locatelli gli dette il colpo finale, sanzio nando la posizione antiufficiale del Piccio che sembrò destinato a raccogliere soltan to i piccoli allori di provincia. Ma intanto un amico e pittore, Giacomo Trécourt, insegnante all’Accademia di Pavia, di dove uscirono Cre mona e Faruffini, in un me morabile articolo sul Giorna le di Arti e Mestieri, nel di fendere l’« Agar » aveva in tuito la vera, stabile, fortuna del Piccio. Una semplice in tuizione: il Piccio â— disse il Trécourt â— ha dipinto la scena all’aria aperta, come era in natura, e ha traspor tato il quadro sacro dallo stu dio alla natura. Era il 1863, uno dei primi anni della vi cenda macchiaiola e impres sionista. Il Piccio, caduto a Bergamo, si sollevava sulla scena italiana e, perché no?, internazionale, come uno dei primi artisti che avevano su perato le sovrastrutture intel lettualistiche del tempo per accogliere le nuove emozioni del sentimento della natura. Letto 2331 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||